STORIA DEL POPOLO EBRAICO
ATTRAVERSO LA BIBBIA

PRIMA PARTE: DALLA PREISTORIA ALL'ESILIO

I PATRIARCHI
PRIMI CONTATTI CON LA TERRA DI CANAAN

Abramo in cammino

Fonti bibliche e loro natura

Iniziamo il viaggio della storia dell'A.T. dai patriarchi, poiché la Bibbia pone nella persona e nel tempo d'Abramo l'inizio della storia della rivelazione e della salvezza.
Le vicende di questo periodo, che buona parte degli studiosi fa risalire alla metà circa del secolo XIX a.C., sono descritte nei capitoli 12-36 del libro della Genesi.
Questi testi, ricchissimi dal punto di vista dottrinale, sul piano puramente storico non sono altrettanto ricchi e riescono di difficile interpretazione.
In ogni caso, nel leggerli occorre evitare due estremi: quello di negarne la storicità, e quello di ritenerli fonte di precise notizie particolareggiate concernenti le persone d'Abramo. Isacco e Giacobbe nonché le loro famiglie.
E' bene rammentare quanto segue:

  1. Si può parlare di storia ebraica solo quando il popolo d'Israele, trovata nella terra di Canaan una sua unità religiosa e politica, documenterà per iscritto le proprie esperienze. Il che avverrà in modo pieno solo con l'istituzione della monarchia (circa il 1000 a.C.). Il periodo che da quella data risale fino all'Esodo del tempo di Mosé, avaro di documentazione scritta, possiamo considerarlo quale alba di questa storia. I patriarchi, vissuti secoli prima di Mosé, appartengono alla preistoria degli Ebrei. Ed ogni popolo ha della preistoria propria solo idee incerte e confuse.
  2. Al tempo dei patriarchi, del resto, la scrittura non era ancora veicolo normale di comunicazione. Difatti essi conducevano una vita seminomade, e affidavano i ricordi alla memoria. Nessun documento biblico risale al loro tempo.
  3. I nostri racconti sono stati scritti molti secoli più tardi, non in conformità a documenti scritti ma quali fissazione di tradizioni orali coltivate dal popolo. Tradizioni fissate dapprima in vari documenti di natura e ispirazione diversa, e unificate a distanza d'altri secoli nell'edizione definitiva del Pentateuco.
  4. Le tradizioni orali, nel riportare i fatti dei quali restano testimoni autentici, seguono leggi proprie: da un lato il popolo semplifica i fatti, dall'altro ne semplifica determinati aspetti, crea e aggiunge qualche particolare a scopo didattico, dà colorazioni diverse legate ai vari ambienti che coltivano certi ricordi, preferisce una presentazione poetica piuttosto che cronachistica, crea accostamenti e ripetizioni, ecc…Inoltre tendono a far risaltare la presenza di Dio.
  5. Dato tutto questo, ai nostri documenti possiamo chiedere solo notizie di carattere generale, mentre i dati concernenti persone e famiglie è opportuno non insistere.

 

L'ingresso degli Ebrei nel Canaan

Esso s'inquadra perfettamente nella situazione del tempo. Non importa se gli studiosi divergono nel fissarne il secolo preciso e se di conseguenza elaborano ipotesi disparate. Possiamo affermare che la prima metà del secondo millennio costituisce la sede della loro migrazione dalla Mesopotamia nel Canaan.

Tra le tante ipotesi né riporto una:

La migrazione d'Abramo dalla Mesopotamia al Canaan ben s'inquadra nel vasto movimento dei popoli che ha sconvolto alla fine del terzo millennio pressappoco tutto il Medio Oriente, ponendo fine, tra l'altro, alla civiltà del bronzo antico che aveva caratterizzato la Palestina. Gruppi d'Amorrei, partendo probabilmente dal deserto siriano, avevano invaso la Mesopotamia, la Palestina, toccando anche i confini egiziani. Si trattava di beduini turbolenti, temuti e disprezzati dalle popolazioni agricole e contadine, d'uomini che "incutono spavento alla gente ai piedi delle montagne, che non sanno piegare il ginocchio (per coltivare la terra), che mangiano la carne cruda, che non hanno casa e dopo la morte non ricevono sepoltura". Così, o in termini analoghi di disprezzo, erano descritti gli invasori. Parte di loro si era fatta sedentaria, dando luogo in Mesopotamia alle dinastie di Mari, Isi, Assur, Babilonia, e in Siria-Palestina costituendo numerose città stato governate da principi che si muovevano sotto il dominio egiziano: una parte si era invece mantenuta allo stato seminomade, circolando assieme ad altri gruppi quali i Sutei, gli Haneei, i Beniaminiti in cerca continua di pascoli.
E' tra questi seminomadi che va ricercata l'origine dei patriarchi Ebrei.

