Tre parabole conviviali

Guarigione di un idropico in giorno di sabato (Lc. 14,1-6)

Criterio di scelta: l’ultimo posto e i poveri (Lc. 14,7-14).

Gli invitati a nozze (Lc.14,15-24; Mt. 22,1-14)

Luca 14,1-6.

Un sabato Gesù era entrato nella casa di uno dei notabili appartenente ai farisei, per pranzare; “e quelli stavano ad osservarlo”.

Con questa annotazione Luca apre una sezione (14,1-24) costituita da un racconto di miracoli e da tre parabole collocate nel contesto di un banchetto.

Si tratta del terzo episodio in cui è in discussione il significato del riposo sacro in giorno di sabato (cfr. 6,6-11; 13,10-17). Non dobbiamo scordare che l’intenzione della legge del riposo del sabato era la tutela della dignità dell’uomo e della sua libertà (cfr. Es.20,11; Dt. 5,15). I rappresentanti del giudaismo ufficiale e ortodosso, i farisei appunto avevano vivisezionato la volontà di Dio in una quantità di pratiche minute, lecite o proibite, diventando schiavi del loro schematismo giuridico. E poiché il caso dell’idropico non rientra fra quelli previsti per l’intervento in giorno di riposo, ciò che farà Gesù apparirà pericoloso.

Infatti, questo episodio inaugura la sezione del pranzo o convito, nella quale Luca raccoglie alcuni insegnamenti di Gesù sulla ricerca sincera della volontà e del progetto salvifico di Dio. Nel caso presente Gesù fa capire che attua veramente la volontà di Dio chi si accosta all’uomo bisognoso cos’ì com’è, senza sottigliezza e distinzione casistica.

L’idropico è figura di quell’uomo che un giorno fugge dalla mensa di Dio. L’uomo solo, lontano da Dio, non ebbe fortuna. Si ammalò di idropia: diventato pieno d’acqua e di vanità, lui che avrebbe potuto godere la pienezza di Dio e del suo Spirito.

Gesù se lo trova davanti. E’ sabato e guarirlo può sembrare una violazione della legge. Gesù pone direttamente la domanda ai dottori e ai farisei che lo stavano osservando sin da quando era entrato: “E’ lecito o no curare di sabato?”. La questione posta incontra il silenzio più glaciale: “Ma essi tacquero immobili”. E Gesù, senza curarsi del loro silenzio e senza ottenere una risposta, “lo prese per mano, lo guarì e lo congedò”.

Gesù non teme di gettare il sasso sulla superficie apparentemente tranquilla, provocando l’imbarazzante silenzio, pur sapendo di trovarsi nel quadro scomodo di un invito ad un banchetto-tranello..

Ciò che egli compie è una forma di carità che costa, la franchezza apostolica.

Nello sbigottimento generale Gesù pone poi una seconda domanda, che pare intenzionata a creare successivo disagio: “Chi di voi se un asino o un bue gli cade nel pozzo, non lo tirerà subito fuori in giorno di sabato?”

Il problema posto da Gesù non è di carattere generale (è lecito o no?), bensì di una domanda personale (chi di voi?); essa colpisce direttamente la contraddizione, o l’ipocrisia, del silenzio dei farisei. E’ più importante un uomo o un asino? AD una domanda di questo tipo non si può controbattere: o ci si arrende accettando l’ovvia risposta o ci si accorge che l’avversario ha ragione: “E non erano capaci di controbattere a queste parole”.

In conclusione, quello che si può fare per salvare i propri interessi in caso d’emergenza vale anche per soccorrere il prossimo bisognoso. E’ da quest’angolazione che si può scoprire la genuina volontà di Dio. L’insegnamento era ed è attuale anche per i cristiani odierni che non sono più angustiati dal problema del riposo sacro, ma che rischiano sempre di fossilizzare la volontà di Dio in schematismi rigidi e astratti.

Luca 14, 7-14

Nel silenzio dei suoi commensali, Gesù prende nuovamente la parola, questa volta per narrare una parabola (14,7-11): non però allo scopo di riprendere il motivo del sabato, bensì per evidenziare una seconda contraddizione della religiosità che lo circonda.

L’insegnamento prende spunto dalle regole conviviali o di galateo in uso nella società del tempo e suggerite dalla tradizione sapienziale dei maestri giudaici (cfr.Prov. 25,6-7; Sir. 31,18).

