Vangelo di Marco – Cap 12

I vignaioli omicidi
Cap. 12,1-12

“Incominciò poi a parlare loro in parabole: Un uomo piantò una vigna, la cinse di siepe, scavò un frantoio e vi edificò una torre; quindi l’affittò a vignaioli e partì. *A suo tempo mandò dai vignaioli un servo a ritirare i frutti della vigna. *Ma quelli lo presero, lo percossero e lo rimandarono a mani vuote. *Di nuovo egli mandò loro un altro servo. Anche quello lo percossero al capo e lo insultarono. *Ne mandò pure un altro, ma essi lo uccisero; e molti altri chi percossero, chi uccisero. *Gli restava ancora il suo figlio diletto; lo mandò loro per ultimo, dicendo: Avranno rispetto di mio figlio. *Ma quei vignaioli si dissero l’un l’altro: Questi è l’erede; venite uccidiamolo, e l’eredità sarà nostra. *Lo presero, l’uccisero e lo gettarono fuori dalla vigna.*Che farà dunque il padrone della vigna? Verrà e sterminerà quei vignaioli e darà la vigna ad altri.Non avete letto nella Scrittura: La pietra che scartarono i costruttori è divenuta pietra angolare; *ciò è avvenuto per opera del Signore ed è mirabile agli occhi nostri?*E cercavano di arrestarlo, ma temevano la folla. Infatti avevano ben compreso che aveva detto quella parabola per loro. E, lasciatelo, se ne andarono”.

Il profeta Isaia (5,5) nel suo celebre canto aveva descritto una vigna nella quale il padrone aveva riversato le più amorevoli cure, scegliendone il luogo in un terreno fertile, ripulendolo dai sassi e dagli sterpi, piantandovi la vite scelta, cintandola poi con un recinto di protezione e all’interno, in posizione favorevole, una torre dalla duplice funzione: guardia in cima e una pressa a livello di terra. Ma nonostante la cura la vigna produceva acri grappoli invece d’uva dolce.La spiegazione del canto allegorico ricordava che l’ingrata vigna era la nazione d’Israele e il suo padrone era Jahvè; il quale però, esasperato dalla sterilità della vigna, ne avrebbe abbattuto il recinto abbandonandola alla distruzione con conseguente crescita di rovi e spine.La parabola è ripresa, ampliata e portata a compimento da Gesù che l’ha inserita in una cornice fortemente polemica.

Non era necessaria la perizia dei Farisei nelle Sacre Scritture e la loro conoscenza della storia religiosa della propria nazione per comprendere all’istante che la vigna in oggetto era Israele, il padrone Dio, e i servi malmenati o uccisi erano i profeti, le cui morti violente formavano un lungo elenco necrologico all’interno delle pagine delle Scritture.Oltre alla parte inerente al passato Gesù vi ha aggiunto, come conclusione, una parte riguardante il futuro, in altre parole che lo stesso figlio, inviato per ultimo dal padrone della vigna, viene percosso e ucciso. Gesù si è implicitamente svelato come Figlio di Dio, accusando in anticipo i colpevoli del loro futuro omicidio.Si tratta della dichiarazione d’autorità.Alla non più velata minaccia sottintesa nel racconto sulla sua autorità, Gesù oppone il suo insegnamento circa il piano e il progetto di Dio, legato in modo unico e inscindibile al suo destino che si trasforma in giudizio storico per chi tenta di contrastare il fine ultimo dell’azione di Dio.

Tutto ciò viene esposto con una forma che utilizza immagini classiche della tradizione biblica: la vigna è il Regno di Dio, i servi, i profeti, il proprietario della Vigna è Dio Padre, i vignaioli, l’umanità intera con i suoi capi, i frutti, la fedeltà alla legge di Dio portata a compimento da Gesù (la nuova ed eterna alleanza).Il racconto s’ispira alla tradizione socio-economica della Palestina del primo secolo. Gran parte della Galilea apparteneva a pochi proprietari stranieri. La lontananza dei padroni favoriva la rivolta dei coloni, che si rifiutavano di consegnare al proprietario della vigna il raccolto conforme al contratto d’affitto e accolgono gli inviati del padrone a bastonate. Ma il racconto di Marco evidenzia il crescendo dell’ostilità violenta: oltraggi, percosse, omicidio.

