STORIA DEL POPOLO EBRAICO
ATTRAVERSO LA BIBBIA

PRIMA PARTE: DALLA PREISTORIA ALL'ESILIO

ESODO DALL'EGITTO

Storia del Popolo Ebraico: Esodo dall'Egitto

Documenti biblici e loro natura

L'Esodo dall'Egitto è l'esperienza di cui si occupano più diffusamente le nostre "fonti storiche". L'interesse
particolare è giustificato dal fatto che nelle vicende esodiache sta il germe della religione jahvista, bene e vanto
supremo della comunità ebraica.

Di loro parlano ben quattro libri del Pentateuco: Esodo-Levitico-Numeri-Deuteronomio. In questi libri l'Esodo è
esposto nelle sue tre fasi:

Fuga dall'Egitto

1- Israele in Egitto (Es.1-2);
2- Vocazione di Mosé (Es. 2-5);
3- Opera di liberazione (Es.5-15);
4- Viaggio al Sinai (Es.15-19).

Permanenza nel deserto

5- Alleanza sinaitica (Es.19-24);
6- Alleanza in pericolo (Es.32);
7- Sosta nel deserto dopo il Sinai (Num.1-20 con sezioni legislative).

Approccio al Canaan

8- Da Cades verso il Canaan (Num.20-21);
9- Oracoli di Baalan sulle rive
Del Giordano (Num.22-25);
10-Morte di Mosé (Deut. 34);
11-Legislazione di Mosé, diffusa
In Esodo, Levitino, Numeri e
Deuteronomio.

L'abbondanza dei dati offerti non inganni. Essi ci sono offerti da scritti assai tardivi, i quali si rifanno ad un'epoca
che costituisce l'alba della storia ebraica, per di più ad un tempo nel quale si scriveva poco o nulla e che quindi è
raggiungibile solo attraverso le tradizioni orali coltivate tra il popolo. Di questa prima specie di documentazione
storica ricordiamo quanto descrive un sapiente storico:

Le tradizioni orali formano un ciclo della massima importanza, che si estende dal libro dell'Esodo fino al
Deuteronomio. Esse fanno conoscere come un gruppo di Ebrei, stanziatisi nella regione del Gessen, riuscì, sotto
la guida di Mosé, a sottrarsi agli egiziani, come visse un'esistenza nomade per un certo numero d'anni nel Sinai,
durante i quali ricevette un'organizzazione e una legislazione, come si legò a Dio mediante un'alleanza e
finalmente si diresse verso il Canaan.

Questo periodo di storia…è considerato dal punto di vista della fede. Sarebbe quindi esatto definirlo così: l'azione
di Dio il quale mediante il suo inviato Mosé salvò Israele dall'Egitto, nel deserto ne fece il suo popolo stringendo
con lui un'alleanza e dandogli la Legge, e lo condusse finalmente verso la terra promessa.

Più ancora che nell'epoca dei patriarchi, forse, Dio è ora il personaggio centrale. Più che le gesta di Mosé, l'Esodo
rappresenta le gesta di Dio. Questo è particolarmente evidente nel racconto delle piaghe d'Egitto e nel passaggio
del Mar Rosso, presentato come una lotta tra Dio e il Faraone, o anche nel racconto dell'Alleanza al Sinai.
La storia assurge insomma a dramma soprannaturale, nel quale Dio è il protagonista. Tutta l'abilità dei narratori è
quindi attenta a dar rilievo alla presenza sua negli avvenimenti e a trasformare l'emozione religiosa risvegliata dal
loro ricordo…

L'avvenimento pertanto sarà narrato in stile religioso epico. I racconti non perdono nulla del loro
valore storico fondamentale, purché si sappia percepirlo tenendo conto di procedimenti letterari usati; in
compenso questa presentazione concreta che colpisce l'immaginazione e risveglia l'entusiasmo è più utile che
non una povera cronaca.

