Riflessioni Pentacostali

LA CHIESA E LO SPIRITO SANTO

1. Lettura degli Atti degli Apostoli

Con la Pentecoste inizia il tempo della gioia, ma anche di lotta, di sofferenza, di croce. “Avrete afflizioni nel mondo” (Gv.16,33), disse Gesù, ma subito dopo aggiunse: “Abbiate fiducia. Io ho vinto il mondo”. Cari fratelli e sorelle, preghiamo perché la Parola di Dio si diffonda e tutti possano ascoltarla e trarne frutti per la Vita eterna.
Cercherò di meditare con voi alcune caratteristiche della Chiesa come appare dagli Atti degli Apostoli, desiderando di aiutarci vicendevolmente nella lettura diretta del testo per plasmare su di lui la nostra vita.

At. 1,4-8 Stando con loro a tavola, comandò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di aspettare la promessa del Padre, “che avete ascoltato da me; perché Giovanni battezzò con acqua, ma voi con Spirito Santo sarete battezzati tra non molti giorni”.
I convenuti allora lo interrogavano: “Signore in questo tempo restaurerai il Regno d’Israele?” Disse loro: “Non sta a voi conoscere il tempo e le circostanze che il Padre ha posto in suo potere; ma riceverete la forza dello Spirito Santo che verrà su di voi e sarete miei testimoni in Gerusalemme e in tutta la Giudea e nella Samaria e fino alle estremità della terra”.

Questi versetti riprendono il filo del discorso di Lc. 24,46-49 cui ci si può rivolgere per vedere come vi tornino gli stessi elementi di base di questo passo.
Com’è descritta da questi versetti l’esperienza cristiana? Possiamo individuare tre momenti:

  • Non allontanarsi / aspettare;
  • Ricevere lo Spirito Santo;
  • essere testimone.

Come mostra il successivo racconto della Pentecoste, At. 2,1-13, il primo momento è sempre una strettoia o un momento di buio e di pazienza nella fede, infatti, occorre fidarsi della promessa e non cercare di conoscere i tempi e momenti sovrapponendo il proprio progetto a quello che il Padre ha già preparato e messo in opera. E’ il momento del “perseverare nella preghiera” (At.1,14).
L’attesa non è fine a se stessa, ma è coronata dall’adempimento della promessa e dall’ingresso di Dio nella storia: lo Spirito Santo, manifestazione della potenza Dio, viene per essere la forza dei credenti se la Chiesa non accoglie questa forza divina che la spinge dall’interno, non può rispondere alla chiamata del Signore.

Infine è necessario muoversi e uscire: il testo mostra un bel contrasto tra il v.4 in cui si afferma che gli Apostoli non devono allontanarsi da Gerusalemme e il v.8 in cui Gerusalemme diventa invece una sorta di centro d’irradiazione con la massima apertura possibile verso il mondo. Ma il problema, appunto, per i credenti, è di saper aspettare che maturi il tempo del progetto di Dio; quelli che a noi possono sembrare episodi, sono fatti da qualche tempo preparati, e con un seguito; il loro vero protagonista è lo Spirito Santo che attraverso di loro guida la Chiesa al suo compimento fino ai confini della terra.

Saper aspettare è importante, perché è una manifestazione della propria fede nella parola e nella promessa di Dio: Dio è padrone del tempo come dice anche Gesù al v.7, e non si tratta di fare conti o previsioni, ma di cogliere i segni che egli manda, così come li manda.
La storia quindi, nella sua dimensione di tempo, è prima di tutto dominio di Dio, mentre il credente è chiamato ad essere testimone superando i limiti dello spazio, con una missione universale che è ineliminabile dall’essere cristiani.
Da ultimo rilevo ancora la centralità assoluta dello Spirito Santo, vero protagonista degli Atti e della storia della Chiesa.

