Beati gli afflitti

Quando Gesù proclama beati gli afflitti, beati coloro che piangono, a chi si riferisce? Si riferisce a quella condizione della vita terrena che non manca a nessuno. C’è chi è afflitto perché non ha salute, c’è chi è afflitto perché è povero, c’è chi è afflitto perché è solo, c’è chi è afflitto perché è incompreso o perché sovraccarico di lavoro, o perché non è assecondato nelle sue aspirazioni e nelle sue capacità.

I motivi di sofferenza sono molteplici. La vita terrena è segnata dal dolore. Ma questo si può vivere in tanti modi. O con l’atteggiamento passivo di chi si lascia andare ad una inerte rassegnazione, o con uno stoicismo che indurisce il cuore. Oggi c’è tutta una filosofia la quale erige a supremo principio del vivere la fuga da ogni afflizione e la ricerca di godimenti.

Gli afflitti di cui parla Gesù sono coloro che, senza fare né del godere né del patire il primo principio dell’esistenza, accettano la realtà della vita con fiducia e speranza, sapendo che attraverso questo itinerario provvidenziale vanno verso il Regno.

E questo è il segno inconfondibile della salvezza promessa da Dio al suo popolo e annunciata dai profeti: il Messia si china su tutte le miserie umane per salvarle, per dare sollievo e gioia agli afflitti, per consolare chi piange. Tuttavia gli afflitti, come per i poveri, non mancheranno mai nel mondo. Le guarigioni miracolose operate dal Signore,“..ciechi riacquistano la vista, zoppi camminano, lebbrosi vengono mondati, sordi odono” (Lc.7,22), non sono che il simbolo di una salvezza più profonda ed essenziale. L’opera di Gesù non si ferma ai corpi, ma va più a fondo: tocca i cuori e li sana dal più grande dei mali, il peccato. Le afflizioni fisiche e morali, le malattie, i lutti, le oppressioni, gli affanni della vita ecc, diventano il veicolo attraverso il quale l’opera della salvezza raggiunge più facilmente l’uomo.

“Guai a voi che ora ridete, perché sarete afflitti e piangerete”, ha detto Gesù (Lc.6,24). Chi vive nel godimento, chi ha tutto ciò che vuole e non manca di nulla, corre un rischio tremendo. Soddisfatto di sé e della vita terrena, non avverte la precarietà della sua situazione, non sente il bisogno di essere salvato, non apre il cuore alla speranza delle cose celesti. Al contrario l’afflitto, impotente a liberarsi dalle sue tribolazioni, si rende conto che Dio solo può aiutarlo, solo da lui può essere salvato per il tempo e per l’eternità. Gli afflitti che, come i poveri, accettano dalle mani di Dio la loro sorte, che si sottomettono a lui con umiltà, e pur soffrendo non cessano di credere al suo amore di Padre e alla sua Provvidenza infinita, sono proclamati beati da Gesù “perché saranno consolati” (Mt.5,4). E se la consolazione piena sarà soltanto nella vita eterna, qui in terra, in mezzo alle loro angustie, non saranno privi del conforto di sentirsi più vicini a Cristo che porta con loro e per loro la croce.

Quando i mali fisici o morali tormentano l’uomo e sembrano inchiodarlo in situazioni irrimediabili, non è facile credere alla beatitudine proclamata dal Signore. Eppure il dolore nasconde sempre un mistero di vita e di salvezza. Necessita aspettare e sperare la propria consolazione solo da Dio. Bisogna attendere lui, l’unico che salva e cambia il pianto in gioia vera. Occorre avere il coraggio di abbracciare la croce non solo con rassegnazione, ma con amore, con volontà decisa di seguire Gesù sofferente fino al Calvario, fino al Sepolcro, perché soltanto dalla morte può fiorire la risurrezione. Allora si capisce perché San Paolo ha potuto dire:“Sono ricolmo di consolazione, pervaso di gioia nonostante ogni nostra tribolazione” (2^Cor.7,4). E’ la beatitudine della sofferenza che incomincia ad avverarsi quaggiù per chi sa patire con Cristo per la salvezza del mondo. Si tratta di una consolazione oggettiva che trasfigura la vita umana attraverso l’avvento del Regno e della redenzione. Quindi la beatitudine dell’afflizione ha valore messianico: il Signore annunzia che verrà. E cerca di far capire il significato della sua venuta in questo mondo.

Ma per coloro che amano Dio ci sono altri motivi di pianto. Ci sono le lacrime della Maddalena penitente e di Pietro che piange per il rinnegamento. Ci sono le lacrime di chi, pur amando sinceramente Dio, deve ogni giorno rimproverarsi qualche debolezza, qualche infedeltà; lacrime sante di compunzione, dono dello Spirito Santo. E lacrime ancora per tutto il male che, dilagando nel mondo, fa tante vittime, travolge tanti innocenti, fa deviare dalla fede, travaglia la Chiesa, offende Dio.

In termini molto concreti, questa beatitudine del Signore si deve tradurre così: voi che finora siete stati tribolati, accogliete me che sono mandato ad essere il vostro consolatore.

Gesù che annuncia le beatitudini annuncia se stesso. Annuncia che lui è la consolazione dell’afflitto, che disseta l’assetato, che sfama l’affamato, che ristabilisce la giustizia, che rende immacolati gli uomini perché lui è il Consolatore.

Sappiamo bene, fratelli e sorelle, qual è la storia dei consolatori: quando non ci servono ne abbiamo a decine; quando ci servono, non ne troviamo neppure uno. Al contrario, Gesù è sempre presente, perché la consolazione che ci porta non è semplicemente di ordine emotivo e sentimentale, ma è più profonda e più radicale: è un dono interiore che fa traboccare nel cuore dell’uomo la beatitudine di Dio. Nessuno al mondo è autenticamente beato se non attraverso una partecipazione della beatitudine di Dio, di cui Gesù è l’annuncio e insieme il sacramento. Come possiamo notare, ci troviamo ancora una volta di fronte ad una esigenza radicale nell’esperienza cristiana: l’uomo ha bisogno di incontrare il Signore. Nella misura in cui lo scopre e lo incontra, nella stessa misura accoglie la salvezza e diventa beato. E questa beatitudine fa contrasto alle esperienze della vita senza Dio.