D'altra parte non tutte le tradizioni relative a questo ciclo sono omogenee. Accanto a racconti di tono epico, si
riscontrano narrazioni di stile molto sobrio. E' importante, quindi, attraverso questa varietà di forme letterarie,
cogliere la testimonianza fondamentale che è resa ovunque a Dio, il suo stile nel guidare la storia, le sue
disposizioni verso gli uomini, le sue esigenze nei loro confronti. La rievocazione del passato è sempre subordinata
alla preoccupazione di un insegnamento religioso. Le tradizioni relative alla vita nel deserto, per esempio, fanno
rilevare continuamente il contrasto tra l'ingratitudine del "popolo dalla dura cervice" e le manifestazioni della
misericordia di Dio. Vi è quindi un'autentica predicazione attraverso gli esempi, che illustrano gli insegnamenti
fondamentali della Legge.

Su questo materiale si sono poi innestate le quattro tradizioni (jahvista, elogista, sacerdotale, deuteronomista) i
cui documenti scritti provengono da epoche e ambienti diversi e costituiscono altrettante interpretazioni teologiche
del passato corrispondenti a quattro scuole teologiche diverse. Ed è solo nell'ultimo periodo dell'A.T. che esse
sono ridotte ad unità, nella redazione finale del Pentateuco.

Il quale resta sì una storia, ma prima di tutto è un catechismo, un codice di vita (non per nulla vi è raccolta tutta la
legislazione dei vari secoli, cui la trama storica tende a dare una giustificazione di fede) e ancora un libro di culto.
Tutto questo ci assicura che nel Pentateuco l'elemento storico, che esiste, è finalizzato ad una visione di fede cui
fa da fondamento , ma ne è al contempo un'illustrazione.
Il Pentateuco è così vero libro di storia, ma prima conosciuta attraverso le tradizioni orali e le loro leggi, e poi
interpretata allo scopo di dar risalto non tanto alle singole vicende di singoli o di gruppi umani bensì all'azione
salvifica di Dio.

Una storia, peraltro, condotta con i metodi storiografici di quel tempo, che non è detto coincida sempre e in tutto
coi nostri metodi attuali (generi letterari!).
E così, concludendo, siamo ancora una volta (e non sarà l'ultima) di fronte alla necessità di pretendere dalle
nostre fonti le notizie di carattere generale, senza insistere sulla veridicità storico-cronachistica dei singoli episodi.
Aggiungo per ultimo che, fornendoci i nostri testi notizie abbastanza vaghe, sono costretto dal punto di vista della
storia a procedere spesso per via di ipotesi e di supposizioni.

 

Elementi storici

Esodo reale

Le fonti bibliche riferiscono un'esperienza realmente vissuta. Dobbiamo però dire, per rendere ragione di tanti dati
diversi e apparentemente contraddittori che non si è trattato di un'esperienza unica. Gli studiosi ipotizzano una
duplice esperienza:

  1. Un gruppo ebraico, coinvolto nella politica di costruzione di grandi città-magazzino nel delta del Nilo, non
    assoggettandosi a tale regime pesante di schiavitù per dei nomadi, e approfittando di una situazione di
    disagio verificatasi nel Gessen, fugge, guidato da Mosé. E' il gruppo che fa l'esperienza della rivelazione
    sinaitica e che, dopo una sosta prolungata a Cades dove si incontra con altri di cui subito dirò, si avvicina alla
    Palestina portandosi ad oriente di essa, per penetrarvi più tardi dalla parte del Giordano.
  2. Un altro gruppo, cacciato dall'Egitto, si porta direttamente a Cades dove è raggiunto dal gruppo di Mosé dal
    quale riceve le religione sinaitica, e poi penetra nella Palestina attaccandola direttamente dalla parte
    meridionale.

I due gruppi, una volta raggiunti gli altri Ebrei portati in Transgiordania o in Palestina dalla ondata migratoria,
avrebbero trasmesso loro, più tardi, la stessa fede.
Sulla data di questi avvenimenti si è discusso a lungo; alcuni li ponevano nel secolo XV ed altri davano loro una
data più bassa, il secolo XIII a.C. Attualmente quasi tutti parlano di questa seconda data, e quindi noi poniamo
l'Esodo di Mosé circa il 1250 a.C.

Esodo esperienza parziale

Come la discesa e permanenza in terra egiziana, così anche il suo abbandono non si presenta né unico né
vissuto da tutti gli Ebrei del tempo. La sua attribuzione posteriore a tutte le 12 tribù di Israele, che sarebbero state
protagoniste di una vicenda comune, è frutto di un ben comprensibile procedimento artificioso, fatto a scopo
religioso. L'intento non era quello di ricostruire esattamente il passato, bensì quello di far risaltare in esso la
presenza e attività salvifica di Jahvé che guidava meravigliosamente i destini del proprio popolo.

