Il Libro dell’Esodo: Meditazione 3

Capitolo 2,1-25

Il secondo capitolo dell’Esodo si presenta ricco di temi che troveranno più avanti, nel corso del libro, giustificazione e sviluppo. Cercheremo perciò di coglierne il maggior numero possibile, pur senza approfondirli, perché li incontreremo di nuovo e sarà quello il momento in cui ne vedremo le sfaccettature.

Intanto possiamo individuare tre passaggi di contenuto, anche se, sintatticamente, tutto è presentato come una narrazione continua e senza soluzione di continuità:

  • vv. 1-10 nascita di Mosè;
  • vv. 11-22 circostanza della sua giovinezza e maturità;
  • vv. 23-25 atteggiamento di Dio.

Notiamo che i primi due blocchi finiscono allo stesso modo, in altre parole con la proclamazione del nome del protagonista e del suo primo figlio: dalla sua nascita alla sua capacità di far nascere è come se si concludesse un primo ciclo della sua esperienza umana.

I primi due blocchi hanno un po’ le caratteristiche del “racconto di formazione”. Normalmente la Scrittura non è troppo generosa di notizie quanto alla vita privata dei suoi eroi; lo è però funzionalmente alla missione loro affidata: ci racconta in pratica di loro quanto è necessario sapere in ordine al compimento della loro vocazione/missione.

Vediamo perciò il racconto della nascita e della formazione di Mosè come anticipo di quanto dovrà agire nel futuro. Le circostanze della nascita sono abbastanza singolari: Mosè viene legittimato a pieno titolo come appartenente ad una tribù prestigiosa: quella cui sarà poi affidato l’esercizio del culto. Nasce in una famiglia regolare: non ci è detto il nome dei genitori, che evidentemente non ha importanza ai fini del racconto, a differenza di quello della tribù. Della sorella, Miryam, che pure qui svolge un ruolo essenziale, ci verrà detto il nome più avanti; il fratello (‘Aharòn) Aronne ora non è neppure ricordato.

Protagoniste del racconto della nascita sono tre donne. Anzitutto la madre che, in un certo modo, fa nascere Mosè più di una volta: partorendolo prima, nascondendolo poi e educandolo nei primi anni (lo svezzamento avveniva verso il terzo anno) in modo da assicurare l’identità ebraica del figlio.

E’ interessante l’espediente di affidare il bambino ad una cesta posta sull’acqua del fiume. La cesta si chiama tehà, termine che nell’A.T. troviamo solo due volte: qui e per quello strano naviglio che noi chiamiamo “l’arca di Noè”. Si tratta di un recipiente fragile, evidentemente, ma capace di compiere un buon servizio: in questo senso è un segno della grazia, un mezzo che mette in luce la potenza di Dio e la sua volontà salvifica: gli egiziani avevano imbarcazioni approntate secondo la tecnologia qui accennata, ma un conto è costruire in cantiere e un conto fabbricarsele in casa, magari…dovendo salvare otto persone e tutti gli animali.

C’è poi la sorella, non meno di una seconda madre, capace di vegliare sul destino del bambino e di intervenire con decisa discrezione. La tradizione rabbinica attribuisce grande potenza ai meriti di Miryam, che resta un modello della capacità femminile di intervenire con grande tempismo e senso delle circostanze.

Infine c’è la figlia del faraone: neppure di lei si assegna un nome proprio e, a ben guardare, l’anonimato delle tre donne fa risalire ancora di più la solenne proclamazione del nome del bambino (v.10); tuttavia il suo ruolo non è meno importante rispetto a quello della madre e della sorella. Alla figlia del faraone tocca non solo imporre un nome al bambino, ma anche la formazione di Mosè fanciullo e adolescente.

Nonostante l’etimologia popolare del “tratto dalle acque”, in assonanza con un verbo ebraico e comunque affascinante perché legata al passato di Mosè ma, in certo modo, anche al suo futuro, il nome del fanciullo è verosimilmente egiziano. Forse è il suffisso che significa “figlio”, cioè quanto rimane (l’ultima parte) di un nome composto come ne esistevano secondo l’uso: Tutmose, Ramses, e simili.

Il ragazzo cresce quindi con una doppia identità: da una parte è un assimilato, dall’altra deve pur conoscere la propria reale provenienza, se il secondo blocco del testo lo presenta in azione tra gli ebrei.

Allora in quei giorni Mosè crebbe e uscì verso i suoi fratelli.

Senza esplicitare, il testo evoca una frequentazione che ha già il sapore dell’esodo, grazie al verbo uscire, come se Mosè vivesse a corte o comunque in ambiente egiziano, ma aprendosi alla consapevolezza della situazione degli ebrei percepiti come fratelli e quindi, gradatamente, ad una nuova e diversa necessità di raggiungerli.

Tale consapevolezza matura in due momenti cruciali. Il primo è di pura reazione al servaggio cui gli ebrei sono sottoposti: è una resistenza armata che finisce nell’assassinio, ma è un segno profetico del ruolo salvifico che Mosè assumerà (vv.11-12). Il secondo è l’amara constatazione che il servaggio, anziché creare solidarietà e legare il popolo in un forte vincolo d’unione reciproca, tende invece a sgretolarlo con la discordia e la delazione (vv.13-14).