Lo Spirito Santo è “promesso dal Padre” (v.4), perché già i Profeti dell’A.T. avevano parlato di una salvezza sovrabbondante che doveva manifestarsi in Gerusalemme (Is. 2,1ss; Gl. 3,5b; Zc. 12,10ss e 13,1); egli riveste i credenti manifestando nelle loro parole e opere la propria potenza, rendendoli cioè testimoni:
L’identità profonda della Chiesa è proprio questa: missionaria perché testimone e testimone perché visitata e guidata dallo Spirito Santo.

2. Lettura degli Atti degli Apostoli

Abbiamo visto nella riflessione precedente come, fin dal suo inizio, la Chiesa percepisca se stessa e la propria dinamica vitale. All’interno di questa, il ruolo predominante spetta allo Spirito Santo. Ci soffermiamo ora a rileggere il racconto della Pentecoste (At. 2,1-8) per meglio mettere a fuoco quest’osservazione.
Cominciamo da una constatazione preliminare: se mettiamo a confronto l’inizio del ministero di Gesù secondo Luca e l’inizio della vita della Chiesa negli Atti notiamo che tra i due eventi c’è una profonda somiglianza. In ambedue i casi, la presenza dello Spirito Santo p dominante, sia a livelli d’iniziativa che di contenuti.
Gesù si manifesta al battesimo in cui lo Spirito Santo scende e si ferma su di lui (Lc. 3,22), mosso dallo Spirito torna in Galilea (Lc.4,14) e parla dell’evento salvifico che da lui ha inizio con il discorso programmatico della Sinagoga di Nazareth, in cui dominano l’accento universalistico e il costante riferimento alle profezie (Lc. 4,14-30).
Anche la Chiesa nasce in un battesimo dello Spirito Santo (At.2,1-4) e si manifesta col discorso di Pietro come portatrice di una salvezza universale promessa dai profeti (At. 2, 14-36).

Da questo parallelismo derivano alcune conseguenze: la prima e la più evidente è che, manifestandosi come Gesù, la Chiesa deve assumere uno stile di vita conforme a quello di Cristo, teso all’annuncio della salvezza per tutti gli uomini. La seconda è che la Chiesa deve valorizzare al massimo questa presenza dello Spirito Santo che l’inibita accogliendone l’impulso missionario, il linguaggio universale e la forza che si manifesta in franchezza e libertà di parola di là dei rischi che questo può comportare.
Lo Spirito Santo è, prima di tutto, in questo senso, colui che suscita una decisione e compromettersi e a lasciarsi coinvolgere personalmente e a proprio rischio.
Nel racconto della Pentecoste, dello Spirito Santo si parla solo quattro volte: al v.4 (2 volte), al v.33 e al v.38, ma ciascuna merita grande attenzione.

Leggiamo insieme:

“Tutti furono pieni di Spirito Santo e
cominciarono a parlare in altre lingue
come lo Spirito dava loro di esprimersi”.
(At. 2,4)

Da questo versetto emerge appunto come iniziativa e modi d’espressione della Chiesa siano un dono che viene dall’alto. Non si tratta cioè di una comunità che decide in proprio cosa fare, ma di una comunità che dà il proprio assenso all’opera di Dio: lo Spirito Santo suscita il volere e l’operare, come si esprime altrove l’apostolo Paolo (Fil. 2,13), in ordine alla salvezza che non riguarda il gruppo ristretto, ma l’universalità degli uomini.
Questo tratto è sottolineato dalla precisazione “in altre lingue” indicante appunto la prospettiva missionaria della vita della Chiesa, chiamata ad annunciare l’identico Vangelo nella cultura dei popoli. Il fatto quindi di incarnare e inculturare il messaggio di Gesù Cristo non è un problema tattico, ma la necessaria risposta al dono di salvezza di Dio, che lo Spirito Santo suscita e sollecita.
La seconda menzione dello Spirito Santo è nel corpo del discorso di Pietro:

“Esaltato dunque con la destra di Dio,
ricevuta dal Padre la promessa dello Spirito Santo,
(Gesù) ha effuso questo che voi vedete e ascoltate”.
(At.2,33)