Una presenza e attività che avevano dello stupefacente, anzi, del miracoloso. Nell'intento, perseguito dalle
tradizioni popolari prima e dai documenti scritti poi, di dare a ciò il dovuto risalto, sta la giustificazione dei racconti
dei molti miracoli compiuti da Dio (piaghe d'Egitto, passaggio del Mar Rosso, grandiosa manifestazione divina al
Sinai, prodigi nel deserto), da leggersi più in chiave teologica che non in quella storico-cronachistica. Dietro i loro
racconti stanno spesso realtà ben più semplici e umanamente più credibili.

Storicità di Mosè

Suo profilo generale. Non c'è ragione determinate per scartare Mosè dalle tradizioni circa la missione di Mosé,
l'uscita dall'Egitto, il Sinai. LO storico deve riconoscere che Mosé ha avuto in questi avvenimenti un ruolo di primo
piano, anche se non può studiarne i dettagli.

Lo si è sovente riconosciuto come un fondatore di religione. Gli autori che considerano Mosé quale intruso nella
tradizione del Sinai e che sia originale in quella dell'Esodo, naturalmente gli rifiutano questo titolo. Anche se gli si
conserva il posto datogli dalle tradizioni ci si può chiedere se lo si debba chiamare veramente il fondatore di una
religione. La sua personalità supera le categorie nelle quali hanno voluto chiuderlo i pensatori di Israele e gli autori
moderni..

Egli non è un taumaturgo, né un giudice, né un sacerdote, né un profeta. Egli è tutto questo, in un certo
modo, e più di questo. E' colui che ha ricevuto la rivelazione di Jahvé e l'ha comunicata, il mediatore dell'Alleanza
tra Jahvé e il suo popolo, il capo carismatico del popolo di Jahvé. Egli non ha fondato una religione nel senso di
averne fissato gli insegnamenti e stabilito le istituzioni. La sua azione scompare davanti a quella di Dio, di cui egli
è solamente uno strumento al primo stadio.

Quando Mosé muore prima di entrare nella terra promessa, lo jahvismo è ancora la religione di un gruppo
seminomade e diventerà una religione mondiale solo attraverso un lento sviluppo che vedrà all'opera altri uomini
di Dio e Dio stesso. Ma Mosé è stato all'origine di questo movimento, ha piantato questo germe veramente
fecondo. E' il primo "servo di Jahvé" (Es.14,31).

E' in questo senso che si può parlare di una religione di Mosé e tentare di determinare i tratti di questi jahvismo
primitivo.

I limiti della sua attività. E' giusto definire Mosé "condottiero, liberatore e legislatore" del suo gruppo. Solo
occorre rammentare che la tradizione posteriore, per far risaltare l'origine sinaitica ( e quindi divina) di tante
istituzioni ebraiche, le ha riportate tutte direttamente a disposizioni date da Mosé. Così è stato del culto con le sue
varie parti (gradi della classe sacerdotale, calendario liturgico, forme di sacrifici, cerimonie varie), del profetismo, e
soprattutto della legislazione proveniente da tutti i secoli dell'A.T. e che ora abbiamo ammassata nel Pentateuco.

Se possiamo e dobbiamo parlare sempre di religione mosaica e di mosaicità del pentateuco, oggi lo dobbiamo
fare nel senso che l'opera di Mosé ha dato l'ispirazione fondamentale secondo cui si è poi sviluppato lentamente il
tutto.
Un esempio di tale "relativizzazione" lo abbiamo subito nell'esame della natura della religione mosaica.

Religione del tempo di Mosè

Essa si presenta anzitutto nel segno della continuità e dello sviluppo della religione dei Patriarchi.
La continuità l'abbiamo soprattutto nel fatto che lo jahvismo nasce anch'esso tra pastori e si sviluppa nel deserto;
in secondo luogo perché Jahvé, al pari del Dio dei padri, non è legato a nessun luogo particolare, accompagna e
guida i suoi, è con loro ovunque vadano: c'è un legame speciale con Mosé, capo di questo gruppo, così come il
Dio dei padri l'aveva con i patriarchi capi dei loro clan.