La coscienza di Mosè matura tra elementi diversi: quello che apprende tra gli egiziani lo renderà conoscitore degli itinerari nel deserto e di fenomeni quale il passaggio stagionale degli uccelli; lo spettacolo della situazione ebraica risveglia in lui il senso d’appartenenza (come accade a molti ebrei assimilati che riscoprono la loro ebraicità solo in grazia degli antisemiti) e della libertà come necessaria per riconoscersi popolo. Nel complesso Mosè gode di una formazione anomala, che però non è ancora completa.

Il medesimo secondo blocco ce ne mostra l’ultimo stadio, quando Mosè torna, per così dire, alle sue radici e dell’intero popolo. La necessaria fuga dall’Egitto infatti (v.15) lo riporta all’ambiente dei patriarchi, al mondo delle promesse e dei padri.

Evidentemente non è sempre vero che si cresca attraverso scelte autonome e motivate. Può accadere che alcune scoperte, e forse le più importanti, avvengano attraverso errori, necessità, dure circostanze. Mosè torna, con la fuga in Madian, all’esperienza originaria degli ebrei, ne avremo conferma nel capitolo che segue. Per ora assistiamo a scene di vita beduina, già viste nelle storie dei patriarchi: incontri al pozzo, violenza spicciola con le donne, ospitalità, vita di clan.

Con la fuga Mosè riguadagna il proprio passato remoto, che forse neppure conosce, ma guadagna anche il proprio personale futuro, attraverso il matrimonio con Sefora.
In particolare il suocero è un personaggio degno d’attenzione. Compare a più riprese nell’A.T. e con nomi diversi: è sacerdote senza nome in Es.2,16; si chiama R’uèl in Es.2,18 e Nm.10,29; e ancora Yitrò in Es.3,1; 4,18; 18,1ss. E’ un uomo attento alle circostanze, creativo e flessibile, capace di cogliere il momento con decisioni adeguate. Es.18, specialmente, ne mostra tutte le capacità.

Ma il futuro è nel nome del figlio, attraverso il quale Mosè mostra di aver colto il senso delle proprie radici. Anche l’etimologia di Gersòm è popolare e tiene conto solo del fatto che “ger” significa profugo, vale a dire “emigrato”, ma con una connotazione negativa: tale è davvero la condizione del fuggiasco Mosè. Questi etimo del nome del figlio indica un futuro non troppo dissimile dal passato: tutta la vita di Mosè sarà all’insegna del nomadismo, al quale è negata persino la meta che Mosè stesso persegue per il popolo e per sé.

Egli infatti non entrerà nella terra giurata ai padri e resterà sconosciuta la sua tomba, come sapremo dagli ultimi capitoli del Deuteronomio. Continuerà, in certo modo, ad essere un nomade, se non proprio un profugo, un vero modello, in questo senso, della dinamica che presiede alla vita spirituale ebraica e cristiana che si spinge sempre verso l’Oltre.

Il terzo ed ultimo blocco del nostro capitolo (vv.23-25) proviene da una tradizione diversa da quella dei due precedenti, pur senza interrompere l’ordine della narrazione. I commentatori sono concordi nell’attribuirlo alla tradizione sacerdotale (P), di cui ha il maturo linguaggio teologico.

Notiamo subito che la nostra storia si era aperta con una denuncia dell’oblio in cui era caduto Giuseppe presso la memoria egiziana (Es.1,8); ora siamo messi di fronte invece alla memoria divina (Es.2,24): Dio “ricorda”, in altre parole fa agire la sua memoria salvifica e recupera egli stesso la memoria dei patriarchi con i quali si era compromesso uno per uno: Abramo, Isacco, Giacobbe.

Mosè è stato costretto a trovare la propria maturità a ritroso, ridiventando, da raffinato egiziano qual era, un beduino seminomade, abile quanto si voglia, ma certo di stato sociale inferiore. Così Dio è come richiamato alla memoria delle sue passate compromissioni e a rendersi direttamente presente nella storia degli israeliti da una circostanza quale la morte del re d’Egitto e, soprattutto, dai loro gemiti.

Più singolare è invece il fatto che, finora, gli israeliti siano stati sullo sfondo dell’intera vicenda: è passata una “moltitudine di giorno” (v.23) prima che si decidessero di levare il loro lamento. Il testo non afferma che lo levassero specificamente verso Dio. Esso pare un gemito privo di un destinatario specifico: Dio invece lo ascolta pur se non è rivolto precisamente a lui, perché ascolta ogni grido d’oppressione, e vi si riconosce, tanto da rendersi presente ad Israele e prendere l’iniziativa.

Dal punto di vista teologico, va infine notato che parlare di un Dio che “ricorda” non è un semplice antropomorfismo, ossia un attribuire a Dio sentimenti o atteggiamenti umani perché se ne ha ancora una conoscenza rudimentale, ma un modo molto raffinato per coniugare la provvidenza divina coinvolta nelle umane vicende e l’assoluta trascendenza e libertà divine.

L’Eterno si occupa degli uomini, ma non coincide con alcuna realtà umana; vive con il suo popolo, ma è nei cieli; è una realtà personale in dialogo con gli uomini, non una forza o un’energia indistinta mescolata dentro la creazione. Egli è il provvidente Dio dei padri e il totalmente Altro, che cerca un uomo e un popolo con cui mettersi in relazione, “tagliare” un patto, vivere un’amicizia e una comunione.