Gesù si serve di questo esempio di costume per trarre un insegnamento religioso. Gli uomini arrivisti, vanitosi, e presuntuosi che arraffano i primi posti, non sono un’eccezione, anche oggi per il posto si lotta ed è uno spettacolo, purtroppo quotidiano nella nostra società. Intrighi e congiure, ricatti e raccomandazioni ad alto livello o anche semplicemente l’illusione di chi arriva dalla campagna in città, si collocano in questa linea d’aspirazione; in questo eccellono, allora come oggi, gli scribi e i farisei moderni che litigano per le precedenze gerarchiche e i ruoli. Infatti, tutte queste persone sono convinte di avere diritto ai posti d’onore.

Gesù osserva la scena e cita un detto del Libro dei Proverbi, che egli drammatizza facendone materia della parabola: “Non darti arie davanti al re e non metterti al posto dei grandi, perché è meglio che ti dicano “Sali qui”, piuttosto che essere umiliato davanti al principe”.

Alla radice di questo comportamento sociale vi è la tendenza ad autogiustificarsi, ad accampare diritti davanti a Dio. Ma lo stile di Dio, il suo criterio di valutazione è completamente opposto. La sentenza finale non è un’applicazione moralistica di una regola di galateo, ma la chiave rivelatrice del significato di tutto il brano. Infatti, Gesù non intende illustrare parabolicamente una semplice regola di buona educazione o di modestia, e tanto meno suggerire una tecnica raffinata per essere poi invitati a salire più in alto. La parabola parla del regno di Dio. Non è più questione di fare bella o brutta figura in un banchetto, ma di un abbassamento o innalzamento che tocca il destino ultimo dell’uomo.

Ecco perché la ricerca dei primi posti è oggetto di dura critica nel Vangelo di Luca anche in 20,46: “Guardatevi dagli scribi che ambiscono incedere con vesti preziose e amano i saluti nelle piazze, i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti”.

E l’affermazione che termina la parabola, “chiunque s’innalza sarà abbassato, e chi si abbassa sarà innalzato”, è ripresa in 18,14 (parabola del fariseo e del pubblicano) e infine commentata in 16,15: “Voi siete coloro che vogliono passare per giusti davanti agli uomini, ma Dio conosce i vostri cuori, perché ciò che è eccelso agli occhi degli uomini è abominio davanti a Dio”.

Come i commensali osservati da Gesù, spesso anche noi cristiani pensiamo che è il posto che fa l’uomo. Il Maestro ci invita a ridimensionare un po’ questa corsa alla sistemazione, nel pieno rispetto del fratello.

Letta alla luce di quanto sopra, si capisce che l’insegnamento intende colpire non una vanità di superficie che farebbe soltanto sorridere, ma una presunzione di fondo, tale da snaturare il rapporto con Dio e, al tempo stesso, il rapporto con la comunità. E’ la solita pretesa di ritenersi giusti, meritevoli più degli altri: un atteggiamento, questo, che inevitabilmente genera arroganza e differenziazioni.

Tuttavia, cari fratelli e sorelle, se la parabola dicesse soltanto questo, si situerebbe in complessivamente sul versante dell’uomo, illustrando come esso debba porsi di fronte a Dio e agli altri, senza raggiungere il fondamento.

Gesù colpisce con tanta forza la vanità di chi vuole primeggiare, perché sa che Dio non si comporta in quel modo. Un punto fermo del vangelo è che Dio si manifesta attraverso il “farsi servo”, non il “farsi primo”. Qui va cercato il fondamento che sorregge la parabola e la rischiara, trasformandola da norma sapienziale in “lieta notizia”.

Ma l’insegnamento non ancora finito, Gesù ci sorprende ancora. In 14,13-14, egli ha una parola anche per il padrone di casa. Le relazioni sociali tra gruppi e classi sono espresse e rinsaldate mediante festini, conviti, ricevimenti. Così Gesù al padrone di casa non propone semplicemente una nuova regola, stravagante ed estrosa. Un festino per i poveri, i disgraziati e gli esclusi dai ranghi sociali si può anche fare ogni tanto, soprattutto se esso dà lustro e fama di beneficenza. Al contrario Gesù suggerisce un criterio alternativo per le relazioni sociali nella loro globalità. In altre parole vuole che le nostre scelte siano motivate non più dal criterio delle caste, della mafia e del clan socio-economico o culturale, ma da un criterio di decentramento reale. La scelta dei poveri non può essere fatta in conformità ad un tatticismo astuto o di un’amabile demagogia. Scegliere i poveri, quelli che non contano, vuol dire sposare in pieno la loro causa.

“Se amate solo coloro che vi amano, qual è il vostro merito? Anche i peccatori amano coloro che li amano. E se fate del bene a coloro che vi fanno del bene, qual è il vostro merito? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se prestate a coloro dai quali sperate ricevere, qual è il vostro merito?” (6,32-34).