In Palestina, intanto, si contraeva sentire l'influenza egiziana, che era ben determinata dalla politica delle dinastie XII e XIII. Non che queste, attraverso una conquista o in altro modo, avessero integrato la Siria e la Palestina nel loro impero. Ma i funzionari d'alto rango che hanno le loro statue a Ras Shamra e a Megiddo, Sichem, Gerico, Tell el 'Ajjul, non erano visitatori di passaggio e non possono essere stati dei rifugiati politici come lo fu Sinuhe. Erano là con il grado di rappresentanti ufficiali del faraone e svolgevano in quel paese delle missioni temporanee o permanenti. La Palestina e una parte della Siria sarebbero così state dei paesi sotto protettorato egiziano. Una tale posizione spiegherebbe l'atteggiamento ambiguo del re di Biblos e sarebbe illustrata dall'esempio di Megiddo dove abbiamo dettagli maggiori. Si è trovata in Egitto la tomba di quel Tuthotep che ha lasciato al sua statua a Megiddo. Egli vi ha fatto rappresentare l'arrivo di un gregge di Retenu, nome che gli egiziani davano alla Siria e alla Palestina; ora è anche a Megiddo che risiedeva un intendente contabile del bestiame. Non è troppo audace dedurne che i faraoni sfruttavano la piana di Esdrelon, ricca di bestiame. Gli stessi testi di esecrazione, che solitamente si pronunciavano contro popoli e città non ancora assoggettati o ribelli, nominano parecchie città palestinesi: segno che i faraoni conoscevano bene la situazione e cercavano di tenerla sotto controllo.

Sotto quale forma dobbiamo configurarci l'ingresso degli Ebrei nel Canaan? La tradizione biblica rappresenta l'entrata nel Canaan in maniera semplice, come quella della famiglia di Abramo da cui, attraverso Isacco e Giacobbe, discenderà tutto il popolo delle dodici tribù. Ma la tradizione ha scelto e unificato, e la realtà è certamente più complessa. Bisogna ammettere all'origine più gruppi appartenenti allo stesso ambiente etnico e sociologico, ma che non sono potuto arrivare né allo stesso tempo né nel medesimo luogo. Questo sembra provato dallo studio della tradizione stessa per un caso di importanza maggiore: il ciclo di Giacobbe dapprima è stato indipendente da quello di Abramo-Isacco.

E' ugualmente difficile datare la fine dell'epoca patriarcale. Si estende fino alla discesa in Egitto, ma poi vedremo che questa è stata ancora una volta un fatto complesso. D'altra parte esistono in Genesi delle tradizioni posteriori ai patriarchi. E' forse il caso della storia di Simeone e Levi a Sichem (Gen.34) che potrebbe datare dall'epoca di Amarna 1300 a.C., della storia del trattato di Giacobbe e Labano (gen.31) che può rapportarsi all'insediamento delle tribù nel secolo XIII; è certo il caso della storia di Giuda e Tamar (Gen.38) che riflette l'espansione della tribù di Giuda dopo l'epoca di Giosué.
E' dunque in termini generali che si può parlare di un'epoca dei patriarchi, di cui non è possibile datare né l'inizio né la fine.

 

Civiltà seminomadica e sue caratteristiche

Dalla Bibbia ricaviamo che i patriarchi appartengono a un tipo di civiltà che costituisce il passaggio dal nomadismo alla sedentarizzazione. I veri nomadi sono gli uomini del deserto, che allevano cammelli con i quali poter abitare o almeno attraversare le regioni che ricevono meno di 10 centimetri di pioggia annuale, compiono lunghi tragitti e hanno pochi contatti coi sedentari. Nomadi sono ancora quelli che allevano montoni e capre; però queste greggi sono più fragili, hanno bisogno di bere più sovente, richiedono nutrimento più scelto, sono in grado di coprire percorsi più brevi. Tali nomadi vivono soprattutto nelle zone subdesertiche dove le piogge sono più frequenti raggiungendo i 20 centimetri annuali e compiono trasmigrazioni più brevi. Se intraprendono viaggi più lunghi, questi corrono attraverso sentieri obbligati, segnati da molti pozzi. Hanno contatti maggiori con le popolazioni sedentarie.

Quelli invece che allevano oltre alle pecore i bovini non sono più pastori nomadi. Si fissano alla terra, cominciano a coltivarla e a costruire case. In certe stagioni vivono però con il gregge e stanno sotto la tenda. Sono già dei seminomadi e semisedentari.
I patriarchi appartengono a quest'ultimo gruppo. Il loro ambiente è stato il qualche modo il deserto. Orbene, questo loro genere di vita impone strutture sociali e comportamenti di tipo particolare, il che giustifica che si prenda per paragone, con le riserve necessarie, l'organizzazione degli arabi nomadi e dei loro costumi.

