Un comandamento nuovo

Giotto - Ultima Cena“Figlioli, ancora per poco sono con voi…

Vi do un comandamento nuovo:

che vi amiate gli uni gli altri;

come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri.

Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni gli altri”.

La sera dell’ultima cena, Giuda si è appena allontanato per il tradimento; Gesù si sente libero di parlare ormai a cuore aperto. La prospettiva della croce vicina, “Ancora per poco sono con voi..”, dà alle sue parole il tono di testamento spirituale, di ultime accorate volontà.
Ed è su queste parole che bisogna meditare in profondità. E’ singolare che in un momento come questo Gesù non raccomandi tanto di rammentarsi di lui, di amarlo, ma di amarsi gli uni gli altri. Ancora una volta non pensa a sé, ma ai suoi discepoli presenti e futuri.

Fratelli e sorelle, la grande legge dell’amore naturale è la reciprocità: “Come io ho amato te, tu ama me” La grande legge dell’amore evangelico è la circolarità: “Come io ho amato voi…”: dopo questa premessa ci aspetteremmo che segua: “così voi amate me”; invece no: “così amatevi gli uni gli altri”. E’ una costante: “Carissimi, se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci” (1 Gv.4,11).
La prima sentenza è un amore a circuito chiuso, la seconda è a circuito aperto. Che significa? Vuol dire che nel mondo continua il movimento Trinitario. L’amore del Padre si fa visibile nel Figlio; dal Figlio per opera dello Spirito Santo, viene in ognuno di noi (Rm.5,5); da noi deve poi ritornare sul prossimo: “Il Padre ha amato me, io ho amato voi…Voi amatevi gli uni gli altri”.

Perché questo singolare dirottamento dell’amore da Dio all’uomo e al prossimo? Per il semplice motivo che non siamo in grado di amare Dio come Egli ci ama. Infatti, Dio ci ama senza essere amato. Tutto l’amore che noi abbiamo per Lui è un sentimento di debito, non di grazia, in quanto siamo tenuti a farlo; al contrario Egli ci ama con amore di grazia. Quindi nella nostra umanità noi non siamo in condizione di rendergli l’amore che ci richiede. Per questa ragione ci ha messo accanto il nostro prossimo. Affinché facciamo ad esso quello che non possiamo fare a Lui, cioè di amarlo senza considerazione di merito e senza attendersi alcuna utilità. Quindi ciò che riusciamo a fare per gli altri, in realtà lo facciamo a Dio.

La portata di questo amore non è il merito della persona amata (non vi sono meriti), ma semmai il bisogno. Ne ha più diritto chi ne ha più necessità. Per questo Gesù nei Vangeli predilige i piccoli, i disprezzati, i malati e lo udiamo dichiarare: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati”.
Questo amore gli uni per gli altri e specie per i più poveri dei poveri viene indicato da Gesù come il marchio di riconoscimento del fatto di considerarsi suoi discepoli. E se ben ci pensiamo, la storia conferma che così è stato fatto. Accanto all’annuncio del Vangelo, ciò che più ha contribuito alla diffusione del cristianesimo fu proprio la testimonianza della carità. Nei primi secoli si organizzarono aiuti per tutte le categorie più bisognose: vedove, orfani, infermi, carcerati, condannati alle miniere, bambini abbandonati ecc…. E’ stato un agire talmente nuovo e rivoluzionario che impressionò il mondo pagano a tal punto, che molti di essi guardando i cristiani esclamavano stupiti: “Guardate come si amano!”.

I veri discepoli di Gesù si riconoscono dal nutrimento della sua Parola e dalla sua imitazione all’amore agli altri e non con ragionamenti e trattati di apologetica. San Giovanni ha raccolto questo invito dal maestro e nella sua lettera ne spiega il senso: “Egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli…Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità” (1Gv.3,16-18).
Gesù ha detto: “Non c’è amore più grande che dare la vita per un amico”.

Amen,alleluia,amen.