Il Libro dell’Esodo: Meditazione 7

Capitolo 10, 21-29 e 11, 1-10

Non leggiamo insieme tutto il complesso racconto dei flagelli, cosa che, per altro, ognuno di noi dovrà fare invece in proprio per non perdere il filo. Il motivo di questa scelta è abbastanza semplice: il racconto dei flagelli procede secondo uno schema abbastanza ripetitivo, benché si avvalga di fonti diverse e quindi non richiede da parte nostra un’attenzione particolare. Quello che diciamo di alcuni, può, in certo modo, valere per tutti quanto all’interpretazione della loro funzione. E’ ben vero che in esso vengono utilizzate fonti diverse e compaiono particolari di un certo interesse, ma una prima lettura dell’Esodo non deve forse puntare troppo sui dettagli. Dopo avere meditato sui primi, passiamo perciò agli ultimi due che, in certo modo, fanno precipitare la narrazione verso l’epilogo: essi sono in una specie di crescendo tale che il Faraone pare messo sempre più con le spalle al muro ed è costretto a lasciar partire gli Israeliti, come Dio aveva annunciato.

Esodo 10 introduce un flagello che ha qualcosa di singolare, anzi: quello che noi consideriamo il flagello biblico per antonomasia. Si tratta, infatti, delle cavallette che nel nostro immaginario rimandano sempre alla rovina e alla carestia, ma che sotto il profilo naturale hanno in questa situazione qualcosa di straordinario. Di fatto, le invasioni di questi insetti sono frequenti nell’Africa settentrionale e nel Vicino Oriente, non in Egitto. Il testo ci mette perciò di fronte ad un evento davvero speciale.

Da Esodo 10,21 incontriamo un fenomeno ancora più singolare: le tenebre. Il racconto, fatto di due fonti incrociate, non è molto chiaro. Non ci dice, per esempio, quale sia la causa di queste tenebre. Potrebbe essere il forte vento caldo che viene da deserto trasportando nuvole di sabbia, fino ad oscurare la luce del giorno; oppure potrebbero essere ancora stormi di cavallette. La causa rimane indeterminata e si gioca certamente su di un effetto psicologico. Tutti noi sappiamo quale sia, per esempio, l’impressione ingenerata da fenomeni naturali improvvisi che sembrano sovvertire la dimensione del tempo nel suo regolare alternarsi di luce e tenebra. Pensiamo per esempio alle trombe d’aria, alle eclissi o anche più semplicemente a certi temporali che annegano il cielo diurno. Il buio può essere simbolicamente legato all’intimità e alla confidenza, ma deve essere un buio normale e previsto. Qui invece cala come un pesante sipario per un numero di giorni che ne svelano tutto il carattere decisivo. Le cose stanno precipitando: questo flagello ha qualcosa che ricorda l’irrimediabilità della morte e come tale viene descritto.

Come facevano gli israeliti ad essere al contrario nella luce? Semplicemente perché abitavano in zone risparmiate o dal vento o dagli insetti? Il racconto dell’ultimo flagello ci affermerà che l’Eterno salta le loro case nella notte della grande strage e qui siamo in una situazione analoga. Ci viene assicurato che Dio sa scegliere e mettere a parte, distinguere e intervenire in maniera diversa. Egli sa riconoscere i suoi se essi si rendono riconoscibili.

Nella tradizione la tenebra diventa un segno eminentemente apocalittico. Essa evoca la prigionia, in epoche in cui “prigione” voleva dire essere rinchiusi letteralmente in luoghi di poca aria e poca luce, non solo con la privazione della libertà fisica. Evoca soprattutto la morte: il sonno è la forma imperfetta della morte, ma più in generale il buio ci rimanda ad un più forte senso d’incertezza circa la nostra vita. Addormentandoci, ci risveglieremo al mattino? Tenebra è inoltre sinonimo di poca limpidezza morale e di corruzione: al tempo di Gesù circolava un libretto scritto dai membri della comunità del Mar Morto (Qumran), intitolato Guerra dei figli delle tenebre e i figli della luce, in durissima polemica coi sacerdoti del tempio di Gerusalemme. Ovviamente i figli della luce, i puri, i casti, gli incorrotti erano i settari estensori del libello. In ogni caso il contrasto tenebra/luce ha qualcosa di decisivo, dopo il quale ci si deve attendere che le cose prendano una piega irreversibile.

Ne abbiamo conferma dal bellissimo finale del nostro racconto, in cui la tensione drammatica arriva al massimo (vv.27-29). Da una parte infatti ritroviamo la solita formula:

Lasciò indurire YHWH il cuore del Faraone e non permise la loro partenza.
Dall’altra ci troviamo di fronte ad una rottura definitiva delle trattative che il Faraone stesso ha pur cercato di mantenere vive fino all’ultimo. E’ notte sull’Egitto, ma è notte anche nelle relazioni tra il sovrano e Mosè: essa anticipa l’ultimo flagello, davvero mortifero con il quale l’Egitto è privato, per così dire, del proprio futuro.

