Il Libro dell’Esodo: Meditazione 11


Capitoli 15,22-27 e 16, 1-20.

Con questa riflessione iniziamo anche noi a camminare per il deserto. Come ogni viaggio, letterario e non, anche questo è una metafora della vita e ci rendiamo conto da subito che non dobbiamo farci illusioni: siamo incapaci di cambiamenti irreversibili: possiamo vivere momenti di grande fede, sino all’euforia, per cadere subito dopo, scordando la salvezza già sperimentata, nell’acrimonia che conduce a brontolare prima e ribellarsi poi, il tutto nel giro di pochissimo tempo.

Nel nostro caso, come vedremo, bastano pochi giorni di viaggio disagiato (15,23).

Nello stesso tempo la metafora del viaggio vuole abituarci ad affrontare la vita leggera, senza zavorra, in essenzialità, tenendo conto, certamente, dei bisogni reali, escludendo però necessità fasulle e, soprattutto, senza accumulare.

Come si vede, ancora una volta dovremo costatare che un testo antico ha molto da dire anche a noi oggi, perché il problema degli alti e bassi nella fede e quello delle false esigenze o della eccessiva paura del domani che porta ad accumulare beni inutilmente, condizionano ancora e molto la nostra esistenza quotidiana.

Tuttavia questi fenomeni non devono essere motivo né di scoraggiamento né di filippiche moraleggianti e anticonsumistiche: dobbiamo semplicemente imparare a conoscerci per quello che siamo ( e la Scrittura lo svela), perché siamo davanti ad elementi costanti della condizione umana.

Infine non ultimiamo con questa riflessione la lettura del cap.16, come forse sarebbe stato necessario, perché si andrebbe troppo per le lunghe; la completeremo nella successiva; ma allora ognuno dovrà riprendere per proprio conto la prima parte del capitolo, per non perdere il filo.

Dopo il grandioso slancio epico della cantica (Es.15), torniamo al genere letterario del racconto, il cui andamento pare proprio quello di una carovana che si snoda nel deserto. I suoi ritmi fisiologici e il tempo è scandito più in termini simbolici che strettamente cronologici. Lo dimostrano i tre giorni di 15,22, che possono essere in realtà anche un giorno e mezzo, (secondo al sequenza “pomeriggio-giorno intero-mattina come accade nel racconto della morte e resurrezione di Gesù, per esempio), perché nel Vecchio Oriente Antico anche una sola parte del giorno si contava come un giorno intero; e poi perché “tre” sta ad indicare un tempo breve ma accertabile, che ha grande fortuna sia nell’A.T. sia nel N.T.

Dal punto di vista delle fonti che compongono la nostra porzione di racconto e la data del medesimo non possiamo dire granché, perché non è un racconto troppo omogeneo. Secondo le sezioni troviamo infatti fonti diverse, anche all’interno della stessa narrazione.

Tre giorni che siano passati o uno e mezzo, siamo ancora nella zona del canale di Suez, quando si arriva a Mara (Es.15,23), luogo d’identificazione incerta, ma che possiamo collocare ad ottanta chilometri dal canale. L’Egitto non è poi così lontano, il mare lo è ancora meno; ma la memoria del miracolo svanisce di fronte alla prima difficoltà concreta. Il testo insiste sull’amarezza dell’acqua: nella zona infatti si trovano solo pozzanghere d’acqua salmastra, impossibile da bere; accenna anche al fatto che i beduini conoscono l’uso di piante dalle possibilità curative (il legno). Tuttavia l’interesse del testo è per la tensione tra mormorazione popolare e potenza guaritrice di Dio che pure avviene, diciamo così, per cause seconde ( il legno, appunto, in questo caso) che egli stesso indica.

Subito dopo si giunge ad un luogo che pare il contrario del precedente: ad Elim, infatti, ci sono dodici sorgenti e settanta palme (15,27). Stando agli interpreti siamo in un’oasi a circa centotrenta chilometri da Suez.

Ma anche in questo caso i numeri hanno un valore simbolico.

Dodici sono infatti le sorgenti, una per ogni tribù dei figli d’Israele; mentre settanta è un multiplo di dodici accresciuto: in buona sostanza, l’oasi di Elim è un luogo in cui il popolo si trova provvisto in maniera sovrabbondante d’acqua, frutti e ombra.

Il testo liquida però la cosa alla svelta, come si trattasse di un atto dovuto. In realtà vuol affermarci che la vita è continuamente attraversata dalla provvidenza divina che si manifesta talora in modi evidenti interpretabili come fatti naturali come questa oasi, talora in altri, come il precedente, affinché valgano piuttosto a mostrare la nostra incostanza.