Organizzazione tribale

  1. La tribù è un gruppo autonomo di famiglie che si considerano discendenti da un unico capostipite. Ciò che le unisce è il legame del sangue, reale o supposto. Ecco allora le genealogia, le tradizioni, che possono essere vere, ma nei gruppi estesi diventano necessariamente arbitrarie e artificiali. Ma l'importanza è che il nomade pensi di essere del medesimo sangue degli altri membri. Tutta la relazione sociale del deserto diventa così un albero genealogico.
  2. In realtà a formare una tribù possono concorrere elementi diversi dal legame del sangue: comunanza di soggiorno di varie famiglie, assorbimento di elementi deboli da parte di gruppi più forti, unificazione di deboli per rimanere autonomi, incorporazione di individui in una famiglia per mezzo dell'adozione. E' incontestabile che fusioni simili si siano verificate per gli Ebrei soprattutto alle origini e che nella concezione delle "12 tribù" discendenti da Giacobbe ( e tramite suo da Isacco e da Abramo) ci sia il frutto di una sistematizzazione artificiale. Lo vedremo sempre meglio durante il nostro viaggio nei primi periodi della storia ebraica, fino al tempo della monarchia.
  3. Le dodici tribù di Israele sono una federazione: così almeno è ad un certo punto della storia. Tali federazioni possono essere frutto della volontà di più tribù di far fronte comune contro vicini più potenti, ma anche di una comune origine dovuta al fatto di una scissione di tribù divenute troppo numerose. In ogni caso le tribù confederate, conservando il sentimento della loro parentela, possono unirsi per imprese comuni, migrazioni e guerre, e riconoscere allora un capo cui obbediscono tutte quante o una sola parte di loro. La federazione delle tribù ebraiche non aveva però un organismo permanente, e il sistema non aveva efficacia politica. La sua importanza era soprattutto religiosa; gli Ebrei si raccoglievano attorno all'arca dove celebravano le loro feste, memori della loro parentela e della comune fede in Jahvé da loro acquisita attraverso esperienze difficili a ricostruirsi con esattezza ma che, sia pure lasciando buona parte alle ipotesi, cercherò di ricostruire.
  4. La tribù ha un'organizzazione interna, pure basata sul legame di sangue. Alla sua base sta la famiglia in senso lato (genitori, figli, spose, nipoti, servi). Più famiglie costituiscono un Clan che vive solitamente in uno stesso luogo e si trova per celebrare feste comuni. E' il Clan che si assume il compito della vendetta del sangue; esso è retto dai capi famiglia e in tempo di guerra offre un contingente di armati. Più Clan formano la tribù con a capo lo sceicco.
  5. Ogni tribù ha il suo territorio, riconosciuto dalle altre, dove le terre coltivate sono generalmente proprietà privata mentre i pascoli sono comuni. Nascono facilmente contestazioni per questo o quel pozzo o pascolo, e allora si arriva ad un accomodamento amichevole oppure è la guerra. A decidere quest'ultima è lo sceicco. Il bottino è diviso in modo diverso tra capo e combattenti. Ogni tribù ha il suo grido di guerra e il suo stendardo ( gli Ebrei hanno l'Arca e il grido della Teruah). Anticamente, presso gli Arabi, al posto dello stendardo c'era una lettiera dalla quale una bella ragazza incitava i suoi alla battaglia. La razzia è diversa: era concepita non per distruggere ma solo per far bottino e poi svignaserla.

Ospitalità e legge d'asilo

L'ospitalità è necessità di vita nel deserto, ma questa è diventata una virtù e una delle più stimate della vita nomade. L'ospite è sacro: ci si disputa l'onore di accoglierlo, onore che spetta normalmente allo sceicco. Lo straniero può approfittare di questa ospitalità per tre giorni e, quando parte, gli si deve protezione per una durata varia: in certe tribù "fino a che il sale che ha mangiato sia uscito dal suo ventre", in altre grandi tribù per tre giorni e in un raggio di 150 chilometri. I paralleli con l'A.T sono noti.
Altra conseguenza della vita nomade è la legge d'asilo. In una condizione sociale come questa l'esistenza di un individuo non legato ad alcuna tribù riesce impossibile e inconcepibile. Se uno è escluso dalla sua tribù in seguito a un delitto o a una colpa grave, oppure perché se ne stacca per una ragione qualsiasi, deve cercare la protezione di un'altra tribù. Questa lo prende sotto di sé, lo difende contro ogni suo nemico ed esercita per lui la vendetta del sangue. Tale costume sopravviverà poi nell'istituzione del "ger" e delle città rifugio.

Solidarietà e vendetta del sangue

Il legame di sangue, reale o supposto, crea una solidarietà tra tutti i membri della tribù. L'onore e il disonore di ogni membro ricade su tutto quanto il gruppo.
Questa solidarietà si esprime in particolar modo nel dovere che si impone al gruppo di proteggere i membri deboli e oppressi. A questo corrisponde l'istituzione del "goel", che ha soprattutto il compito di assicurare la vendetta del sangue. Prima di questa istituzione la doveva mettere in atto tutto il gruppo.

Purezza del sangue

Ogni tribù tende a mantenersi pura, e a non dissolversi. Ecco allora in occasione di matrimoni la preoccupazione di unire persone consanguinee, provenienti dallo stesso capostipite. Isacco e Giacobbe andranno a prendersi la sposa nell'alta Mesopotamia, luogo di origine dei loro antenati.

La tenda

La caratteristica prima, più ovvia, della vita nomade è quella di abitare la tenda, spostabile nelle migrazioni stagionali e facile da erigere nei luoghi di sosta, specie presso i pozzi d'acqua.
Se molti usi seminomadi saranno soppressi nella civiltà posteriore, il ricordo della tenda rimarrà radicato nella lingua.
L'atto del partire di un Ebreo che abita la sua casa sarà espresso con l'immagine del "togliere il piolo della tenda"; al tempo dei re il grido di rivolta sarà ancora quello di "ciascuno alle sue tende!"; la morte sarà detta "la corda della tenda che è stata tagliata" o "il piolo estratto"; della desolazione si parlerà in termini di "corde rotte, tende abbattute"; mentre della sicurezza si dirà "tenda le cui corde sono ben tirate e i cui paletto sono solidi"; il popolo che cresce sarà paragonato a una "tenda che si allarga"; ecc…