Tutte queste azioni contrastano con la pazienza, sembrerebbe incomprensibile, del padrone, il quale dopo l’invio fallimentare di molti servi, decide in ultima analisi di mandare in missione suo figlio, l’unico, il diletto, l’erede.Come possiamo già notare risalta l’immagine del figlio erede che per noi cristiani fa emergere prepotentemente il ruolo e il destino storico di Gesù, l’ultimo inviato, oltraggiato e ucciso da quelli che pretendevano di gestire la vigna, ossia quel regno che doveva restare un dono di Dio Padre.La forza del racconto è racchiusa nell’intreccio intelligente di tre azioni: la prima tra il padrone e i contadini; la seconda tra i servi e il figlio; la terza è intorno all’atteggiamento del padrone.

Il padrone e i contadini sono gli unici personaggi del racconto che agiscono e parlano. Dei servi e del figlio si narra la sorte che subiscono, ma di loro non viene riportato né un gesto né una parola. La storia, infatti, si svolge tra il padrone e i contadini. Il padrone ha la parola per primo e per ultimo: sua è l’iniziativa, come già abbiamo visto, di piantare una vigna e poi di inviare i servi, sua è anche la decisione finale di punire i contadini. Fra questi due punti, che appartengono esclusivamente al padrone, sono descritte due ostinazioni: da una parte il ripetuto tentativo del padrone di ottenere i frutti della sua proprietà, dall’altra il testardo rifiuto dei contadini di darglieli. Un primo insegnamento lo possiamo già trarre: i servi della parabola, come i profeti d’Israele, non sono rifiutati, percossi e uccisi in ragione di qualche loro pretesa personale, ma unicamente perché inviati da Dio e portavoce delle sue esigenze. Ecco perché Gesù li fa agire senza parole e senza gesti: essi non sono figure autonome, ma il tutto viene rinviato a Dio.

I servi e il figlio, visti attraverso l’atmosfera di contrasto tra il padrone e i contadini, la parabola racconta una storia che rinarra quella del popolo ebraico: la fedeltà a Dio, l’infedeltà del popolo, il giudizio. Nel racconto si distinguono palesemente due parti: una prima nella quale si parla della missione dei servi, e una seconda dove viene descritta la missione del figlio. Gesù ha cura di distinguere chiaramente le due missioni. Anche perché diversamente da quello dei servi, l’invio del figlio è seguito dalla riflessione del padrone e anche la reazione omicida dei contadini è preceduta da una riflessione.Altra cosa da tenere presente è che per il padre è il figlio amato mentre per i contadini è l’erede; inoltre la sua missione è l’ultima.In ultima analisi, se prima la parabola poteva apparire come una semplice rinarrazione della storia d’Israele, ora, a questo punto, risulta essere il suo vertice. E rispetto al canto d’Isaia, vanta una novità fondamentale: Dio ha inviato il Figlio, non solo i profeti; e il popolo ha rifiutato il Figlio, non solo i profeti.

L’atteggiamento del padrone è paziente, ostinato. Egli spera fino all’ultimo: “Rispetteranno mio figlio!”. Tuttavia anche la sua pazienza ha un limite e non può accettare che la violenza dei contadini continui all’infinito. Non gli resta che andare di persona per infliggere un severo castigo: “Verrà e sterminerà i contadini e darà la vigna ad altri”.Per il profeta Isaia, il giudizio finale è l’abbandono, mentre Gesù vi aggiunge un secondo tratto che svela un mistero: la vigna sarà data ad altri. In pratica il dono del regno di Dio passa da Israele ai pagani. Qualcuno potrebbe obiettare: non è Israele il popolo della promessa, al quale Dio ha giurato fedeltà?. La risposta è che Dio è fedele, certo, ma la sua fedeltà non può prescindere dal giudizio. Dio non abbandona il suo popolo, ma, anzi, è il popolo che ha rifiutato Dio.

