STORIA DEL POPOLO EBRAICO
ATTRAVERSO LA BIBBIA

PRIMA PARTE: DALLA PREISTORIA ALL'ESILIO

ESILIO BABILONESE


Fonti bibliche

Notizie offerte dai capitoli dei libri storici 2 Re e 2 Cronache; dati contenuti nei libri profetici di Geremia, Lamentazioni, Ezechiele, Isaia capp. 40-55 e indirettamente in Aggeo e Zaccaria.
Da ricordare:

  1. La scarsità delle notizie offerteci, poiché 2 Re termina con la caduta della monarchia e il Cronista riprende la sua narrazione in Esdra (parte seconda della sua opera) con l’editto di Ciro nel 538;

  2. L’incompletezza delle fonti, data anche dalla tesi dottrinale perseguita dal cronista. Per lui, chiusa la parentesi monarchica, la storia prosegue coi soli esiliati in Babilonia e col loro ritorno in Patria. Non si cura degli abitanti di Samaria, né dei pochi che sono rimasti nel regno di Giuda. Cosicché, mettendo insieme le varie notizie di cui disponiamo, sembra quasi che in questi pochi decenni il centro della storia ebraica si sia spostato dalla Palestina alla terra di Babilonia. In realtà la storia si è fatta ovunque si trovassero degli Ebrei. E trovandosi i loro due nuclei maggiori in Babilonia e in Palestina, dovremo esporre le loro rispettive vicende.

 

Caduta di Gerusalemme

Tutto ha inizio con la caduta della capitale del regno di Giuda. Gerusalemme è conquistata una prima volta da Nabucodonosor il 1° marzo 587: il re Joachim è rinchiuso nel castello reale della capitale babilonese e sostituito con Sedecia; si ha una prima deportazione della parte più elevata del popolo (eunuchi, magnani, guerrieri e operai specializzati) che è distribuita nei dintorni di Nippur, lungo il fiume Kebar, a Tel Abib, Tel Harsa. Kerub, Addam, Immer e Kasifya (2 Re 24,14-16). Tra i deportati c’é il sacerdote Ezechiele. Il loro numero è di circa 10.000 secondo il libro dei Re, di 3.023 secondo Geremia 52,28. 

Gerusalemme è definitivamente distrutta nel 587 dopo un anno circa d’assedio, e si ha un’ulteriore deportazione di oltre 832 persone (Ger.52; 2 Re 25,8-21). Il re Sedecia, reso testimone dell’uccisione dei suoi figli e poi accecato, è mandato a morire in qualche prigione di Babilonia.

Nel 582-581 Nabucodonosor stronca le ultime resistenze degli Ebrei palestinesi e, dopo aver ridotto il paese a “desolazione e deserto” (Ezech.33, 27-29), porta con sé in Babilonia un altro drappello di 745 prigionieri (Ger.52,30).
Intanto altri gruppi di palestinesi si sono rifugiati in Egitto, costituendo il nucleo di quella colonia giudaica che fiorirà più tardi in quella regione. Altri si sono spinti fino all’isola di Elefantina, dove più tardi si registrerà un fenomeno interessante di jahvismo sincretista non denunciato dagli ortodossi nell’oasi di Tema.

Non avendo i gruppi stanziatisi in Egitto e in Arabia alcuna importanza, dovremo interessarci solo dei deportati in Babilonia e dei rimasti in Palestina.

Deportati in Babilonia

Condizioni generali

Ai loro prigionieri i Babilonesi hanno offerto condizioni assai più miti di quelle procurate dagli Assiri ai deportati da Samaria, anche se forse è esagerato affermare che hanno offerto loro una “situazione civile dignitosa ed economicamente buona”.