Elementi di vita sedentaria

In un genere di vita che abbiamo definito come seminomade o semisedentaria, cioè di transizione, è naturale la presenza di elementi di vita sedentaria.
La prassi giuridica e sociale dei Patriarchi presenta numerosi usi assai affini a quelli delle popolazioni sedentarie dell'alta Mesopotamia e in particolare a quelli della popolazione Turrita di Nuzi. A tal proposito possiamo citare:

- L'equivalenza tra lo statuto della sorella e quello della sposa;
- Il diritto di una donna a concedere la concubina al marito senza facoltà di espellere il figlio di questa;
- L'intervento del fratello nel matrimonio della sorella;
- Il possesso dei "teraphim" per ereditare (Gen.31,31s.);
- L'adozione in vista della trasmissione di parte dell'eredità (Gen.48);
- Il diritto di primogenitura;
- Il valore giuridico delle benedizioni paterne.

Mentalità antica

Una prima lettura dei racconti dei patriarchi potrebbe lasciare l'impressione di un modo di raccontare strano, arcaico, irreale e persino infantile.
Ebbene, quanto a prima vista potrebbe sembrare di ostacolo alla attendibilità dei racconti, costituisce invece la migliore garanzia del loro carattere sostanzialmente storico.
Non sono forse i patriarchi uomini appartenenti al mondo antico, tanto lontano dal nostro tempo e anche lontano per dislocazione geografica? Cosicché usi e costumi, concezioni di vita, modi di sentire e di esprimersi sia a voce sia per iscritto, non possono coincidere con i nostri se non a scapito della genuinità, della verità.

Vi propongo alcuni esempi chiarificatori.

Sogno

Per noi il sogno è qualcosa di irreale, confinato nella nostra fantasia che lavora fuori del controllo della coscienza e di cui non ci sentiamo responsabili. Per l'Ebreo, invece, il sogno è una realtà come tutte le idee di cui l'individuo porta piena responsabilità perché, in ogni modo sorta in lui, agisce sulla sua volontà che la fa propria. Il sogno è come le altre idee: è irreale solo quando l'anima non ha la forza di portarlo a compimento; è reale allorché l'anima ha tale forza. Questo dipende dalla forza d'animo di ciascuno.
Il sogno non è che una realtà latente, creata dall'anima che lo esperimenta. Un atto può nascondersi nell'anima di un uomo, fino a che non ha trovato un'espressione esterna. E quindi può produrre effetti prima ancora di essersi estrinsecato, perché riempie e forma l'anima facendo qualcosa che lei stessa non conosce. Il sogno è uno di questi effetti, va considerato sempre quale manifestazione di un evento latente e parallelo al suo avverarsi.
Nei sogni si coglie l'evento. Chi sogna riceve il fatto stesso, poiché questo attraverso il sogno agisce in lui. E viceversa: tramite il sogno l'uomo fa suo il fatto; esso è nella sua volontà ed egli ne è responsabile.
Si capisce così il comportamento dei fratelli di Giuseppe nei suoi riguardi e anche la reazione del padre che pure gli vuol bene. Innanzi tutto perché il sogno è qualcosa da loro ritenuto reale, e poi perché ne considerano Giuseppe responsabile. Il fatto che lui ha sognato di diventare re implica la sua aspirazione a tanto. Ha avuto un sogno regale? Ma questo capita solo a un'anima da re! Il fatto di essere un comandante di fronte al quale tutti gli altri si piegano è entrato nella sua anima rendendola anima da comandante, con la conseguente richiesta del capo alla soggezione degli altri.
Naturalmente ci possono essere anche per l'Ebreo dei sogni vuoti, addirittura falsi, ma ciò dipende dalla debolezza o malvagità del sognatore, capita al popolo ordinario. Un'anima forte non potrà avere che sogni reali. Così i guerrieri, così i profeti.

Benedizioni

Natura: la benedizione è per noi un semplice augurio o l'invocazione dell'aiuto divino sulla persona benedetta. Per il semita è invece qualcosa di essenzialmente diverso. L'anima è infatti un tutto saturato di potenza. L'uomo dotato di benedizione è una persona abile, cui arride il successo, perché la forza della sua persona è capace di produrre il progresso e sa trovare i mezzi necessari allo scopo. Di conseguenza il benedetto è sapiente perché possiede l'intimo delle cose. Egli sarà così un abile re, guerriero, agricoltore, cacciatore, pensatore, psicologo, ecc…in base alla benedizione particolare che gli è propria.
Sebbene la benedizione di un uomo si spanda in tutte le direzioni, essa va soprattutto ai più vicini: da padre in figlio e nella cerchia degli intimi.
Origine: la benedizione dell'individuo ha la sua origine nella nota benedizione del padre che a sua volta l'ha ricevuta direttamente o attraverso i suoi antenati da Dio. La benedizione è concentrata in Javhé e quindi si può ottenere solo in armonia con lui. Dio non concede questa benedizione, arbitrariamente, ora all'uno ora all'altro, poiché essa non è qualcosa di esterno all'anima, ma fa parte del suo tutto.
Conseguenze: una volta donata, la benedizione non si può più ritirare, poiché non si tratta di una frase senza conseguenze; l'anima del benedicente crea la benedizione mentre la pronuncia, ed essa agisce in accordo con la forza che vi è stata impressa.