Questo stile dell’azione di Dio vale per tutti i tempi. Contesta la sicurezza e i privilegi anche di una comunità cristiana, che pretende di possedere in modo irreversibile il monopolio del regno di Dio. L’unica garanzia è quella legata alla fedeltà e gratuità di Dio e alla libera fede dell’uomo.In definitiva, Gesù, come il figlio della parabola , è una pietra scartata dai costruttori, ma, nel progetto ultimo di Dio, è diventato la pietra d’angolo, che tiene unito e dona saldezza a tutto l’edificio.

La conclusione della parabola mette in luce la forza critica della parola di Gesù. Non si tratta di comprendere una teoria, ma di accogliere una persona. Ecco perché i capi, contro i quali direttamente è rivolto il racconto, comprendono il suo significato polemico ma non riescono ad accogliere la sua proposta salvifica. La parola di Gesù esige una decisione. Non esiste neutralità davanti alla sua persona. La parola di Gesù è selezionatrice, perché provoca la risposta dell’uomo.

Il tributo a Cesare
Cap. 12, 13-17

*E mandarono da lui dei farisei e degli erodiani per coglierlo in fallo nella conversazione. *Venuti, gli dicono: Maestro, noi sappiamo che tu sei veritiero e non fai parzialità per nessuno, perché non guardi alla condizione delle persone, ma insegni la via di Dio secondo verità. E’ lecito pagare il tributo a Cesare o no? Dobbiamo pagare o non pagare? *Ma egli, conoscendo la loro ipocrisia, disse: Perché mi tentate? Portatemi un denaro, che io lo veda. *Glielo portarono. Chiese: Di chi è questa effige e l’iscrizione? Gli dicono: Di cesare. *Allora Gesù: Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio. E rimasero ammirati di lui.

La controversia di Gesù con i capi del popolo continua. Ora gli sottopongono una questione pratica di politica: è lecito pagare le tasse all’usurpatore? Si sa che gli zeloti si astenevano dal pagarle per motivi religiosi, affermando che l’unico sovrano degli Ebrei era Dio. Gesù nella risposta non dà una valutazione politica sulla bontà dello stato romano, ma afferma un principio morale: Dio è il re supremo che dobbiamo servire. Ciò non toglie che dobbiamo accettare anche le autorità come quelle statali, se non si oppongono alla libertà religiosa e ai diritti di Dio. La risposta lapidaria di Gesù alla questione sul tributo da pagare all’impero romano ha una risonanza notevole nella storia, perché riguarda precisamente la zona in cui s’incontrano i diversi e qualche volta opposti interessi, politici e religiosi, materiali e spirituali. L’attenzione a questo brano evangelico è accentuata dal desiderio di conoscere l’ideologia e la posizione politica di Gesù.

Per farlo i due gruppi, farisei ed erodiani, uniscono le loro forze per intrappolare Gesù. Se egli afferma che le tasse devono essere pagate, perde la stima dei nazionalisti religiosi. Se egli nega che le tasse debbano essere pagate, rischia l’arresto come rivoluzionario politico. Essi lo avvicinano in maniera adulatrice, ma ipocrita, e poi gli chiedono se sia legale pagare il tributo a Cesare. Riconoscendo la loro ipocrisia, Gesù elude la trappola chiedendo loro di mostrargli una moneta recante l’immagine e il nome dell’imperatore. Chiedendo di vedere la moneta d’argento, Gesù come il solito, tende a coinvolgere l’interrogante nella scoperta della risposta. Il solo fatto che sia i farisei che erodiani usino la moneta, coniata a Roma, recante la scritta TIBERIUS CAESAR DIVI AUGUSTI FILIUS AUGUSTUS, dell’imperatore implica che essi devono pagare le tasse a lui. Tuttavia, Gesù sposta il dibattito su un altro livello, sfidando i suoi oppositori ad essere osservanti nel pagare i loro debiti a Dio così come ripagano all’imperatore. Gli avversari vengono smascherati come ipocriti e non realmente religiosi, e Gesù guadagna onore per avere riconosciuto la loro indole e per avere eluso la loro trappola.