Esistono però delle differenze che possiamo così enucleare:

  1. Se il Dio del padri era anonimo, ora egli ha un nome proprio: Jahvé;
  2. Jahvé, l'esistente, il trascendente, il Dio del mistero, si rivela nelle proprie azioni meravigliose. Nei racconti
    dei patriarchi nulla si avvicina in splendore e potenza al miracolo del mare e alla teofania del Sinai;
  3. Cambiano notevolmente le relazioni tra Dio e i suoi fedeli. Non più "Dio del padre", ora egli è "Dio del popolo"
    mentre si comincia a parlare di "popolo di Dio". E questo Dio, anziché essere legato ad un gruppo, è lui a
    legare il gruppo a sé;
  4. Non più il "Dio delle promesse" fatte ai patriarchi, Jahvé è ora il Dio che ha liberato il popolo, lo ha riscattato
    (Es.15,13), se lo è acquisito (Es.15,16) facendolo proprietà sua (Es.19,5), e stringendo con esso un patto o
    alleanza.

Possiamo definire la religione mosaica monoteismo o monolatria?

Una teoria considerava che Israele era passata progressivamente dall'animismo al politeismo e dal politeismo al
monoteismo, e che questo stadio era stato raggiunto solo coi Profeti del secolo VII o addirittura col DeuteroIsaia.
La teoria evoluzionistica è ora abbandonata, ma le opinioni divergono sulla data in cui il monoteismo apparve in
Israele. Noi abbiamo definito la religione Patriarcale come una monolatria. Certi autori considerano che il vero
monoteismo è iniziato con Mosé.

Il termine monoteista significa qualcuno che insegna l'esistenza di un Dio solo, Mosé non era monoteista, poiché
non abbiamo alcun indizio che abbia professato la credenza in un Dio unico. Abbiamo piuttosto indicazioni esatte
che questa non era la dottrina dello jahvismo primitivo.

- Il cantico di Es.15,11 chiede: "chi è come Te tra gli déi, o Jahvé?";
- Dopo aver sentito il racconto della,liberazione dall'Egitto, Ietro esclama: "Ora io so che Jahvé è il più grande di tutti gli déi (Es.18,11);
- Lo stesso primo comandamento del decalogo non nega l'esistenza di altri déi, al contrario lo suppone e
proibisce di rendere loro un culto. Non è un insegnamento sull'unicità di Dio, ma una regola pratica: Jahvé
reclama esclusivamente per sé l'omaggio del proprio popolo;
- E' quanto dice anche il decalogo cultuale di Es.34,14, quanto commenta Os.13,4 e ciò che sanciscono le leggi del codice dell'Alleanza (Es.22,19 e 23,13). La ragione di questa proibizione è data nelle addizioni al Decalogo Es. 20,5-6 e Deut. 5,9-10: Jahvé è un Dio geloso. L'espressione si ritrova in Deut.4,24; 6,15; Gios. 24,19, ecc…

Questo esclusivismo del culto è altra cosa dall'affermare che c'è un Dio solo: non è il monoteismo. Si può parlare
di monoteismo pratico, e di monolatria, ma questi termini rischiano di chiudere in una definizione statica un
impulso che portava in sé il dinamismo di uno sviluppo futuro.
E' dal primo comandamento che l'esperienza religiosa e la riflessione teologica di Israele sono arrivate alla
espressione del monoteismo in senso proprio: Israele ha preso coscienza che questi déi che non erano nulla per
esso erano impotenti anche per i loro propri fedeli ed è giunto a negare la loro esistenza.