Essendo l'atto del benedire una comunicazione della forza della propria anima, il benedicente può comunicare solo e non più di quanto lui stesso possiede, poiché egli dona parte della propria anima.
Ogni proprietà è permeata della benedizione del proprietario; allora ogni dono non è mai qualcosa di morto, ma un dono spirituale, una comunicazione di anima ad incremento della forza dell'altro.
Ogni volta che gli uomini si benedicono in qualsiasi forma (anche nel semplice saluto) c'è uno scambio di contenuto di anima.

Tra le molte manifestazioni della benedizione, la principale è il potere di moltiplicarsi, il potere generativo, poiché è nella famiglia che il semita continua a vivere manifestando così la propria forza.
E' la medesima forza che agisce nel centro e lontano, alla periferia, fin dove si estende l'anima. Essa produce la crescita e la prosperità dell'anima, in modo che essa possa mantenersi e fare il proprio lavoro nel mondo. Tale forza vitale, senza la quale nessun essere vivente può esistere, è chiamata dagli Ebrei "berakha" o benedizione. Il semita non distingue tra il potere come si manifesta dentro l'anima e come si rivela all'esterno. Per lui la capacità e il risultato sono la stessa cosa; dove la capacità esiste, il risultato è scontato. La benedizione, di conseguenza, significa al tempo stesso qualcosa di interno e di esteriore. Benedizione è la forza dell'anima e la felicità da lei prodotta.

Le caratteristiche peculiari di ogni tribù dipendono dal,fatto che ciascuno di loro è dotata di una diversa benedizione. C'è gente che riesce in qualsiasi cosa; altra gente che sempre fallisce. Niente di strano! Tutto dipende dalla benedizione personale costituita da qualche dono o capacità dell'uomo stesso. Il tutto psichico dell'uomo appartiene al complesso della sfera in cui vive tutto ciò che lo circonda. Se l'anima è forte deve lasciare la propria impronta su tutto quanto fa.

Trasmissione: leggiamo che la benedizione passa da padre in figlio. E' una conseguenza dell'essere la benedizione, è la forza dell'anima. Essa deve andare con la famiglia, perché in quest'ultima esiste una comunità psichica.
Gli Israeliti raccontano la storia delle benedizioni dei patriarchi con affetto tutto particolare, perché sono la storia dei loro padri ma anche le loro. Essi derivano le loro anime dai padri, e quanto è buono avere dei padri ricchi di benedizioni! Da ciò derivano le capacità che creano la loro felicità in questa vita. Una felicità che passa come proprietà di famiglia negli individui, di generazione in generazione.
L'anima di Isacco è quella di Abramo, ma in forma nuova. Jahvé stesso conferma espressamente ad Isacco di mantenere in lui la benedizione del padre; il primogenito ha diritto alla benedizione paterna: essa gli spetta per diritto di nascita. Il padre la dona prima di morire e con il figlio benedetto rimane la grave responsabilità di mantenerla in famiglia.
A partecipare alla benedizione di una persona non è solo la famiglia. La vita consiste nell'incontrare anime, che debbono scambiarsi vicendevolmente il proprio contenuto. Il benedetto dona agli altri, perché la sua forza sgorga istintivamente da lui diffondendosi nell'ambiente. L'importante è mettersi in relazione stretta col benedetto e avere parte ai suoi doni. Ovunque la persona benedetta vada, crea felicità. E' speranza d'Israele diventare un giorno una gran fonte di benedizione per i popoli futuri (is.19, 24); la stessa speranza hanno i patriarchi, perché a loro è promesso che tutti i popoli saranno in loro benedetti (Gen.12,3; 18,18; 22,18: 26,4; 28,14).

Nome

Pure il nome, che per noi è qualcosa di esterno, una convenzione che serve a distinguere le persone tra loro, per il semita è espressione dell'anima, l'appellativo che caratterizza ciascun individuo.

Conoscere il nome di una persona significa conoscere la sua essenza. C'è identità tra nome da una parte e anima, persona dall'altra. Per questo rivelare o nascondere il proprio nome (come fa Dio) vuol dire concedersi o mantenere le distanze.
Agire nel nome di Dio non vuol dire solo menzionare Colui nel cui nome si opera, ma fare come se le sua persona avesse agito in proprio; agire quindi con la stessa autorità e sulla responsabilità sua.
Parlare in nome di Dio è più che parlare secondo la sua volontà o per suo comando. Implica il parlare con lo Spirito di Dio, e presuppone che la persona in questione abbia in se stessa qualcosa dell'anima di Dio. Ciò che capita al Profeta.
Combattere nel nome di Dio significa non tanto combattere con la sua approvazione, quanto possedere la sua stessa forza, per questo il nemico è nemico di Dio medesimo.
Forza del nome: il nome cresce con l'azione, perché quest'ultima porta l'anima ad espandersi e assieme all'anima anche il nome che si identifica. Il nome è la vera peculiarità e il potere dell'anima. Più che fama e grandezza d'animo, quindi, avere un nome significa essere veramente grandi più che essere ritenuti tali. Data l'identità tra nome e anima, l'importante di un nome non è il significato linguistico ma la realtà che lo tratteggia, poiché esso ci dà il contenuto della persona.