Ecco perché di fronte al quesito che gli è stato posto, Gesù si situa nella concretezza della situazione storica: se un potere è accettato, va rispettato; ma non vi è un solo piano della realtà: sono due. Le cose umane spettano a libere scelte umane, con una logica essenziale che implica coerenza. Nel caso: accettare una buona moneta stabile e non volerne ed è garante dei più veri diritti e valori umani, che vanno rispettati. Così la netta risposta di Gesù “Rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”, chiude la bocca agli opposti tentatori. Non si devono contrapporre, né confondere, né mettere in alternativa l’autorità di Dio e quella umana: non una religione-politica o politica-religione, non lotta reciproca, ma due realtà distinte da rispettare. L’amore di Dio supera ogni cosa, ma non si deve concepire la religione fuori della storia. Non bisogna ridurre la realtà, non si deve mancare d’equilibrio.

I sadducei e la risurrezione dei morti
Cap. 12,18-27

*Poi vennero da lui dei sadducei, i quali dicono che non c’è risurrezione; e lo interrogano dicendo: *Maestro, Mosé ha scritto che se il fratello di uno muore e lascia la moglie senza figli, suo fratello ne prenda la moglie e susciti una posterità al fratello. *Ora c’erano sette fratelli: il primo prese moglie e morì senza lasciare figli. *La prese il secondo e morì e neppure lui lasciò figli e così il terzo, *e così tutti e sette non lasciarono figli. Ultima di tutti anche la donna morì. *Nella risurrezione, quando risorgeranno, di chi di loro sarà moglie? Perché tutti e stette l’ebbero in moglie. *Disse loro Gesù: Non errate forse, voi, che non comprendete le Scritture, né la potenza di Dio? *Quando infatti risorgeranno dai morti, non prenderanno moglie né prenderanno marito, ma saranno come angeli nei cieli. *Quanto alla risurrezione dei morti, non avete letto nel Libro di Mosé, nel passo del roveto, che Dio gli parlò dicendo: Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe? Non è Dio dei morti, ma di viventi; voi siete caduti in un grosso errore.

La terza controversia riguarda una questione molto dibattuta nei circoli giudaici e tra le varie fazioni religiose, farisei e sadducei in particolare. Essi, infatti, sono esponenti delle classi dirigenti, amanti dell’ordine costituito, collaboratori dei Romani, liberali in materia religiosa. Essi negavano la risurrezione. Infatti nell’episodio narrato da Marco sono di scena proprio loro. L’obiezione dei sadducei fa riferimento alla legge del levirato descritta in Dt.25,5-10, al fine di dimostrare l’assurdità delle fede nella risurrezione. Invece di confutare le loro argomentazioni, Gesù li accusa di non comprender né le Scritture, né il potere di Dio. Essi non riescono a capire il potere di Dio, perché la vita dopo la risurrezione sarà completamente diversa da quella attuale

Dato che non ci sarà più matrimonio, l’argomento dei sadducei sulla base della legge del levirato, è privo di fondamento. Essi non riescono neppure a comprendere le Scritture poiché in Es. 3,6 – Io sono il Dio di Abramo… – presuppone che i patriarchi di Israele fossero ancora viventi ai tempi di Mosé. Perciò la risurrezione dai morti viene insegnata nel Pentateuco. Cosa fa Gesù? Tralascia la questione giuridica e va direttamente al cuore del problema religioso. Affronta il quesito circa il modo della risurrezione, facendo appello ad un paragone noto nella letteratura apocalittica che afferma che la vita dei risorti non è condizionata dalle necessità biologiche: Saranno come angeli nei cieli.

Però sarebbe un fraintendere il pensiero di Gesù trarre la conclusione che l’ideale evangelico corrispondente alla vita finale e perfetta dell’uomo è l’eliminazione della sessualità. La sessualità, intesa come elemento essenziale della corporeità e della vita personale comunitaria, non può essere esclusa da una risurrezione che reintegri l’uomo nella sua unità e completezza psico-fisica. La risposta di Gesù si oppone alla materializzazione “sadducea”, che proietta semplicemente nel mondo dei risorti la situazione presente e riduce la sessualità alla procreazione per assicurare la discendenza.