In questo caso notiamo che lo Spirito Santo è posto in relazione da una parte alla persona e all’evento di Gesù, dall’altra all’oggi vissuto dagli uomini che Pietro ha di fronte. Questa irruzione del divino nell’oggi dell’uomo è presentata da Pietro come la realizzazione delle promesse dei profeti, ma soprattutto come un fatto che non può lasciare l’uomo com’è. Nessuno dopo un tale accadimento e un tale annuncio, potrà più essere come prima. Si dice esplicitamente nell’ultimo versetto che ci interessa direttamente:

“E Pietro disse: Pentitevi, e ciascuno di voi
si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo
per la remissione dei peccati; dopo riceverete
il dono dello Spirito Santo”
( At.2,38)

Se la Chiesa ha come primo compito quello di accogliere il dono e di condividerlo con coraggio, come mostra l’atteggiamento degli apostoli, chi ascolta è anch’egli messo in condizione di partecipare al medesimo dono che si articola in diversi momenti: annuncio, ascolto, nascita della fede, conversione, battesimo, aggregazione alla Chiesa, rispettivamente.

Quello che importa è che lo Spirito Santo non può essere trattenuto e incatenato; egli genera invece una novità di vita sia individualmente che nella comunità e l’uomo deve lasciarsi coinvolgere e deve compromettersi personalmente con una decisione.
La Pentecoste non è vissuta dagli apostoli come un episodio della propria vita o come una conoscenza superiore di Dio, o come un piano di azione privato: essa è per loro il principio, come il primo giorno della creazione. Non a caso il racconto inizia con la descrizione di una comunità totalmente rinnovata (At,2, 2-28).
Dal testo si vede chiaramente che nessuna buona volontà umana sa sola avrebbe potuto costruirla, ma che essa fiorisce dall’incontro dello Spirito Santo donato da Dio e dal cuore dell’uomo che lo accoglie e lo condivide.

L’iniziativa di Dio è comunque sempre precedente a quella dell’uomo e la presenza dello Spirito Santo è il criterio della vita della comunità cristiana, così come gli Atti ce la descrivono. Possiamo anzi restare sorpresi da questa preminenza del divino, d’altra parte essa è anche l’unica garanzia di successo; se poco fa abbiamo parlato di decisione e di assenso ad un piano, potremmo affermare che l’azione della Chiesa è, soprattutto, una collaborazione all’opera di Dio, che resta sempre al primo posto.
In questo senso dovremmo vedere in che reciproco rapporto gli Atti pongono l’azione e la contemplazione come poli della vita della Chiesa e soprattutto come la comunità degli Atti si ponga di fronte alla Parola di Dio.

3. Lettura degli Atti degli Apostoli

Radunata e allo stesso tempo sospinta verso l’esterno dallo Spirito Santo, la Chiesa degli Atti si presenta a noi, per così dire, in due versioni. La prima, che è anche la più nota, è una versione quasi idilliaca: la comunità vi appare concorde, unita, avendo come punti di riferimento l’insegnamento degli Apostoli, la Parola di Dio, il Tempio, la frazione del pane, la comunione fraterna (At. 2,42-48; 4,32-35). La seconda invece presenta un quadro più realista: esistono anche in questa Chiesa persone che cercano di approfittare delle situazioni (At. 5,1-11) e tensioni tra gruppi diversi (At. 6,1), elementi, questi, più preoccupanti della persecuzione che colpisce dall’esterno, perché mostrano come la realtà degli uomini non cambi automaticamente e come lo Spirito Santo si faccia strada a poco a poco e non senza difficoltà nel cuore dei credenti.

La Chiesa cioè vive con fatica il proprio compito di testimonianza e la stessa prima missione che la sospinge fuori Gerusalemme, secondo quanto Gesù aveva detto (At. 1.8), non corrisponde tanto a una scelta autonoma, quanto piuttosto è indotta dalla situazione creatasi in città dopo la morte di Stefano. La persecuzione infatti genera una diaspora che l’autore degli Atti legge come un fatto provvidenziale (At. 8,4).
L’immagine complessiva della Chiesa delle origini è quindi varia e non dissimile da quella della Chiesa di oggi, che vive momenti alterni di unione e di difficoltà, di chiusura e di fervore. Ma voglio fermare la nostra attenzione, per ora, sui punti di riferimento che la primitiva Chiesa di Gerusalemme riconosceva come suoi propri.

“Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere.
Un senso di timore era in tutti e prodigi e segni avvenivano per
opera degli apostoli. Tutti coloro che erano diventati credenti stavano
insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà
e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo
il bisogno di ciascuno. Ogni giorno tutti insieme frequentavano
il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo pasti con
letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo la
simpatia di tutto il popolo. Intanto il Signore ogni giorno
aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati.(At.2,42-48).

Mi limito a questa prima descrizione che, tutto sommato, ci fornisce elementi sufficienti. Il v.42 ne presenta quattro che pone sullo stesso piano: vediamo come vadano intesi.

L’insegnamento degli apostoli riguarda soprattutto la realtà di Gesù Cristo, come si nota dal discorso di Pietro di At.2,14-40 e dai discorsi successivi per i quali riceverà esplicita proibizione di insegnare (At.4,18). In tale insegnamento colpisce soprattutto l’immediatezza con cui Pietro raccorda alla persona di Gesù le promesse dell’A.T. e la necessità del coinvolgimento personale. Egli colloca sempre Gesù tra due poli: i padri che hanno enunciato o udito le promesse e i suoi attuali ascoltatori che devono adesso compierle nella loro vita. Si tratta di una dinamica semplice ma irrinunciabile.

L’unione fraterna: il termine usato da Luca, Koinonìa, non compare più negli Atti, ma forse si comprende alla luce di At. 2,44 e 4,34-37, dove appunto si parla dell’uso di considerare comuni i beni di ciascuno. Tale situazione di fatto sottende però una decisione che certamente a Luca sta più a cuore, quella cioè di un’effettiva rinuncia all’egoismo personale per accostarsi alle necessità degli altri. Tale rinuncia è sorretta dall’assiduità all’insegnamento, alla preghiera e al prendere pasti in comune, come il contesto mostra, ed è il segnale del compimento delle promesse nell’ambito della vita del credente. Non sono in grado di dire se e fino a che punto questa messa in comune dei beni fosse realmente in vigore e fosse considerata vincolante per chi entrava nella comunità cristiana. Probabilmente si richiedeva una decisione di disponibilità per le necessità comuni, che certo era moralmente importante anche se non imposta, come mostrano gli opposti atteggiamenti di Barnaba e Anania e Saffira (At.4,36-5,11).

La frazione del pane e le preghiere alludono alla dimensione liturgica della vita della comunità: ancora non è avvenuta la frattura col giudaismo e quindi i credenti frequentano il tempio di Gerusalemme; ma anche a casa, tra loro, pregano e spezzano il pane durante il pasto comune a memoria di quanto fatto dal Signore. Tale dimensione liturgica non deve essere sottovalutata. Anche se noi possiamo dirne poco perché non ne sappiamo altro che queste poche indicazioni forniteci dal testo, essa è evidentemente una dimensione primaria e costitutiva della vita cristiana.

In questo primo quadro della comunità manca la dimensione missionaria in senso stretto, nel senso cioè della missione “ad gentes”. La Chiesa è dotata invece di una fecondità interna e inconsapevole; il testo parla infatti di “segni e prodigi” usando una coppia di termini che rimanda al linguaggio dell’Esodo e precisa che il Signore aggiungeva alla comunità i salvati. Il Signore è quindi il principale protagonista; la comunità, dal canto suo, offre la propria testimonianza lì dove si trova, senza programmare. Ancora una volta sembra attendere il segno che le indichi chiaramente la necessità di espandersi e di prendere nuove strade..