Allorché si entra in relazione con qualcuno, occorre conoscerne il nome, e poiché si conosce si può esercitare su di lui un'influenza, non perché si sa il significato linguistico del nome, ma giacché tramite il nome si conosce l'anima. Ragion per cui nella lotta che Giacobbe ebbe con al divinità misteriosa, questa non gli ha rivelato il proprio nome onde Giacobbe non avesse a prevalere su di lei (Gen.32).

Cambiare il nome significa alterare il contenuto interiore, e quindi mutare direzione di vita. Si spiegano così i frequenti cambiamenti di nome menzionati nella Bibbia, allorché una persona entra in una nuova fase della propria vita.
La distruzione del nome diventa l'espressione più forte di annichilamento, di distruzione. Nel nome è infatti contenuta tutta la sostanza dell'anima dell'uomo. Se questo non è ucciso, resta il vuoto assoluto (da qui si capisce come nei Salmi, in modo particolare, si preghi Dio di cancellare il nome di un nemico).
Si fa vivere il proprio nome ricordandolo. Il ricordo suscita immediatamente l'anima da lui designata; c'è perciò un significato profondo nel ricordo di un nome. Tale ricordo, che equivale ad una continua attività della persona menzionata, si ottiene nel modo migliore con l'aver figli; quando questi non ci sono, con l'adozione di estranei cui si impone il nome proprio; infine nei memoriali (=documenti).

Altre particolarità: siccome il carattere di uno si trasmette nei figli e nella famiglia, allorché si desidera conoscere qualcuno di una certa importanza si cerca non solo il nome suo, ma anche quello dei suoi ascendenti, poiché costoro entrano quali componenti la sua essenza. Le lunghe liste di nomi, ascendenti di una persona, oltre ad essere elementi di distinzione e di conoscenza, dicono di che razza, di che stampo sia l'uomo di cui si parla.
Se il nome è l'anima, colui che eredita il nome dal padre ne eredita pure le capacità. La casa porta il nome del padre perché la persona di lui la riempie; il complesso della famiglia ed i beni suoi gli appartengono.
Dopo la morte del padre il nome è preso dal figlio; il che implica che il padre non muoia. L'anima di un uomo con la sua sostanza, con le sue imprese, ricchezze, benedizioni, onore, tutto ciò che è nel suo nome, sopravvive nel figlio. L'anima può perciò vivere anche se scompare l'IO; il supremo desiderio dell'israelita è vivere, è la vita, cioè la forza che agisce nella benedizione e prende forza nell'onore. Cosa che si realizza nel figlio.

Primogenitura

Non tutti i figli hanno una parte uguale nell'eredità del nome e dell'anima del padre. Il primogenito ha ricevuto la forza prima del padre, e questa lo pone al di sopra dei suoi fratelli. "Ruben, sii il mio primogenito, la mia forza ed il principio della mia forza" (Gen.49,3). Il figlio maggiore agisce con una certa autorità e sente una responsabilità maggiore degli altri come appare da Ruben allorché i fratelli vogliono uccidere Giuseppe (Gen.37,22).
Il diritto di primogenitura, che Esaù vende a Giacobbe, implica la capacità e i diritti che debbono essere mantenuti da colui che ha in sé la maggior parte del padre. E' per questo che il primogenito riceve una parte di eredità maggiore degli altri. Il Deuteronomio afferma che questa regola va eseguita anche quando la madre del primogenito non è la favorita del padre. Il fattore importante non è la madre, ma il fatto che il primogenito è il frutto primo della forza paterna. Nella medesima occasione si afferma che l'eredità del primogenito è dei due terzi (Deut.21,17). Di fronte al primogenito stanno tutti gli altri fratelli che devono spartirsi il resto.

 

Religione dei Patriarchi

Quando si parla di religione e di moralità dell'A.T. è necessario guardarsi da un errore di prospettiva che porterebbe a vedere l'A.T. come un blocco monolitico, formato fin dal principio in tutti i suoi dettagli, senza possibilità di uno sviluppo che la Provvidenza attua tramite i mille influssi dell'ambiente. Anche se il popolo ebreo è "il popolo eletto", non è stato "creato" dal nulla, ma è stato formato gradatamente, attraverso i moltissimi elementi sparsi in precedenza nel Medio Oriente. La qual cosa significa uno sviluppo nello stesso ambito religioso e morale, nonché un legame tra credo e comportamento morale ebraico con quelli dei popoli vicini. E agli inizi occorre prendere in considerazione uno stadio abbastanza primitivo di conoscenza di Dio, di forme di culto, di sentire morale. Ciò premesso, ecco come si può enucleare il carattere della religione dei Patriarchi, influenzata dalle concezioni e dagli usi ambientali.

Credo. Premetto ancora che il carattere delle tradizioni di Genesi e l'epoca relativamente tardiva della loro redazione rendono difficile una descrizione esatta ed esauriente. Occorrerà evitare gli estremi di un assoluto scetticismo e di un'esagerata confidenza nei dati offerti.
E' comunque certo che se da un lato le tradizioni ( J, Javhista; E, eloista; D, Deuteronomica; P, Sacerdotale) identificano in vario modo la religione dei Patriarchi con quella posteriore di Israele, dall'altro ne mettono in evidenza anche le differenze.