Trattare in termini terrestri una realtà ultraterrena, è errore grossolano: vi sono incappati i sadducei, v’incappano tutti i materialisti. Cristo afferma, come abbiamo visto, come dato di fatto la risurrezione, e la qualifica realtà superiore alla vita terrena e rapporto vitale con Dio. La risurrezione non è cosa di questo mondo, non va pensata possibile o impossibile in base alla vita terrena: essa è come una nuova creazione ed è tutta opera di Dio. Egli è il “Dio dei viventi”.

Il comandamento principale
Cap. 12, 28-34

*Allora uno scriba, che li aveva uditi discutere, vedendo che Gesù aveva risposto bene, lo interrogò dicendo: Qual è il comandamento primo fra tutti? *Gesù rispose: Il primo è: Ascolta Israele! Il Signore Dio nostro è l’unico Signore; *amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l’anima tua, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. *Il secondo è questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Maggiore di questo altro comandamento non c’é. *E lo scriba: Bene hai detto, Maestro e con verità: Egli è l’unico e fuori di lui non v’è alcun altro; *amarlo con tutto il cuore, con tutto l’intelletto e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso è assai più di tutti gli olocausti e le offerte. *Gesù, vedendo che egli aveva risposto assennatamente, gli disse: Tu non sei lontano dal regno di Dio. E nessuno osava più interrogarlo.

Gesù riporta la legge alla sua funzione originaria: determinare l’incontro di Dio con gli uomini e degli uomini tra loro e con Dio nell’amore. Il commento dello scriba contiene una coloritura liturgica importante: la vita e il culto non sono due realtà indipendenti, ma l’una e l’altra si risolvono nell’amore. Il secondo comandamento nasce dal primo e ne è come il frutto: “Non c’è altro comandamento più importante di questi”. Si va a ritroso o si sbanda quando si sovverte quest’ordine, perché il vero amore del prossimo nasce dal vero amore di Dio. Ma è consolante il fatto che sovente l’amore di Dio si cela in un amore del prossimo non egoistico, operante come un principio primario.

In queste poche righe abbiamo già sperimentato le esigenze morali nel precetto dell’amore e scoperto che sono il vertice dell’insegnamento pratico del Vangelo. Marco riporta questo insegnamento di Gesù nel contesto di una pacifica discussione con uno scriba giudeo. Marco riflette in questo la tradizione originaria, anche se la bella figura che fa lo scriba, la sua cordialità e ammirazione per Gesù e la lode che ne riceve, sono un’eccezione in tutto il suo vangelo. Dobbiamo sempre rammentare che per poter applicare la legge di Dio alle singole e minute circostanze dell’esistenza, impedirne la trasgressione, siano elencati dagli esperti molti precetti o comandamenti, grandi e piccoli, corretti e negativi, che alla fine raggiunsero la quota di 613, provocando quasi un senso di repulsione nei fedeli simile ad un peso grave da sopportare.

Ecco, quest’immagine ci fa comprendere come davvero i farisei, avevano travisato ogni cosa. Dio aveva donato la Legge, per mezzo della quale gli uomini tutti potevano vivere in una comunità, gradevole, accogliente dove vivere in pace. Il fatto è che purtroppo i farisei e gli altri presero sul serio solo le loro idee su Dio e sulla sua legge. Non si preoccuparono mai di chiedersi se camminassero per la strada giusta, osservando e interpretando la Legge di Dio a quel modo. Non cercarono mai di sapere se era proprio questo ciò che voleva Dio da loro. Invece di adattare il loro modo di vedere Dio, adattarono Dio al loro modo di vedere le cose. Potevano, almeno qualche volta, dubitare di se stessi! Possibile che Dio che è amore, pace, felicità vuole complicare la vita dell’uomo fino a questo punto? Perciò la gente, incapace di capire e di osservare le interminabili 613 norme dei farisei, era emarginata, restava fuori, senza voce e senza alcuna opportunità di farsi sentire.

Solo i farisei erano quelli che si trovavano in condizione di entrare e vivere dentro la comunità. Al contrario, il popolo cencioso, come lo definivano, era maledetto perché non conosceva la Legge. (Gv.7,49).Ma quando i farisei parlavano della Legge di Dio non pensavano più tanto ai Dieci Comandamenti. Si riferivano piuttosto alla miriade di regole inventate da loro che niente avevano a che fare e vedere con Dio. Le imponevano alla gente, e basta. (Mc.7,8). Ma allora la gente? La gente si creò un complesso d’ignoranza credendo che solo i farisei fossero i depositari della conoscenza. Solo i farisei erano capaci. Solo i farisei erano santi. Solo i farisei sapevano capire Dio.