La causa dei poveri è il consiglio di Gesù, e tutto risulta ovvio per chi accetta la nuova immagine di Dio Padre che egli annuncia, ma contrasta nettamente con i costumi più consolidati, sia sociali sia religiosi. Soprattutto religiosi; se ne deduce che in questione non è soltanto la generosità, ma anche un modo diverso di pensare Dio; scontro teologico, non semplicemente morale.

Nel vangelo di Luca, egli enumera, quali invitati, categorie d’uomini socialmente emarginati e religiosamente “impuri”: poveri, storpi, zoppi, ciechi.

Per finire, il modello da seguire, come sempre, è Gesù stesso e, prima ancora, l’amore di Dio da lui testimoniato. Di fronte a Dio nessuno è emarginato, ma ciascuno è prossimo. Il criterio a cui riferirci per stabilire chi invitare al banchetto è l’amore di Dio, non più la vecchia giustizia terrena. La comunità cristiana deve rappresentare un luogo per tutti gli esclusi.

Lc.14, 15-24; Mt. 22, 1-14.

Nel suo sfondo storico-letterario la parabola annuncia nell’invito al banchetto il compiersi del regno messianico, mentre nel rifiuto degli invitati riassume l’atteggiamento d’Israele nei confronti di Gesù, qui presentato come figlio del re. Sotto l’aspetto teologico risalta la volontà salvifica universale di Dio: egli chiama tutti, buoni e cattivi, a far parte della sua Chiesa. L’attualizzazione ecclesiastica verte sull’impegno cristiano: quando si è parte del regno, bisogna vivere con dignità la propria appartenenza alla Chiesa.

Un re prepara un pranzo fastoso al banchetto di nozze del figlio. Le immagini sono bibliche e conosciute: le nozze e il banchetto sono metafore del regno di Dio, quel regno che i profeti hanno annunciato e che ogni pio israelita attendeva con impazienza.

Il re invita le persone di riguardo, ma riceve un netto rifiuto; tuttavia, con insistenza, li invita nuovamente. Gli invitati rifiutano ancora. Questa è la prima sorpresa. Rifiutano senza motivo, per molti l’invito al banchetto del re non è importante: non se ne curano affatto e hanno altro da fare. Per altri è addirittura irritante: insultano i servi del re e li uccidono.

Primo punto: chi sono questi cittadini che rifiutano?

Allora il re, mostrandosi severo, estende l’invito a persone di nessun conto, e questo è il secondo punto inatteso.

I servi sono inviati con l’ordine di invitare tutti quelli che incontrano, buoni e cattivi. I nuovi chiamati non sono scelti in conformità a nessun preciso criterio. L’importante è che la sala del banchetto sia piena. Così avviene, e il re raggiunge il suo scopo.

A questo punto la narrazione potrebbe anche concludersi, sennonché continua con un altro colpo di scena: il re fa il suo ingresso nella sala e scorge un uomo senza la veste nuziale: lo rimprovera, lo condanna, e viene cacciato.

Con questo sorprendente finale il racconto fa registrare un altro fallimento. Non solo i primi invitati rifiutano, venendo quindi giudicati e puniti, ma anche sui secondi incombe il giudizio; pure per loro esiste la possibilità di irritare il re e di essere condannati.

Ad un’attenta analisi, possiamo ripercorrere la narrazione da una prospettiva diversa dai fatti, quella dei personaggi e delle loro azioni.

Tutta l’impalcatura ruota attorno ad alcune immagini centrali: il re, il banchetto, le nozze, l’invito. Però la figura dominante è il re. Tutte le azioni sono riferite a lui, le altre sono soltanto esecuzioni di un suo ordine o risposta ad una sua iniziativa. L’esame dei verbi porta alla medesima conclusione. Quelli che si riferiscono al re esprimono iniziativa, nei confronti dei servi (dire, mandare) sia degli invitati (venire, chiamare). Al contrario i verbi che si riferiscono ai servi esprimono tutti esecuzione (andare, uscire, radunare). Dunque il protagonista è il re; perciò tutta l’attenzione deve rivolgersi su di lui e la sua azione, che si armonizza in tre fasi: il re prende un’iniziativa, subisce un insuccesso, supera il fallimento. Il superamento dell’insuccesso, avviene attraverso una sostituzione (ai primi invitati ne subentrano altri), che però è accompagnata, a sua volta, da una selezione ( anche gli ultimi invitati, che pure hanno accolto l’invito, sono sottoposti a giudizio).

A questo punto il motivo centrale della parabola può ritenersi chiarito, ma solo formalmente. L’intera narrazione si regge su una opposizione: gli invitati che rifiutano, gli invitati che accettano. Chi sono? Quale situazione storica sta dietro le loro figure?