I dati da interpretare sono soprattutto di due ordini:

  1. Secondo i nostri racconti, Dio è onorato con i nomi seguenti, di origine Cananea e quindi pagana, di difficile interpretazione:
    El 'Elyon (Gen.14,18-22) = Dio Altissimo;
    El Betel (Gen.31,13; 35,7) = Dio Betel o Dio del santuario di Betel;
    El Ro' i (Gen.16,13) = Dio della visione, o Dio mi vede;
    El 'Olam (Gen.21,33) = Dio d'eternità, o El eterno;
    El Shaddai (Gen.17,1; 28,3; 35,11; 43,14; 48,3; 49,25) = di significato incerto. Probabilmente Dio della pianura, o della montagna, o della steppa.
  2. I Patriarchi, mettendosi in relazione con altre persone, anche pagane, parlano de "il Dio di mio/tuo/suo padre (gen.31,5.29; 43,23; 46,3; 50,17; Es.3,6; 15,2; 18,4) il che suppone che essi ammettano l'esistenza di più divinità.

Le interpretazioni di questi dati non sono univoche. La storia recente registra le sottocitate interpretazioni.

  1. I titoli cananei sopraccitati indicano divinità diverse onorate dai Cananei in santuari distinti. I Patriarchi, venendo dall'Oriente che pure era politeista, non avrebbero faticato a far proprie quelle divinità coi loro titoli. La loro sarebbe quindi stata una religione politeista.
  2. I vari gruppi di Ebrei, prima di entrare nel Canaan, onoravano ciascuno il "Dio del padre". Questo Dio è inizialmente il Dio dell'avo immediato, che il figlio riconosce come suo Dio. Ma , dato che il culto si trasmette da padre in figlio, questo Dio diventa il Dio di famiglia e "il padre" può essere un avo più lontano, quello da cui discende tutto il clan. Essendo gli antenati degli ebrei appartenenti a gruppi diversi, onoravano quindi divinità diverse tra loro, una per ciascun gruppo. Non si trattava di né di un monoteismo né di un politeismo; si trattava piuttosto di monolatria. Il "Dio del padre" era una divinità nomade, legata a nessun santuario ma solo al gruppo, da lei seguito e protetto nelle varie peregrinazioni, e che prometteva ai suoi quei beni che erano nell'ambito dei loro pensieri di seminomadi: una terra, una prosperità o ambedue le cose. Una volta entrati nel Canaan panteista, i Patriarchi avrebbero trasferito i nomi delle varie divinità cananee ciascuno al proprio Dio di famiglia. Infine, avutosi un processo di unificazione della fede in un Dio unico, questi, pur restando il "Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe" (= Dio dei padri), avrebbe riunito in sé tutti gli appellativi delle antiche divinità cananee.
  3. Risulta dagli studi recenti che nel Canaan si onoravano le stesse divinità raccolte in un pantheon e divise in divinità maggiori e minori, ed è possibile che tutti i titoli riportati sopra fossero dati ad una sola divinità. Anche i Patriarchi possono avere portato dall'Oriente la fede in un Dio creatore e superiore agli altri dei, unico per tutti loro; una volta entrati nel Canaan, gli avrebbero attribuito tutti i titoli con cui i cananei onoravano il loro Dio supremo. Allora il titolo "Dio di mio/tuo/ suo padre" indicava non tanto l'esistenza di divinità distinte quanto il legame particolare in atto tra Dio e ciascun gruppo. La religione monolatrica dei Patriarchi, riflettente il loro carattere seminomadico, si è arricchita a contatto con quella Cananea di tipo sedentario.

 

Pratiche religiose

Anche qui i dati di Genesi, riflettenti usi posteriori, ci danno solo la possibilità di avanzare delle ipotesi e di offrire comunque dei dati incompleti.
Nonostante Gen.12,7-8; 13,18 (Abramo); 26,25 (Isacco); 33,20; 35,7 (Giacobbe ), sembra che i Patriarchi non avessero altari, così come non li avevano gli arabi dell'Arabia settentrionale e centrale prima dell'Islam.
La religione Patriarcale ha probabilmente conosciuto una sola forma di sacrificio cruento di animali, lo zébah (Gen.46,1; 31,54), del tipo del sacrificio pasquale. Era un sacrificio di famiglia, offerto fuori del santuario, senza altare e sacerdote, nei luoghi di accampamento. Ogni offerente immolava lui stesso la vittima presa dal gregge; questa non era bruciata, era mangiata in comune dal sacrificatore e dalla famiglia.
Tale sacrificio era offerto particolarmente nelle feste che gli arabi nomadi celebravano nel primo mese di primavera per assicurarsi la fecondità e prosperità del gregge. E' probabile che gli antenati di Israele, pastori seminomadi, celebrassero già una festa analoga (anticipatrice della Pasqua).

Si possono considerare come antiche certe pratiche che poi furono condannate dai rappresentanti ufficiali dello jahvismo: La Massebah, etimologicamente una pietra eretta, , con diverse intenzioni. Giacobbe ne erige una in Galaad per testimoniare l'accordo raggiunto tra lui e Labano (Gen.31,45-51); una seconda segnala la tomba di Rachele (Gen.35,20). Altre hanno un significato direttamente religioso, richiamando una teofania e indicando una presenza divina (Gen.28,18-22; 35,14).