Così a poco a poco i farisei diventarono oppressori, e la gente oppressa. Ma il dramma è che entrambi si trovarono d’accordo, avevano le stesse idee e credevano di dover camminare a quel modo. (Mt.15,14). Per far sì che la Legge di Dio fosse esattamente osservata, Gesù dovette potare l’albero e tagliare molti rami parassiti, che i farisei tenevano in piedi e irrigavano abbondantemente. Gesù ha lottato, ha predicato, ha criticato, ha insegnato tutto il tempo. Ma, soprattutto, Gesù è stato il primo a vivere nella sua persona quello che insegnava sulle autentiche intenzioni di Dio rispetto alla vita umana: Amare Dio e il prossimo.

La novità evangelica, il lieto annuncio, si ha nell’esclamazione finale di Gesù. Essa ha il suo corrispondente nelle sentenze con le quali Gesù saluta il tempo nuovo, la nuova situazione inaugurata dalla sua presenza e azione personale: Il regno di Dio è vicino (Mc.1,15). Nell’incontro con Gesù lo scriba non ha trovato semplicemente la conferma autorevole delle intuizioni morali alle quali la sua formazione scolastica e religiosa lo aveva già preparato, ma ha fatto l’esperienza della vicinanza di Dio, del regno vicino, della giustizia di Dio

Amare Dio con tutto il cuore e il prossimo come se stessi non è più soltanto una nuova sintesi morale, il comandamento più importante o il principio etico di grado superiore, ma è la nuova possibilità offerta all’uomo – fuori dell’orbita delle 613 norme rigide – qui e ora nell’incontro con colui che rende visibile e accessibile l’amore di Dio. In Gesù amare Dio e il prossimo è un dono, un dinamismo immesso in colui che si apre nella fede.

Il Messia e Davide – Accuse agli scribi – L’offerta della vedova
Cap. 12,35-44

*Gesù, insegnando nel tempio, domandò: Come possono dire gli scribi che il Messia è figlio di Davide? *Poiché Davide stesso, mosso dallo Spirito Santo, ha detto: Il Signore disse al mio Signore: Siedi alla mia destra, finché io ponga i tuoi nemici sgabello dei tuoi piedi. *Lo stesso Davide lo chiama Signore: come dunque può essere suo figlio? E una gran folla lo ascoltava volentieri.

*E Gesù diceva loro nel suo insegnamento: Guardatevi dagli scribi che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere riverenze nelle piazze, *i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei conviti; *che divorano le case delle vedove e ostentano lunghe preghiere; essi subiranno più severa condanna.

*E sedutosi davanti alla cassetta delle offerte, osservava la gente che vi gettava del denaro. E tanti ricchi ne gettavano molto. *Venuta una povera vedova, vi gettò due spiccioli, cioè un quadrante. *Gesù, chiamati i suoi discepoli, disse loro: In verità vi dico che questa povera vedova ha dato più di tutti quelli che mettono offerte nella cassetta; *perché tutti hanno dato del loro superfluo, ma costei nella sua povertà ha messo tutto ciò che possedeva, tutto ciò che aveva per vivere.

Era comunemente ammesso in base ai testi dell’A.T. che il Messia sarebbe stato un figlio di Davide e che sarebbe venuto a restaurare lo stesso regno davidico. Infatti, Marco finisce l’episodio precedente con l’osservazione: “E nessuno osava più interrogarlo”. Allora Gesù prende l’iniziativa di un insegnamento della massima importanza, rivolgendosi direttamente alla folla nel tempio. Gesù chiama a considerare a fondo la sua persona, per scoprire la sua piena identità. Il pericolo sempre ricorrente nella storia è di ridurre Gesù alle proporzioni adatte ad una certa mentalità umana, ad una certa cultura. Gesù, nella sua grandezza divina e umana, risponde a tutte le attese, ma le trascende sempre, non può mai essere catalogato, classificato. E’ così inarrivabilmente “uomo”, proprio perché è Dio, il Creatore dell’uomo, che conosce fino in fondo l’essere umano. Ecco perché quest’ultima istruzione pubblica riguarda la sua persona e la sua missione in modo diretto, perché in alcuni gesti e in alcune parole egli ha espresso la pretesa messianica e secondo questa prospettiva è stata interpretata dalla gente, Benedetto il regno che viene, del nostro padre Davide.