In Esodo 11,7-10 interagiscono tre fonti, abbastanza facili da identificare e che danno ragione di come, per certi aspetti, esso pare un doppione del finale del cap. 10. Che senso può avere la morte dei primogeniti? Finora i flagelli sono stati limitati nel tempo e piuttosto estesi nello spazio. Hanno raggiunto tutto l’Egitto e i suoi abitanti, ma per intervalli di tempo misurati e misurabili. La morte dei primogeniti, annunziata dalla lunga tenebra di tre giorni, si presenta invece come un fatto rituale, perché il primogenito non è un figlio qualunque nel diritto antico. Essa colpisce le persone e il bestiame oltre la loro peculiare esistenza. Gli uomini sono infatti privati dell’erede e di colui che, in qualche modo si pone come garanzia della durata della stirpe. In tal modo l’Egitto resta, come abbiamo detto, privo del proprio futuro. Se ne annuncia così una sconfitta irreversibile, che colpisce anche i suoi mezzi di sussistenza (gli animali: sia il bestiame sia quelli da lavoro sia quelli da trasporto). Comprendiamo allora quale sia tutta la consistenza dei flagelli: essi sono annunciati e poi “accadono” secondo quanto è stato detto, ma devono proclamare la vittoria di Dio sui nemici del suo popolo. Non a caso sono posti in una specie d’orchestrazione che pone, come ultimo, il più grave e drammatico.

Di per sé ognuno dei flagelli si potrebbe spiegare in chiave naturale, tanto più che il testo ce li presenta in un tempo contratto, come fossero uno di seguito all’altro, mentre di fatto possono essersi susseguiti con scadenze diverse. Sono però tutti presentati e riletti in chiave fede yahvista. Potremmo dire che sono sciagure profetiche perché si pongono, ognuna, come una parola divina pronunziata sull’Egitto. In questo senso sono il modello anche di altri simili flagelli che compaiono nella letteratura profetica. L’uomo antico non è preoccupato di ricostruire la genesi scientifica di un fenomeno per prevenirlo in futuro, come facciamo noi, quanto piuttosto di collocarlo all’interno della più generale storia sua e del proprio popolo in quanto evento rivelatore di Dio. In altre parole, i colpi inferti all’Egitto o, in altri testi, al popolo di Dio, non sono considerati in connessione al clima o alla posizione geografica del paese, né si possono sbrigativamente leggere (cosa che talora oggi noi facciamo, a torto, con eventi disastrosi) come “punizioni” al peccato umano. Sono bensì annunzi e richiami ai quali si deve prestare attenzione senza “indurire il cuore”. Il loro scopo è invece quello di rendere il cuore “ascoltante”, come si dice di certi personaggi dell’A.T., ossia capace di leggere i fatti della creazione come fatti della storia della salvezza. Non quindi una natura distinta dalla storia o in conflitto con essa, quale appare in certi sistemi filosofici, ma una creazione organicamente parte dell’opera salvifica di Dio a favore del suo popolo.

Il Dio d’Israele creando salva e salvando crea o ricrea coloro che sono salvati: questo era vero anche per il Faraone se avesse saputo guardare questi flagelli con cuore ascoltante. Certamente Dio non piega a forza, lascia invece che il sovrano indurisca il proprio cuore, cosa questa che la tradizione rabbinica, con grande senso di modernità interpreta, da parte dell’egiziano, come una vigorosa sensibilità per la propria dignità di uomo e di sovrano. Per contrasto, Mosè non ha avuto bisogno di troppe lezioni. Gli anni di corte, la fuga, il deserto sono stati per lui una scuola che lo ha educato ad una diversa capacità di ascolto. Infatti, non è l’esperienza a rendere maturo un uomo, ma la disponibilità a leggere i fatti che cadono sotto l’esperienza e ad ordinarli secondo un criterio che li renda interpretabili. Nel nostro caso il criterio è quello di vedere nell’accadimento una rivelazione o un’indicazione divina, quand’anche l’accadimento sia spiegabile secondo leggi naturali o sociali già note. La sapienza biblica infatti, che è legata alla profezia, legge il mondo come una parabola in cui ogni cosa ha la sua naturale consistenza e il suo valore fattuale, ma, nello stesso tempo, richiama Altro e Oltre. In questo senso il racconto dei flagelli è di straordinaria attualità perché non possiamo negare di essere portati, oggi, a guardare a quanto accade di doloroso e grave con paura, con rabbia, con disgusto persino, ma quasi mai con pensosa attenzione. Tutto si risolve per noi nell’attimo in cui la cosa accade, augurandoci magari che passi il più presto possibile.

In questo caso anche noi, senza saperlo, perdiamo un’occasione e rinunciando ad acquisire un cuore ascoltante, pur senza indurirlo positivamente, e la salvezza divina rischia di passarci accanto senza che noi ce ne accorgiamo.