Atti degli Apostoli

Abbiamo finora visto i punti di riferimento essenziali della comunità negli Atti. Vediamo da ultimo il criterio operativo della comunità alle sue origini, o meglio, il criterio semplice su cui ordina il suo comportamento e le sue decisioni. Rileggiamo per questo insieme i capitoli 3 e 5 degli Atti: il testo ci presenta, sostanzialmente, le conseguenze del miracolo raccontato in At.3,1-9 e del successivo discorso di Pietro in At.3,11-26.

I fatti e le parole degli apostoli si pongono, da subito, come un segno di contraddizione: chi vi partecipa non può non farlo da semplice spettatore, ma è indotto in qualche modo a schierarsi.

Il risultato, per gli apostoli, è la persecuzione e soprattutto una chiara percezione che la loro vita è profondamente cambiata. Tale cambiamento si evidenzia nella risposta di Pietro al Sinedrio:

“Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” (At.5,29).

Che ora cercheremo di vedere da vicino. Un’espressione simile compare anche allorché Pietro e Giovanni sono davanti al Sinedrio per la prima volta:

“se sia giusto innanzi a Dio obbedire a voi più che a lui, giudicatelo voi stessi” (At.4,19).

Queste due affermazioni corrispondono a una confessione di fede e come tali dovevano essere intese anche dai sinedriti. In altre parole, il rifiuto di obbedienza è la proclamazione del primato di Dio e dell’evento che si compie in Gesù Cristo. Indirettamente inoltre, il rifiuto di obbedienza diventa anche una contraccusa per i sinedriti: ribadisce cioè che Gesù è la pietra d’inciampo (At.4,11), pur offrendo nello steso tempo la possibilità della conversione; l’obbedienza stessa degli apostoli, cioè, sulla via dell’obbedienza di Cristo al Padre, offre a tutti la strada del ritorno e della riconciliazione.

Gli apostoli infatti si accorgono di essere posti da Dio come un segno davanti al popolo; il segno non può essere negato come tale, al modo stesso che Gesù non può essere negato per sé. Può invece essere rifiutato o messo a tacere, come di fatto viene detto ripetutamente agli apostoli (At.4,17-18; 5,28-40), in realtà è un voler tacitare la volontà di Dio. Benché infatti gli apostoli non lo dicano espressamente, tuttavia essi agiscono perché è a loro nota la volontà di Dio, resa accessibile per quello che hanno visto e udito da Gesù prima e dopo la Pasqua e pienamente compreso dopo la Pentecoste. Essi non possono negare la propria identità di testimoni né possono ignorare che l’opera di Dio si perpetua ora attraverso di loro; la loro vita perciò si informa su un criterio che la trascende e la supera: la salvezza di tutti voluta da Dio, appunto, e l’obbedienza a lui prestata al modo di Gesù con la propria vita.

Questo “criterio di disobbediente obbedienza”, per così dire, è quindi completamente cristologico e modella il volto della comunità sulle fattezze del volto di Gesù servo sofferente.

Posti nell’alternativa d’autorità, gli apostoli non hanno dubbi né ripensamenti in vista delle conseguenze.

Soprattutto facciamo attenzione al discorso sulle sofferenze: la disobbedienza al Sinedrio non è per Pietro e gli altri un modo per ritagliarsi un’autonomia finendo con l’obbedire solo se stessi, ma un richiamo intransigente al disegno autorevole di Dio, per il quale ogni apostolo dà seriamente la propria vita e affronta il rischio concreto della persecuzione e della morte.

Nonostante la certezza della vittoria, sullo sfondo della risposta degli apostoli sempre si staglia un paesaggio segnato dalla croce, che è come il luogo di verifica della verità e dell’obbedienza a Dio.

Una chiesa, una comunità, che viva in coerenza la propria obbedienza a Dio, oltre a ripetere la risposta di Pietro laddove sorgano conflitti con altre autorità, non potrà che addossarsene le conseguenze e insegnare ai credenti a fare altrettanto, nella certezza di accelerare e rendere presente così nella storia la venuta del Regno nella sua forma piena e definitiva.

Amen,alleluia,amen