Il Libro dell’Esodo: Meditazione 8

Capitolo 12, 1-51

Dopo un lungo e accidentato percorso siamo giunti adesso ad una specie di crinale: il testo in oggetto è, infatti, di straordinaria importanza per la comprensione della vita d’Israele, di Cristo e della Chiesa, è un testo che dovremmo, se non proprio conoscere a memoria, avere comunque familiare, almeno per le sue numerose assonanze liturgiche. Notiamo anzitutto che ci troviamo di fronte ad una serie di prescrizioni che sembrano interrompere la narrazione.

Dopo il concitato finale della storia dei flagelli, ci aspetteremmo che il racconto mantenesse lo stesso ritmo e si procedesse a descrivere il seguito dei fatti: per esempio gente che si prepara a partire, Mosè che ordina come organizzarsi. Il Faraone che stabilisce sistemi di più stretta sorveglianza. Al contrario il redattore si ferma per dare una serie di prescrizioni rituali. Dal nostro punto di vista certamente non sarebbe il momento.

Oppure, se proprio vuole introdurre qui il rito, dia prima qualche indicazione teologica, una definizione, i motivi del perché e del come. Niente di tutto questo: qui si fa pedagogia attiva, si dice subito che cosa e come fare, perché è lo svolgersi dei fatti passati e di quelli che verranno la necessaria cornice teologica del rito. Chi non ha memoria e non sa guardare avanti perde tutto lo spessore di quel che si prescrive adesso e che si assimila mentre si agisce.

Il nostro redattore dunque, combinando fonti diverse, il che giustifica doppioni e discrepanze, c’introduce ad una celebrazione dalle molte valenze e dai molti significati, che ora cercheremo di analizzare. Troviamo, infatti, nell’ordine:

  1. la prescrizione del sacrificio di un agnello vv.1-14;
  2. la prescrizione di consumare pane non lievitato vv.15-20;
  3. la spiegazione del sacrificio dell’agnello vv.21-27;
  4. una ripresa della narrazione vv.28-42;
  5. ultime indicazioni sul rito vv.43-51.

Naturalmente non possiamo analizzare tutto nel dettaglio, ci soffermeremo su alcuni elementi decisivi.

Il rituale dell’agnello è, alle sue origini, un rito beduino, praticato ancora in tempi (quaranta anni fa, per esempio), da alcune tribù. In primavera, dopo il primo parto del gregge, si lasciano, infatti, i pascoli invernali per migrare verso quelli estivi. A quel punto si uccide un capo d’agnello o capretto che sia, le cui caratteristiche sono indicate dal testo, e si consuma in abito e atteggiamento da viaggio senza lasciare avanzi. Con il suo sangue si sporca il palo principale che regge la tenda per “tenere lontana” la moria del gregge.

Come dire: il nostro tributo agli spiriti maligni della pestilenza lo abbiamo già versato. Questo rito dunque riflette le preoccupazioni e le caratteristiche di un mondo seminomade di pastori, quali potevano essere i patriarchi e, di per sé, non è ebraico. Il testo vuole mostrare come gli Israeliti, al momento della loro liberazione, debbano recuperare la propria identità con un rito e un cibo propri degli antenati, dopo che, con la permanenza in Egitto, hanno rischiato l’assimilazione.

Qualcosa d’analogo vale per la settimana in cui si mangia il pane non lievitato – azzime – (vv.15-20). Gli egiziani erano autentici maestri fornai: possedevano una cultura dei cereali che andava dalla selezione dei semi fino alle tecniche di lievitazione e fermentazione, che consentivano loro la produzione di svariati tipi di pane e di birra. Questo non valeva certo per dei pastori seminomadi che, al più, si contentavano di consumare i cereali sotto forma di farinate o di focacce da cuocere al forno, senza lunghi tempi di lievitazione.

La stessa azzima attuale, che pur richiedendo una lunga ed elaborata preparazione, non deve essere troppo dissimile dal pane dei pastori qui prescritto, assomiglia ad un cracker più che ha un pane vero e proprio, anzi è ancora più secca, va in mille briciole e non ha alcun sapore. Di per sé è difficile sfamarsi con le azzime, che restano un cibo povero, legato, in origine, alla provvisorietà dello spostamento e, nella tradizione ebraica successiva, alla fragilità della condizione umana.

Il tempo dei primi parti del gregge è anche quello in cui comincia la mietitura dei cereali. Agnello e azzima presentano in tal modo le caratteristiche di un popolo di pastori che tende a stanziarsi e a coltivare una terra sua, senza più mangiare un pane o comprato o guadagnato col lavoro servile.

Gli elementi portanti del rito sono dunque non ebraici in origine; sono legati ai mondi culturali in mezzo ai quali gli israeliti vengono a trovarsi e ai quali in parte appartengono. Ora liberazione è certamente uscire dal paese della schiavitù, ma è anche trovare, a poco a poco, la propria identità, riconoscerla e abbracciarla. Questo procedimento avviene qui attraverso il cibo rituale. Non deve sembrarci una stranezza: tutta la storia, letteraria e non, forse anche la nostra storia personale, conosce l’esperienza di un sapore che ci riporta alle nostre origini o al nostro mondo d’appartenenza.