All’inizio la cattività dovette essere veramente dura e non priva di vittime (Salmo 137). In seguito l’abitudine e un mitigamento dell’asprezza da parte dei vincitori dovettero addolcire la situazione. Non pochi esuli misero in pratica il consiglio pressante di Geremia di rassegnarsi in Babilonia a una lunga dimora e di considerare la terra d’esilio come una loro seconda patria (Ger.29,5).

La riluttanza di non pochi discendenti dei deportati a ritornare in Palestina nel 538 e anni successivi e quanto si è venuto a sapere circa l’attività bancaria di qualche famiglia ebrea in Mesopotamia confermano che il consiglio di Geremia era stato seguito anche oltre le intenzioni del profeta. Per non pochi di questi fortunati materialmente la religione acquistò un valore sempre minore.

Vita religiosa

Le insistenti raccomandazioni, spesso congiunte ad una satira mordente, del secondo Isaia contro l’idolatria, lasciano intravedere che l’amore per il sincretismo e per l’apostasia si mostrò intenso fra alcuni gruppi di deportati. L’affascinante culto babilonese con il suo ricco cerimoniale e con i suoi miti, esercitava una potente attrattiva, paragonabile forse a quella subita da parte della religione Cananea agli inizi della nazione. Ma nel complesso si deve dedurre che la massa dei deportati e dei loro discendenti rimase fedele allo jahvismo.
Anzi, tale periodo costituì un tempo di fecondo e profondo ripensamento, di studio introspettivo. Si considerarono gli antichi scritti, se ne composero degli altri e si riesaminarono le tradizioni storiche che ricevettero la loro riordinazione e integrazione. Tale studio del passato, insieme con le potenti descrizioni di Ezechiele e del secondo Isaia sulla Gerusalemme ideale, futura, costituì il mezzo principale per il mantenimento e lo sviluppo di una precisa coscienza della propria missione storica.

Oltre alla distruzione di un’esagerata fiducia nei meriti della comunità, operata sia dalla sconfitta sia dalla predicazione di Ezechiele (18) in favore di una responsabilità e retribuzione individuale, si ebbero altri effetti: “Si sa ben poco sulle pratiche religiose delle comunità disperse in Mesopotamia. Non si può parlare di un autentico culto, impossibile fuori del Tempio di Gerusalemme. Gli esuli lamentavano tale mancanza, come si evince dal Salmo 137 (Dan.3,38)”.
Del libro di Ezechiele e da quello di Baruc traspare che si organizzavano riunioni di carattere eminentemente religioso, nelle quali si pronunciavano preghiere e si teneva vivo il sentimento jahvista e nazionale. Si accenna anche a preghiere private eseguite con l’animo tutto pervaso dal pensiero di Gerusalemme (Dan.6,11). 

Sovente tali assemblee erano riunite a un digiuno (Ger.36,6; Bar.1,5; Gioe.1,13; Zacc.7,3-5; 8,19) o, per lo meno, le suppliche erano dominate da un tono penitenziale (Is.59,9-15; 63, 15-64). Anche per la penitenza, però, si giunge presto ad un meccanicismo condannato dai profeti che insistono per la sincerità del dolore e per un’integerrima vita morale, perché solo se animate da simili sentimenti la mortificazione corporale può sperare di essere accetta a Dio. Si ha la continuazione dell’insegnamento più genuino del profetismo che sempre inveì contro il fanatismo del Tempio e contro al fiducia dei sacrifici senza pietà o addirittura compiuti da persone indegne.

Come era naturale, acquistano un’importanza particolare le usanze che distinguono nettamente il popolo ebraico dai pagani. Fra tali costumanze si distingue nettamente quella del riposo sabbatico insistendo sul carattere sacro di questo giorno (Ezech.20,13.16.20s.24; 22,8.26; 46,11ss; Ger.17,21-24; 27; Is.56,2.4; 58,13; 66,23). E anche senza basarci troppo sull’origine esilica del codice sacerdotale, è facile rilevare come si ammettesse un’importanza notevole alla legge della purità legale dei cibi (Ezech.4,14; 22,26; Dan.1,8ss) e alla pratica della circoncisione (Ezech.44,9; Ger.9,24). Oltre all’osservanza di una legge corretta, con tali usanze si otteneva l’isolamento indispensabile perché il popolo non fosse assorbito ma conservasse la sua fisionomia e specialmente la sua religione. 