Il Culto mosaico appare caratterizzato dai seguenti tratti:

Interdizione delle immagini. Troviamo la loro proibizione in Es.20,23; 34,17; Lev.19,4; 26,1; Deut.28,15. Non
si tratta di immagini degli déi stranieri; il culto di questi è stato condannato dal primo comandamento e non
c'era bisogno di tornare a precisarlo (poiché tale proibizione appartiene al secondo comandamento). Non è la
condanna di tutte le immagini di Dio come forma d'arte, bensì la condanna delle immagini cultuali, e,
propriamente, la condanna di rappresentazione della divinità.
L'interdizione riguarda direttamente le rappresentazioni di Jahvé e non ogni immagine associata in un modo o
nell'altro al suo culto. Non riguarderà i cherubini del santuario di Silo e del Tempio di Gerusalemme che sono
figure simboliche che vegliavano e sostenevano il trono sul quale Jahvé sedeva invisibile. Non concerne
nemmeno il vitello d'oro del deserto né quelli di Geroboamo nella misura in cui essi, nell'intenzione di chi li
aveva fabbricati, non erano che il piedestallo della divinità invisibile.
La ragione di tale proibizione è difficile a determinarsi. Non si può trattare dell'affermazione della spiritualità di
Dio: un puro spirito non significa nulla per la mentalità ebraica che concepiva Dio sotto forma di uomo. E' la
preoccupazione di identificare la divinità con la sua immagine: nemmeno nel vero spirito del paganesimo
esisteva questa identificazione.
La ragione è quella che (Es.20,4; Deut.5,8; 4,16-19) non c'è niente nella natura, nel cielo o sulla terra o nelle
acque, che sia confrontabile con Jahvé e lo possa rappresentare. Dio si fa conoscere insieme come vicino e
lontano, ma è fuori dalla natura e rimane un mistero per l'uomo.

Il santuario del deserto. Mentre la tradizione sacerdotale descrive lungamente il santuario del deserto che
raccoglie l'Arca della testimonianza (Es.26; 36,8-38); mentre Deut. 31,14-15 parla una sola volta della tenda
di riunione e quattro volte dell'Arca dell'Alleanza ( 10,1-5; 10,8; 31,9; 31,26); le fonti antiche nominano quattro
volte la Tenda di riunione (Es.33,7-11; Num.11,16-17; Num.11,24-25; 12,4-10) e due volte l'Arca (Num.10,33-
36; 14,44), ma senza descriverle e soprattutto non ponendole in relazione tra loro.
Non c'è ragione di negare che l'Arca e la Tenda risalgono al periodo del deserto, specie se si considerano gli
usi degli arabi antichi: gli spostamenti di un gruppo nomade nel deserto sono pieni di pericoli, ed è naturale
che i beduini sentano e coltivino la presenza del loro Dio e la esprimano culturalmente.
Così, una volta ammessa la loro storicità, è pensabile che le due realtà siano state in relazione tra loro. Se i
testi antichi, come abbiamo detto, non ne parlano insieme, dobbiamo ricordare la frammentarietà delle
tradizioni; inoltre Es.33,7-11 afferma che "Mosé prendeva la Tenda e la erigeva per lui fuori dal campo": quel
per lui potrebbe essere riferito non a Jahvé ma alla tenda che in ebraico è di genere maschile. Infine è difficile
immaginare una tenda cultuale vuota ed un'arca che non sia protetta, il che, nella vita nomade, suppone una
tenda.

Sacerdozio e sacrifici. Non esisteva un sacerdozio costituito. Il solo sacerdote che appare nei racconti antichi
è il madianita Ietro; Mosé non è mai chiamato sacerdote. Secondo la tradizione sacerdotale il sacerdote del
tempo del deserto era Aronne, ma la sua figura è molto sbiadita e non lo vediamo mai agire come sacerdote.
Fuori dalla tradizione sacerdotale i membri della tribù di Levi non appaiono mai in funzioni sacerdotali. E'
tuttora possibile che lo statuto particolare che resterà sempre quello della tribù sacerdotale di Levi risalga
effettivamente all'epoca mosaica. Può darsi che Mosé abbia confidato a parenti, membri come lui della tribù
profana di Levi che si era aggregata, la cura del santuario mobile del deserto. Nell'Arabia preislamica certe
famiglie erano addette alla custodia del santuario. Il ricordo sarebbe stato conservato dalle tradizioni
posteriori che adibiscono i Leviti al trasporto della Tenda e dell'Arca (Num.1,50-51; 3,8; 10, 17-21; Deut.
10,8). L'assenza di un sacerdozio costituito non significa che gli israeliti nel deserto non abbiano avuto
sacrifici cruenti. Dalle poche informazioni che le fonti ci offrono sembra di dover concludere che "la religione
mosaica conosceva solo una forma indifferenziata di sacrificio, lo sebah, che comportava un'immolazione
della vittima, il cui sangue era sparso e la cui carne era mangiata. E' la forma attestata in Arabia
settentrionale e centrale prima dell'Islam e che proveniva dal culto famigliare. Si tratta della forma conservata
nel rituale di pasqua, di cui abbiamo segnalato il carattere arcaico e che forse è continuata nei sacrifici delle
famiglie e dei clan (1 Sam.1,21; 2,19; 9,12; 20,6).