In altre parole, la realtà è leggibile e deve essere guardata come rivelazione di Dio e come rivelazione dell’uomo.

Non è finita, anzi, siamo appena all’inizio delle contraddizioni. Non è facile adattarsi al deserto, dopo che per parecchio tempo si è vissuto da sedentari.

Un popolo sedentario sa dove e come procurasi cibo e acqua: anzi è abituato ad una dieta variata.

Passare di colpo o quasi alla vita nomade significa molte cose. Non a caso il nostro testo ci parla di pentole e pane: fa una bella differenza infatti mangiare cose ben cotte a fuoco lento e pane ben lavorato e lievitato, anziché le cose un po’ arrangiate di una carovana in viaggio. Il problema non è tanto che manchi da mangiare, ma la qualità del cibo stesso, la sicurezza di averlo, il disagio della strada.

Il racconto del capitolo 16 è principalmente di tradizione “P”: si parla infatti non solo del dono divino del cibo, ma anche di tutte le regole per la raccolta e la conservazione.

Esse si incentrano su due criteri: la necessità del nucleo familiare e il tempo festivo del sabato, che, evidentemente, si colloca al livello fondamentale dell’identità del popolo.

Che idea abbiamo della manna? Siamo abituati a pensare al pane, perché così si traduce normalmente l’ebraico letem; in realtà qui andrebbe inteso nel senso generico di “cibo” (16,8).

E’ ancora oggi possibile acquistare la manna dai fruttivendoli arabi a Gerusalemme in certi periodi dell’anno, ma il suo aspetto biancastro e gessoso come il suo sapore tenue sarebbero per noi deludenti, dato che il nostro gusto è viziato da sapori di consistenza eccessiva.

Alla fine è un mangiare monotono e, per quanto si cerchi di manipolarlo, è sempre cosa offerta dal deserto: un cibo povero e minimale.

Una prima difficoltà sta infatti nel cambiamento di condizione: i beduini utilizzano tutto quello che il deserto offre e, in generale, se ne contentano pur di essere liberi e non dipendere da nessuno. Da quasi assimilati con gli egiziani non è facile recuperare l’identità seminomade dei patriarchi.

Ora invece il popolo deve imparare a vivere libero e il prezzo della libertà è gravoso, a principiare dalla dieta.

Una seconda difficoltà sta nel fatto che il cibo piove dal cielo a misura delle necessità. Ci si deve accontentare di quel che cade e si trova, come accade per le quaglie (16,12-13).

Nel cielo del Sinai transitano a stormi e spesso cadono a terra sfinite dopo aver volato controvento, talché si possono davvero raccogliere con le mani.

Ugualmente si deve tenere conto del fabbisogno quotidiano reale, tanto che di sabato è prevista la doppia raccolta (16,5; 17-20).

Questa attenzione all’accontentarsi della quantità effettivamente necessaria è la prova da affrontare. Fromm ha visto in queste righe un’affermazione della prevalenza dell’essere sull’avere e una precisa volontà di non lasciarsi trascinare, nella tradizione biblica, da manie di potenza che vengano dal fatto di possedere risorse fuori di misura. E’ una lettura parziale, ma non sbagliata e certamente preziosa per noi oggi.

Infine, due parole sul nome di questo strano cibo.

Il testo ebraico non è così chiaro come sembra. Dice infatti il v.15:

Videro gli israeliti e dissero ognuno al proprio fratello: Man hu’; perché non sapevano Ma hu’

Ma hu’ significa davvero “che cosa è questo”, ma stranamente gli israeliti fanno questa domanda dopo avere usato già un nome dicendo Man hu’.

La manna infatti si chiama man, e non ma.

Paradossalmente perciò prima ne viene detto il nome che la identifica e poi viene chiesto che cosa sia.

Il nome è forse da collegare con la radice mnn che significa “distribuire”; e ancora adesso in ebraico “porzione”, per esempio al ristorante, si dice mana.

Il cibo divino è quindi la “parte” che tocca a ciascuno. Nei confronti di questo cibo che è piovuto dal cielo, non esiste altro titolo di merito se non il bisogno effettivo.

Comunismo prima del tempo?

Non esageriamo e, soprattutto, non proiettiamo su un testo antico riletture ideologiche moderne.

Basti pensare che la Scrittura tiene conto della misura umana per quanto riguarda la gestione di beni e risorse. Esse non provengono dall’uomo, che se le trova date (gli piovono addosso, e proprio per questo deve usarne con equità in modo che nessuno abbia troppo e nessuno manchi del necessario (v.18).