In seguito questa tendenza fu portata forse all’esasperazione e generò un atteggiamento sprezzante verso quanto non era giudaico…Ma la visione universalistica della seconda parte di Isaia, anche se pone sempre quale centro ecumenico Gerusalemme, mostra come nei profeti fosse ben chiaro che si trattava del dominio di un’idea religiosa destinata ad essere abbracciata volontariamente dai popoli pagani.

Questa maggiore attenzione per l’osservanza della Legge aumentò il prestigio di una classe, che compare già nel periodo precedente all’esilio, quella degli scribi, a loro si accenna per la prima volta nel testo pieno di rimprovero di Geremia 8,8: “Come potete dire, sapienti noi siamo, la Legge di Jahvé è con noi? Sì, certo! Ma a menzogna l’ha ridotta lo stilo menzognero degli scribi!”

Rimasti in Palestina

Le “Lamentazioni” danno la testimonianza della presenza in Palestina di Israeliti profondamente jahvisti e distinti dal gruppo di Godolia: vi è quindi ragione di pensare che essi rimasero in Palestina anche dopo il periodo turbolento dei primi mesi successivi alla presa di Gerusalemme e culminanti con l’uccisione di Godolia.
I libri di Aggeo e Zaccaria testimoniano che la ricostruzione del Tempio, guidata da esuli rimpatriati, fu opera di una popolazione in cui non si scorge traccia di contrasto radicale tra rimpatriati e rimasti: anzi, da una testimonianza tenue ma sicura, possiamo concludere che vi fu sostanzialmente collaborazione. Senza voler tracciare una linea diretta fra gli Israeliti delle Lamentazioni e gli Israeliti palestinesi del tempo di Aggeo e Zaccaria, cosa per cui non vi sarebbe il minimo fondamento, è certo però che entrambi i gruppi fanno parte della medesima tradizione jahvista continuatasi in terra Palestinese.

Possiamo quindi credere che la distruzione di Gerusalemme e le deportazioni non hanno fatto il deserto, come potrebbe apparire da alcune espressioni bibliche, ma una parte della popolazione è rimasta, dividendo le proprie simpatie tra babilonesi ed egiziani, odiando gli uni e gli altri.
Pare anche dalle Lamentazioni che in questo periodo le condizioni fossero quelle caratteristiche dell’occupazione: presenza di truppe straniere le quali, poggiando sul diritto della forza, oltraggiavano il popolo ( in particolare le donne) e lo sottoponevano a lavori forzati. Questo almeno in Gerusalemme (dove sembra abbia risieduto l’autore delle Lamentazioni).

Conclusione

Possiamo considerare questo periodo, umanamente tanto triste, assai fecondo per lo sviluppo ulteriore dello jahvismo. Esso ha, infatti, registrato un profondo lavoro di ripensamento, una fecondissima attività letteraria di natura religiosa, la nascita di riti particolari che sarebbero rimasti come “distintivo” dell’ebraismo ortodosso.

A tutto questo ha di certo contribuito, e non poco, la predicazione dei grandi profeti come Ezechiele e il DeuteroIsaia, segni visibili della Provvidenza divina verso il proprio popolo.

Produzione letteraria

Un periodo tanto breve e così disastrato è stato fecondissimo di opere scritte, tutte segno del grande travaglio di riflessione e di ripensamento causato nell’animo degli Ebrei.

La produzione sapienziale è quasi nulla, sempre che si accetti l’opinione di coloro che vogliono il libro di Giobbe composto in questo periodo. Qualche Salmo riflette poi la situazione dell’esilio (ricordo il 137, che si potrebbe definire “il canto della resistenza ebraica).

