Io Sono

Michelangelo Buonarroti. La creazione di AdamoFratelli e sorelle, alcune persone credono nel Creatore con entusiasmo, altre non credono con passione mentre altre ancora professano l’agnosticismo. Chi non ha un’opinione decisa in merito all’Eterno? Potremmo discutere sulla questione per tutta la nostra esistenza senza mai giungere a una conclusione, perché con ogni probabilità ciascuno offre una diversa definizione dell’Eterno.

Molti di coloro che negano la Presenza del Creatore in effetti ne rifiutano una falsa definizione; ragion per cui se fossero posti di fronte a una descrizione accurata, quasi certamente si porrebbe fine alla discussione. Da dove nascono questi preconcetti se non nella dottrina che ci è stata insegnata da bambini? Fino dall’infanzia siamo stati abituati ad immaginare un uomo con una lunga barba bianca seduto su un trono in cielo che lancia strali infuocati e punizioni quando ci si comporta male. Per un bambino l’Eterno può essere semplicemente una persona più autorevole e potente del papà.

Ma tutto sommato è un’immagine accettabile per un piccolo, ma chiaramente è sbagliata quando è un adulto che concepisce l’Eterno in termini tanto semplicistici e corporei. Addirittura è possibile che per alcuni la definizione di Dio si basi su opinioni e atteggiamenti di persone che si considerano religiose; forse altri hanno un’immagine negativa dell’Eterno a causa dell’ipocrisia con cui è stata loro presentata la Sua figura a casa o a scuola; forse ad altri ancora ispira sentimenti di caldo conforto per l’amore con cui se ne parlava in famiglia, o tra gli amici e gli insegnanti. Ciò che si prova nei confronti dell’Eterno è stato influenzato dai libri letti, dai corsi seguiti, dalla musica ascoltata e da innumerevoli altre componenti inerenti la personalità di ciascuno. Sono convinto che il fondamento della conoscenza sta nel riconoscere che c’è un Primo Essere cha dà esistenza a tutto ciò che ci circonda.

Vediamo come dal Libro dell’Esodo.

Ad un certo punto, nella vicenda quotidiana di un uomo dedito al proprio lavoro irrompe qualcosa di nuovo (come nelle conversioni). Il nuovo è un roveto che brucia senza consumarsi.

Di questo roveto si è detto di tutto: che si spiega coi miti dell’albero della vita frequenti nel Vicino Oriente Antico, che è legato al culto della fertilità, e così avanti. Di fatto, il roveto si chiama in ebraico senéh, termine che è assonnante col nome del monte Sinai: secondo qualche studioso, anzi, senéh altro non è che la contrazione di sinài; per essere onesti non dobbiamo qui far altro che renderci conto che Mosè deve essere arrivato, consapevolmente o no, ad un luogo di culto tradizionale che il testo chiama “monte di “Elohim”: gli viene chiesto infatti di scalzarsi. Lì vede questo strano fuoco che da una parte lo terrorizza, dall’altra lo rende consapevole che la sua vita, che pareva ormai così ordinata e prevedibile, è governata da Altro, capace di coglierlo di sorpresa, come fa un fuoco che venga dal cielo. La visione che interrompe la routine quotidiana evoca anche una memoria che pareva sopita: essa è fatta della miseria del popolo, di una promessa antica e di un incarico.

Parliamo di un Dio fedele a se stesso e quindi fedele alle proprie promesse e agli uomini con i quali si è compromesso. Non è facile per noi renderci conto della portata di una tale rivelazione: essa significa che la storia è stata, è e sarà sempre visitata da Dio, il quale è presente alle vicende umane pur restando, come si usa dire nei cieli. La storia umana non gli è indifferente; egli anzi partecipa ad essa fino a conseguenze che potremmo dire estreme. Di fronte a questo Signore del tempo che irrompe direttamente nella sua storia, Mosè tenta di esternare le proprie perplessità, per ora con poco successo.

Dio lo pone di fronte al proprio Nome eterno, ossia alla propria identità più autentica e genuina; egli sa quali e quante difficoltà si pareranno davanti al popolo, sa che stanno per entrare in gioco il suo prestigio e il suo buon nome; promette perciò una liberazione sovrabbondante: non certo la fuga di una massa disordinata di schiavi come vedremo in seguito, secondo un’altra versione del racconto della liberazione.

Questo tema del nome divino avrà grande fortuna tanto nell’A.T. quanto nel N.T., nella tradizione ebraica come in quella cristiana. Ambedue insistono sul fatto che Dio si rivela non in maniera indistinta e generica, ma con un nome proprio che identifica una realtà personale libera e provvidente. Già l’A.T. presentava una serie di nomi divini legati, per così dire, alle circostanze in cui il popolo veniva a trovarsi: Pastore coi pastori e Guerriero con il popolo in guerra. Tutti i diversi nomi confluiscono però in questo “Io Sono” che ricorre spesso nel Vangelo di Giovanni nelle formule in cui Gesù parla di sé e, nella logica del N.T., nel termine “Padre” che ricapitola e affina tutta la rivelazione del Dio compagno dell’uomo.

Nello stesso tempo il mondo ebraico associa a questo massimo di rivelazione un massimo di indicibilità, talché il Nome diventa impronunciabile: dire significherebbe limitare, denominare, definire, porre dei confini. L’estrema libertà di Dio deve essere, al contrario, rispettata: con una serie di espedienti si farà in modo che il Nome non possa essere detto, neppure distrattamente, quando lo si legge: un’associazione linguisticamente assurda di consonanti e vocali fa in modo che lo si possa riconoscere ma non dire. Cosa questa che nel mondo ebraico dura tuttora. Nominare una persona infatti vuole dire, in qualche modo possederla e questo con Dio davvero non si può fare. Solo l’incarnazione lo consente: un uomo deve essere chiamato.

La riflessione su questa tematica ci porterebbe quindi molto lontano. Basterà limitarla alla relazione tra Dio e la storia umana che noi conosciamo come storie di tragedie e di lutti, di Dio assente o in eclisse. E’ caratteristica della fede, sapere scoprire il Nome divino che abbiamo visto in questa meditazione anche nelle intemperie storiche più avverse, trovando le tracce dell’ “Io Sono” e non quello “che ero o sarò”, allorché egli pare più lontano e silenzioso. perché preesistente. Questo è il massimo della comprensione (ed è già tanto) a cui noi umani possiamo giungere. “Io Sono” rimarrà sempre un mistero.