4. Lettura degli Atti degli Apostoli.

Nonostante problemi e contraddizioni, la vita comunitaria della Chiesa, che abbiamo considerato nella terza lettura, testimonia comunque una situazione vissuta e sperimentata da coloro che ne fanno parte. Potremmo chiamare tale situazione “salvezza” e la pericope che abbiamo appena riletto insieme vi fa cenno verso la fine:

“Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva
alla comunità quelli che erano salvati”
(At.2,47)

Evidentemente il termine “salvati”, riferito a coloro che si aggregano alla comunità cristiana, proietta la sua luce anzitutto sulla comunità stessa, che si percepisce come oggetto e come luogo di salvezza; ma in definitiva da dove viene questa percezione e che cosa significa concretamente per coloro che la vivono?

Rispondere a questa domanda significa anche, indirettamente, mettere a fuoco contenuto e stile della missionarietà della Chiesa, così come appaiono negli Atti.
La prima constatazione da fare è che la Chiesa primitiva, dopo la Resurrezione del Signore, la sua Ascensione al cielo e la Pentecoste, avvertesi essere entrata nel tempo ultimo, nel quale le promesse fatte a Israele attraverso i patriarchi e i profeti sono compiute. Non solo: esse sono compiute in maniera sovrabbondante, perché non sono rivolte più solo a Israele, ma a tutte le genti.

Questa coscienza in particolare si fa strada molto lentamente nella Chiesa che, alle sue origini, è tutta e solo giudaica; e gli Atti, oltre a fornirci la testimonianza di questa apertura d’orizzonte, mostrano anche quanto questo cammino sia stato lungo, controverso e talora doloroso.

Che i cristiani si percepiscano “salvati” significa, inoltre, non degli scampati causali a un evento catastrofico, ma persone liberate dal male e da una situazione di male per un preciso piano di Dio.

“Salvatevi da questa generazione perversa”
(At.2,40)

dice Pietro il giorno di Pentecoste, intendendo parlare di un giudizio di condanna che incombe sul mondo e sulla sua mentalità. Tale liberazione dal male e dal giudizio sul male, dal peccato e dalla morte, che in Gesù Cristo si rende accessibile a tutti, è ciò che gli Atti chiamano “salvezza”. Salvati sono perciò coloro che nell’adesione all’evento di Gesù Cristo configurano ad esso la loro vita in un cammino di conversione personale e comunitaria.

Non si tratta di un pietismo, ma di una forza in grado di sconvolgere il mondo che, con il suo peccato, pronuncia su di sé la propria condanna. Il riferimento a Gesù Cristo, allorché gli Atti parlano di salvezza, non è sempre esplicito, ma è comunque costante. Gesù è il Salvatore (At.5,31; 13,23), colui nel cui nome si può essere salvati (At.4,12), potremmo dire che la salvezza è solo cristiana, cioè che la vera salvezza si fonda su Gesù e a lui rimanda.

La potenza salvifica di Gesù Cristo, inoltre, si manifesta e si rende operante nella sua sofferenza. Come già la parte conclusiva del vangelo di Luca (24, 13-35), anche gli Atti mostrano di sapere che il Cristo è Salvatore sofferente. Si veda, in particolare, nell’episodio dell’incontro tra Filippo e l’Etiope 8At. 8,26-40) la citazione esplicita e l’applicazione a Gesù di isaia 53.

Tale insistenza da parte di Luca, che mette sempre in bocca agli Apostoli il ricordo della morte di Gesù come parte irrinunciabile del Kerjgma primitivo, oltre a dirci che la salvezza è venuta attraverso la sofferenza, indica allo stesso tempo lo stile a cui i salvati si devono adeguare.

La Chiesa fa suo il modo di salvare di Gesù e come egli si fa carico del peccato del mondo, essa prende su di sé le sofferenze degli uomini e dà ad essi consolazione, annunciandone e promovendone la liberazione. Tutto ciò, appunto, non potrà essere indolore per la comunità cristiana, e tuttavia essa è salvata per salvare.

Il fatto cioè che ogni giorno il Signore aggiunga ad essa altri membri, non è un particolare secondario della narrazione né un accenno vagamente trionfalistico, benché testimoni la fecondità di un tipo di vita, ma indica anzitutto un atteggiamento di sequela del Signore nella solidarietà verso gli uomini.