La produzione profetica è legata all’attività predicatoria di due grandi uomini di Dio, Ezechiele ed il secondo Isaia (40-55) che operano in Babilonia rispettivamente al principio e la fine della cattività.

Ma importante riesce soprattutto la produzione di opere storiche, menzioniamole:

L’OPERA DEUTERONOMISTICA, che partendo (in un primo tempo) dal Deuteronomio per arrivare attraverso Giosué, Giudici, 1 e 2 Samuele fino a 1 e 2 Re, traccia la storia degli Ebrei nel Canaan fino alla distruzione della monarchia.
Si tratta di un’opera “penitenziale” nella quale si vuole portare la comunità a convertirsi, onde meritare da Dio la ripresa del proprio cammino e la previa cessazione dell’esilio. A tale scopo si sostiene un lungo esame di coscienza, rilevando le continue defezioni con le quali il popolo eletto si è storicamente reso sempre più indegno dell’Alleanza, meritando il disastro finale. Alcuni vogliono che l’opera monumentale sia stata iniziata già prima dell’esilio, al tempo della riforma di Giosia (640-609 a.C.) e che durante la cattività babilonese sia stata portata solo a compimento.
Nel comporla non si è proceduto ad una creazione totale, ma si è utilizzato tutto quel materiale che si era andato accumulando dalla monarchia unita e che non era ancora stato organizzato in un tutto unico e omogeneo.

LA STORIA O DOCUMENTO SACERDOTALE, con cui i sacerdoti hanno inteso inquadrare il “Codice sacerdotale” (insieme di leggi raccolte ora in Esodo 25-31; Levitico, tranne la parte costituente la legge di santità; Numeri 1-10; 15-19; 25-36 salvo qualche passaggio).
Con questa storia, che parte dalla creazione del mondo da parte di Dio per arrivare al culto tributato a Dio dagli Ebrei nella terra santa, i sacerdoti hanno voluto dare alla comunità un messaggio di speranza: nel suo amore fedele, Dio non poteva abbandonare l’uomo alle conseguenze del peccato e quindi lasciare andare alla deriva quel popolo cui aveva affidato il compito di mediare la salvezza universale. Il piano di Dio contemplava così la ripresa della storia ebraica , e la fine della dura esperienza dell’esilio. Bisognava sperare nel futuro!
Data questa finalità, la storia sacerdotale riusciva assai giusta, incoraggiante, mettendo in risalto la perenne bontà del Dio della creazione e del Patto.

Le idee dottrinali principali che la caratterizzano sono:

  1. La benedizione divina sostiene tutta la storia dell’uomo e degli Ebrei;
  2. Il Patto, quale promessa unilaterale di Dio, ha avuto un’anticipazione con Noé, poi è stato stipulato con Abramo, e finalmente si è concretato nella storia del popolo eletto. Si tace il patto concluso al Sinai, bilaterale, perché totalmente fallito;
  3. La presenza salvifica di Dio si è realizzata soprattutto nella tenda di riunione nel deserto, anticipatrice di quel santuario dove i sacerdoti avrebbero avuto gran parte nella prima strutturazione del culto israelitico (in tal modo il vertice della storia passata è posto dalla storia sacerdotale nelle istituzioni sorte dopo l’incontro con Dio sul Sinai);
  4. E’ sempre richiamata la terra sospirata dagli esuli dall’Egitto, fonte bruciante nostalgia anche per gli Ebrei che si trovavano in Babilonia e ai quali la storia sacerdotale doveva portare conforto.

Questo documento sacerdotale riceverà un complemento nel periodo successivo, prima di essere fuso con gli altri tre precedenti (jahvista, elohista, deuteronomista) per formare il Pentateuco, e verrà ad arricchirsi di una più accentuata intonazione celtica, propria della religione giudaica.

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