Non dimentichiamo che di fronte alla predicazione di Gesù gli israeliti si erano divisi nettamente in opposti schieramenti. I rigidi osservanti della legge, in altre parole i farisei e i capi spirituali del popolo, non cedettero al suo annuncio del regno e ne respinsero l’appello a cambiare vita. Invece buona accoglienza gli riservarono gli esclusi: gli scomunicati, i poveri, gli sciancati, le donne di strada, gli esattori delle tasse, i pubblicani, e il popolino disprezzato perché ignorante della legge.

La parabola sulle labbra di Gesù descriveva proprio questo fatto sorprendente, sottolineando la responsabilità dei primi che si autoescludevano dal regno della salvezza, a differenza dei secondi che vi entravano per avere creduto. Il destino degli uomini si decide nella presa di posizione di fronte all’invito ultimo e perciò definitivo che Dio volge loro. La salvezza, raffigurata dai profeti in un festino, è indissolubilmente connessa con la missione del Figlio di Dio, con l’accoglienza della sua persona e del suo messaggio. Non la legge ma la fede in Gesù Cristo salva.

Anche nel tempo della predicazione apostolica la chiesa nascente provocò una netta separazione tra gli ascoltatori. C’era chi l’accoglieva con fede, facendosi battezzare ed entrando a far parte della comunità cristiana, tuttavia altri la respingevano con ostinazione. Questa volta la linea di demarcazione passava non all’interno del popolo giudaico, ma separava questo popolo, rimasto incredulo, dal mondo pagano che si faceva credente.

Com’era possibile che Israele, al quale dio aveva giurato promesse solenni, fosse escluso ora dalla chiesa nascente e dalla salvezza? Come notiamo, era in causa, nientemeno, la fedeltà divina. Su questo la fede cristiana s’interrogava, non senza accenti angosciosi, come ci testimoniava S.Paolo nella lettera ai Romani (9,1-5).

La parabola degli invitati, riletta nella nuova situazione, offre una risposta precisa. Gli Israeliti sono gli invitati d’obbligo in forza del privilegio storico di popolo legato con vincoli di sangue ai patriarchi, ai profeti e a Gesù Cristo stesso. A loro perciò è stato proclamato con precedenza l’annuncio evangelico. Ma essi, come i primi invitati, lo hanno respinto e colpevolmente si sono autoesclusi dal regno. Mentre i pagani, raffigurati dai secondi invitati, hanno risposto positivamente alla chiamata divina della predicazione apostolica, e sono entrati a far parte del nuovo popolo di Dio. In altre parole nel racconto parabolico la comunità cristiana primitiva, costituita prevalentemente da ex pagani, vide la propria vocazione cristiana frutto della grazia divina, ma anche la spiegazione dell’esclusione dei giudei, imputabili unicamente al loro rifiuto ostinato di credere. Dio, fratelli e sorelle, ne esce assolto; sul banco degli imputati resta invece inchiodato Israele. Come si può notare, alla parabola non manca una punta apologetica e polemica.

C’è un’altra considerazione da fare.

Non basta rispondere di sì nella fede alla vocazione cristiana, ma che al credente si richiede fedeltà di vita, una prassi nuova do obbedienza alla volontà divina rivelata dal Signore Gesù. A questo si riferisce il simbolo della veste nuziale. Altrimenti, nel giudizio ultimo, la sentenza di condanna e d’esclusione definitiva dal regno sarà pronunciata anche contro di costoro. Né più né meno come l’invitato a nozze privo del necessario abito da cerimonia e perciò gettato fuori della sala.

In conclusione, per quanto detto sopra, è che la parabola funge da spiegazione “teologica” di due dati storici che s’innestano l’uno nell’altro: il rifiuto di Gesù da parte delle autorità giudaiche, il rifiuto della missione cristiana da parte del popolo giudaico. Tuttavia la parabola non è solo questo. E’ anche un appello perché ci si renda conto che l’ora è decisiva: tutto è pronto. La parabola è pervasa da un’aria d’urgenza. Di fronte all’appello del vangelo non è permesso essere distratti, e non ci sono cose più importanti da fare.

Spiegazione di un fatto e invito alla decisione: la parabola è anche una proclamazione del giudizio di Dio. Che avverrà nel giudizio ultimo, quando si opererà la separazione definitiva degli uomini sulla base del criterio non dell’appartenenza alla Chiesa né di una sterile ortodossia, ma dell’ortoprassi illuminata dall’insegnamento di Gesù Cristo. In altre parole, l’essere entrati nella sala non esaurisce il compito, né è una garanzia. Occorre essere vigilanti, in atteggiamento di perenne obbedienza e d’ascolto della Parola.

Amen,alleluia,amen.