Secondo la tradizione giudaica, il Messia doveva essere un discendente di Davide. Anche in questo caso Gesù infrange gli schemi precostituiti e invita gli ascoltatori all’approfondimento e alla riflessione con una domanda lasciata in sospeso: Come dunque può essere suo figlio? (di Davide). Il passo in questione è quello del Salmo 110,1 che Gesù richiama con una semplice allusione: Davide stesso lo chiama Signore. Forse che Gesù rifiuta l’ascendenza davidica? No di certo! Tuttavia invita gli ascoltatori a superare una visione che si limita a identificare la promessa salvifica di Dio con una continuità storica dinastica. Nella sua domanda rivolta alla folla vi è una velata allusione al mistero della sua identità profonda. Questa, però, non viene scoperta in conformità a sottili ragionamenti o per mezzo di raffinate interpretazioni di testi biblico. L’uomo deve rendersi disponibile alla novità che Dio gli offre, quando si presenta a lui accessibile e vicino in Gesù, suo Figlio.

L’episodio degli scribi e dei farisei, fa bene sentirlo. Gesù mette in guardia la folla e, di là della folla, la comunità dei discepoli da due atteggiamenti biasimevoli degli scribi e dei farisei: la vanità e l’ipocrisia. La prima si manifesta nello sfoggio ampio del mantello dei rabbi, nella ricerca del saluto o riverenza nei luoghi frequentati dalla gente, le piazze e nell’accaparrare i seggi più onorevoli e ambiti nei conviti e nell’assemblea liturgica. La seconda è l’ipocrisia, che si rivela nell’ostentare una gran devozione prolungando i tempi di preghiera alla vista di tutti. Queste critiche impietose di Gesù condannano difetti che sono frutto di una deformazione professionale, in pratica i difetti tipici d’uomini che hanno una formazione culturale superiore e un ruolo sociale corrispondente. Ma l’ipocrisia diventa spudorata nella contraddizione evidente tra questa ostentata religiosità pubblica e il comportamento verso i deboli e gli indigenti, come le vedove, di cui sfruttano l’ospitalità e la generosità. Ecco perché Gesù, con uno stile che risente della severità profetica, lancia contro scribi e farisei il suo tremendo giudizio di condanna.

Tanti non osano nemmeno fare o dare qualcosa, per timore dell’esiguità della loro prestazione, del loro dono. Ma Dio non giudica con calibro esterno, guarda all’animo del donatore. Gesù si oppone con vigore all’ipocrisia, al calcolo, all’ingiustizia, al falso, alla vanità, all’ingordigia, alla superbia, ed esalta la sincerità, la generosità, la giustizia, la povertà, il disinteresse, l’umiltà, il distacco. Una povera donna vedova dà due soldi, e dà più di tutti, perché dà tutto il suo, dà di se stessa. Costa molto dare anche poco, se quel poco è il tutto che si ha; e ciò che “costa”, vale. Dare il “superfluo”, ciò che non toglie assolutamente nulla ai propri comodi e piaceri, che “valore” veramente umano può avere?

Con questa sentenza sul valore dell’offerta termina l’attività e l’insegnamento di Gesù nel tempio. Aveva iniziato contestando il mercato e il traffico nel tempio, che si svolgeva sotto la tutela dei sacerdoti; aveva sconfessato la sicurezza e la boria dei circoli dirigenti di Gerusalemme; con il gesto della povera vedova, esalta l’autentico valore religioso del gesto. Terminando: il luogo d’incontro tra Dio e l’uomo non passa attraverso il potere cultuale o istituzionale, ma attraverso il cuore del povero, in altre parole totalmente aperto e disponibile al Creatore.

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