Il vv.21 ss ci presentano la spiegazione del rito dell’agnello in forma narrativa, ossia inserendo direttamente nel contesto della vicenda della partenza dall’Egitto.
Ricompare qui la parola “pasqua”, che era stata solennemente proclamata al v.11, ed è la chiave di tutta la nostra storia.

Il termine ebraico pare significhi “saltellare”, “zoppicare” e quindi indicherebbe in origine una storia di danza rituale in cui si mima la partenza: poiché però può semplicemente significare “saltare”, nel più familiare senso che andare oltre, passa a significare risparmiare o “salvare”, come appare dalla spiegazione di Mosè.
Tale significato in realtà è tardivo rispetto al primo, ma è quello che si è poi imposto: pasqua come passaggio salvifico del Signore. Anche in questo caso succede quel che era già accaduto all’agnello e alle azzime: si parte da un uso pre-israelita e si storicizza attraverso un’esperienza che il popolo vive concretamente e altrettanto concretamente è disposto a celebrare per sempre.

Dobbiamo ora prestare attenzione ad altre due parole che incontriamo nel nostro racconto.

La prima è “memoriale” (zikkaròn v.14). Si tratta di un termine tecnico del culto e indica una serie di parole e di gesti che riportano chi li compie ad un evento antico di salvezza rendendolo presente ad esso, sì che egli stesso ne è partecipe anche se vive secoli dopo e ad enorme distanza. In altre parole l’ebreo che compie oggi i riti della pasqua è riportato alla notte in cui finalmente Israele uscì dall’Egitto: egli è presente coi suoi padri ed è liberato con loro.

La seconda è espressa nella nostra traduzione dal termine “atto di culto” (v.26). L’ebraico ‘abodà significa “lavoro” o “servizio” e può indicare tanto il lavoro manuale (da liberi o da schiavi non importa) quanto quello che anche noi chiamiamo “servizio divino”, cioè la preghiera liturgica. Ora il testo ci pone di fronte ad un gioco di parole: si sta parlando infatti a schiavi che devono essere liberati da un lavoro e gli si propone un servizio cultuale con la stessa parola.

La pasqua è dunque liberazione dallo stato di schiavitù che dà origine ad un culto libero nel quale sta il fondamento della vita del popolo: per esso la dimensione della famiglia è essenziale: lo abbiamo sentito prima, quando se ne parlava a proposito dell’agnello che va consumato in famiglia, e lo vediamo qui, allorché si presenta la famiglia come ambito della continuità di questo culto di generazione in generazione.

Infine c’è ancora un’espressione che merita un momento della nostra attenzione. Si tratta del v.42:

Una notte di veglia fu questa per YHWH.

L’immagine è poetica: ci presenta il Signore come una sentinella che ha montato di guardia tutta la notte della partenza, affinché non sopravvenisse nulla ad impedirla.
Essa suona come una specie di richiamo liturgico: allo stesso modo del Signore, il popolo sia pronto a vegliare per celebrare i prodigi che egli ha compiuto nel momento della liberazione dall’esilio.

Non dobbiamo pensare a questi fatti e a queste disposizioni come a materiale d’archivio. Gli Ebrei celebrano ancora oggi con grande fedeltà, anche se in gran varietà di riti e di modi, persino laici, le disposizioni che abbiamo letto in questo capitolo. Per Israele la notte del 15 nisan continua ad essere notte di veglia per il Signore e per noi. Gesù stesso ha seguito queste regole, come si può in gran parte ricostruire dai vangeli.

Al suo tempo, il centro della pasqua era al tempio: là erano sacrificati gli agnelli che poi ogni famiglia portava a casa per cucinarli e mangiarli. Pasqua era perciò una festa di pellegrinaggio: tutti coloro che avevano raggiunto la maggiore età dovevano recarsi a Gerusalemme e al tempio per lo hag herutenu, la “festa della nostra libertà”.
Essa ha, nella mentalità ebraica, che noi abbiamo ereditato, tre dimensioni: ricorda in maniera efficace quanto Dio ha compiuto nel passato, talché anche noi siamo presenti all’uscita dall’Egitto; ci libera adesso dalle nostre attuali schiavitù; annuncia la liberazione ultima e definitiva che sarà portata dal Messia.

La formula poetica che evoca il Signore come sentinella ci introduce perciò al senso della pasqua come anche noi lo conosciamo. Anche noi infatti celebriamo una “veglia pasquale”. E mentre nella chiesa passano letture e salmi e preghiere potremmo provare a pensare alla Sentinella che veglia prima di noi, con noi e per noi, affinché anche la nostra liberazione avvenga senza intoppi.