5. Lettura degli Atti degli Apostoli

Abbiamo visto finora i punti di riferimento essenziali della Chiesa negli Atti. Vediamo da ultimo il criterio operativo della Chiesa alle sue origini, o meglio, il criterio semplice su cui ordina il suo comportamento e le sue decisioni. Rileggiamo per questo i capitoli 3-5 degli Atti: il testo ci presenta, sostanzialmente, le conseguenze del miracolo raccontato in At. 3,1-9 e del successivo discorso di Pietro in At. 3,11-26.
I fatti e le parole degli apostoli si pongono, da subito, come un segno di contraddizione: chi vi partecipa non può farlo da semplice spettatore, ma è indotto in qualche modo a schierarsi. Il risultato, per gli apostoli, è la persecuzione e soprattutto una chiara percezione che la loro vita è profondamente cambiata.

Tale cambiamento si evidenzia nella risposta di Pietro al sinedrio:

“Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini”
(At.5,29)

che ora cercheremo di vedere da vicino. Un’espressione simile compare anche allorché Pietro e Giovanni sono davanti al Sinedrio per la prima volta:

“Se sia giusto innanzi a Dio obbedire a voi più che a Lui, giudicatelo voi stessi” (At.4,19).

Queste due affermazioni corrispondono a una confessione di fede e come tali dovevano essere intese anche dai sinedriti. In altre parole, il rifiuto di obbedienza è la proclamazione del primato di Dio e dell’evento che si compie in Gesù Cristo. Indirettamente inoltre, il rifiuto di obbedienza diventa anche una contraccusa per i sinedriti, ribadisce cioè che Gesù Cristo è la pietra d’inciampo (At.4,11), pur offrendo nello stesso tempo la possibilità della conversione; l’obbedienza stessa degli apostoli, cioè, sulla via dell’obbedienza di Cristo al padre, offre a tutti la strada del ritorno e della riconciliazione.

Gli apostoli infatti si accorgono di essere posti da Dio come un segno davanti al popolo; il segno non può essere negato come tale, al modo stesso che Gesù non può essere negato per sé. Può invece essere rifiutato e messo a tacere, come di fatto è detto ripetutamente agli apostoli (At. 4,17-18; 5,28-40), in realtà è un voler tacitare la volontà di Dio. Benché infatti gli apostoli non lo dicano espressamente, tuttavia essi agiscono perché è a loro nota la volontà di Dio, resa accessibile per quello che hanno visto e udito da Gesù prima e dopo la pasqua e pienamente compreso dopo la Pentecoste. Essi non possono negare la propria identità di testimoni né possono ignorare che l’opera di Dio si perpetua ora attraverso di loro; la loro vita perciò si informa su un criterio che la trascende e la supera: la salvezza di tutti voluta da Dio, appunto, e l’obbedienza a lui prestata al modo di Gesù con la propria vita.

Questo criterio di disobbediente obbedienza, per così dire, è quindi completamente cristologico e modella il volto della Chiesa sulle fattezze del volto di Cristo servo sofferente. Posti nell’alternativa d’autorità, gli apostoli non hanno dubbi né ripensamenti in vista delle conseguenze. Soprattutto facciamo attenzione al discorso sulle sofferenze: la disobbedienza al sinedrio non è per Pietro e gli altri un modo per ritagliarsi un’autonomia finendo con l’obbedire solo a se stessi, ma un richiamo intransigente al disegno autorevole di Dio, per il quale ogni apostolo dà seriamente la propria vita e affronta il rischio concreto della persecuzione e della morte.

Nonostante la certezza della vittoria, sullo sfondo della risposta degli apostoli sempre si staglia un paesaggio segnato dalla croce, che è come il luogo di verifica della verità e dell’obbedienza a Dio. Una Chiesa che viva in coerenza la propria obbedienza a Dio, oltre a ripetere la risposta di Pietro laddove sorgano conflitti con altre autorità, non potrà che addossarsene le conseguenze e insegnare ai credenti a fare altrettanto, nella certezza di accelerare e rendere presente così nella storia la venuta del Regno nella sua forma piena e definitiva.

Amen,alleluia,amen!