Ma diventa poi simbolo di Baal, e col tempo furono condannate quali elementi delle "alture" cananee ( Es.34,13; Deut.7,5; 12,3; Os.10,1; Mi.5,12; ecc).
Certi Alberi erano collegati al ricordo dei Patriarchi (Gen.12,6; 35,4; 21,33; 13,18; 18,1). Questi alberi, ai quali andò poi una venerazione superstiziosa, hanno suscitato la reazione della tradizione posteriore che ha cercato dapprima di sminuirne l'importanza (col dimenticarli, o portarli al plurale, o addirittura cambiando di significato al termine: valle e non più piante) e poi coinvolgendoli nella condanna portata al culto delle alture cananee (Deut.12,2; 2 Re 16,4; Os.4,13; Ger.2,20; 3,6; ecc).

Genesi 17 parla della Circoncisione praticata da Abramo come segno dell'alleanza con Dio. In proposito va ricordato:

  1. I Patriarchi l'hanno davvero praticata quando sono entrati nel Canaan dove era in uso. Ma essi non trovavano nella circoncisione un segno distintivo.
  2. La circoncisione aveva inizialmente il significato di un'iniziazione al matrimonio e conseguentemente alla vita comunitaria del clan. O forse aveva altri significati. In Israele venne però ad acquisire un significato religioso: quello di aggregazione alla comunità eletta.
  3. Tuttavia l'importanza religiosa della circoncisione si è affermata lentamente….E' solo durante l'esilio babilonese (587-538 a.C.) che divenne il segno distintivo dell'appartenenza a Israele e a Jahvé. E questo si spiega: gli esiliati vivevano in mezzo a popoli che non la praticavano, e sembra che allo stesso tempo il costume sia stato abbandonato progressivamente dai vicini immediati della Palestina.

 

Morale

Sottoscriviamo quanto affermano tutti gli studiosi credenti circa la profonda moralità e santità dei Patriarchi, il loro profondo abominio per il peccato che spiega il comando dato loro da Dio "cammina al mio cospetto e sii perfetto" (Gen.17,1)
Riconosciamo con altrettanta sincerità che "non ogni azione dei Patriarchi risulta perfetta alla visuale del cristianesimo e neppure secondo il codice mosaico, in qualche punto".
Raissa Maritain, moglie del filosofo Jacques sostiene l'esistenza di un progresso nello sviluppo della coscienza morale dell'uomo. Nell'umanità decaduta ogni uomo sente di dover fare il bene e di dover fuggire il male, ciò che noi chiamiamo luce della coscienza. Ma questa luce è inegualmente ripartita tra gli uomini, soggetta a illuminarsi sempre più o anche a oscurarsi.

"Quanto alla coscienza morale esplicita, essa viene ovunque e sempre acquisita con lentezza. Non nei suoi principi; in loro essa è contemporanea della ragione; non quanto al senso del dovere e dell'obbligo, ma quanto alla conoscenza completa delle leggi morali naturali e di quelle che provengono dal diritto positivo di Dio, come ad esempio la legge della monogamia, la quale partecipa dell'uomo e dell'altro ordine. Le leggi divino-positive sono conosciute attraverso una rivelazione progressiva, le leggi morali naturali per lenta acquisizione.
La conoscenza piena di tutte le leggi morali, per conseguenza la coscienza morale perfettamente chiara, dipende dunque insieme dalla benevolenza divina e dall'esperienza, dalla perfetta maturità della ragione e dalla sapienza soprannaturale.
E' chiaro che quelle cose non si trovano agli inizi della storia dell'umanità e di un'umanità decaduta, ma alla fine là dove la grazia divina, formatrice e educatrice, avrà prevalso sulla fragilità della natura e sulle tenebre del peccato. E allora la carità divina, l'amore e la libertà dello spirito, renderanno finalmente inutile la legalità dove sussiste sempre una misura di questo mondo".

Di conseguenza "una concezione teologale elevatissima può coesistere con una coscienza morale ancora implicita, se ciò che vi ha di oscurità e di ignoranza non è dovuto all'ottenebramento del peccato.
Tutto questo spiega nella vita dei Patriarchi "la coesistenza della coscienza inalterata dei giusti con dei costumi oggigiorno proibiti come offesa a Dio".
In questo campo, aggiungiamo per ultimo, si dimostra in modo particolare, l'accondiscendenza o pazienza di Dio.

 

Produzione letteraria

Della Bibbia attuale nessun brano proviene dal tempo dei Patriarchi. Infatti siamo nel periodo della preistoria del popolo ebraico, periodo che per definizione non può essere illustrato da alcun documento scritto, altrimenti non si tratterebbe più di preistoria bensì di storia vera e propria.
Teoricamente i Patriarchi avrebbero potuto scrivere qualcosa, dato che la scrittura era in uso fin dal 3000 a.C., e quindi era ampiamente usata al loro tempo.
In pratica, però, è difficile che l'abbiano fatto, essendo essi di cultura seminomade e non avendo quindi occasione di documentare le proprie esperienze.
Comunque, anche se qualche documento l'avessero composto, esso è andato smarrito e non è entrato a far parte della letteratura biblica. Questa è e resta un'opera letteraria dovuta al popolo ebraico il quale, prima di scrivere, doveva nascere! E di "popolo ebraico" al tempo dei Patriarchi non si poteva ancora parlare.
Lo stesso ragionamento va fatto per il successivo "periodo di Giuseppe" riferentesi all'ingresso degli Ebrei in Egitto, poiché si è ancora nella preistoria ebraica e nello stesso genere di civiltà seminomadica.

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