Il sabato. Ne parlano Es.23,12 2 34,21. Testi antichi che, pur supponendo una vita sedentaria e agricola sono
un adattamento di una legge più antica; i testi più recenti di Es.20,8-11 e Deut. 5,12-15 che, in epoca in cui
il,sabato era diventato una delle principali osservanze religiose, ne davano una motivazione diversa; per Es.
20,1 l'imitazione del riposo di Dio dopo la creazione, per Deut. 5,15 il ricordo della schiavitù d'Egitto.
Gli israeliti non possono aver mutuato il sabato dai Leniti né dai Cananei che non lo conoscevano: così
debbono averlo praticato prima del loro ingresso nel Canaan. Né vale obiettare che il sabato non poteva
essere praticato da pastori i cui greggi debbono venire curati tutti i giorni, perché noi non sappiamo come era
osservato questo sabato primitivo.
Sembra tuttavia che la sua significazione religiosa il sabato dapprima giornata di semplice riposo, l'abbia
assunta molto tardi, e precisamente al tempo della composizione delle due tradizioni deuteronomista e
sacerdotale.

Produzione letteraria

La tradizione biblica fa risalire a Mosè la composizione di tutto il Pentateuco; si tratta però di un procedimento
legittimo dal punto di vista della fede ma non di una realtà storica.

Tuttavia Mosé deve aver scritto qualcosa e aver dato inizio alla parte principale dell'A.T. Grazie alla sua
mediazione è stato stipulato il Patto o Alleanza al Sinai, tra Jahvé e i suoi cultori. Ora, le consuetudini del tempo
portavano a fissare per iscritto le clausole di un trattato in modo che, rilette e commentate a tempo opportuno, non
corressero il pericolo di venire dimenticate e non più osservate. Possiamo accettare che il documento del Patto
sia stato conservato dapprima nell'Arca dell'Alleanza e messo poi in qualche santuario del Canaan, prima di
entrare con Davide e Salomone in Gerusalemme e nel suo Tempio.

Ma siamo oggigiorno nella possibilità di ricostruire il tenore esatto di questo documento iniziale, fondante lo
jahvismo? No. Il suo spirito possiamo ritrovarlo in tutte le tradizioni che sono entrate a far aprte del Pentateuco,
mentre il testo esatto si trova diluito nel mare di tradizioni orali prima e di documenti scritti poi che lo hanno in
vario modo interpretato e attualizzato. Nonostante i testi spesso prolissi del Pentateuco, doveva essere un
documento assai stringato, corrispondente a pochi versetti della Bibbia.

Non siamo in grado di far risalire con certezza a Mosé nemmeno il DECALOGO, che troviamo ora nelle due
edizioni di esodo 20 e Deuteronomio 5. A titolo di ipotesi, si ritiene un sìdocumento legislativo sorto al tempo dei
Giudici (alla fine del secondo millennio a.C.) in un contesto non cultuale e riassumente l'etica familiare dell'epoca.
Più tardi, sotto la monarchia, sarebbe entrato nell'orbita del documento del Patto che, crescendo di importanza,
incamerava tutta la legislazione posteriore più significativa. In questa fase l'attuale decalogo avrebbe ricevuto
l'aggiunta del primo comandamento di cui originalmente mancava.

Dato il suo contenuto morale più che cultuale, avrebbe poi finito per diventare espressione massima delle esigenze del Patto sinaitico e per essere considerato il vero documento scritto nel deserto.

Finalmente, durante l'esilio babilonese, con l'imporsi del sabato quale celebrazione caratteristica della religione ebraica, gli sarebbe stato aggiunto il precetto dell'osservanza del sabato in ricordo della creazione (tradizione sacerdotale in Es.20) o della fuga dall'Egitto (tradizione deuteromnomistica in Deut.5).

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