Del seminatore

Il fatto della vita

Gettare il seme sull’asfalto della strada, tutti sanno che non serve a niente: non ci sono le condizioni necessarie alla crescita. E, poi, la gente passa, lo calpesta, rovina il seme. Il seme non si getta dovunque.

Ai nostri giorni, si è soliti perfino preparare il terreno con il concime e con altre sostanze. Si fa tutto perché la terra produca il massimo e perché il seme possa sviluppare tutta la forza che nasconde. Un seme buono in una terra cattiva, genera solo fame e miseria. Ma un seme cattivo in una terra buona, dà il medesimo risultato. La benzina super in un motore rovinato, non serve a niente. La farina di prima qualità nelle mani di un fornaio incapace, non produce pane saporito.

Non basta piantare soltanto. Non basta avere buona volontà. Non basta dire: “Signore!Signore!”. Bisogna sapere e ponderare dove e come si usa lo sforzo che si fa. Altrimenti, si corre il rischio di perdere tutto. E,d’altra parte, non serve a niente un ottimo motore, se la benzina è una porcheria.

Tutto ciò, la natura ce lo insegna e la vita ce lo conferma. Gesù se ne è accorto e se ne è servito nelle sue parabole per chiarire il nostro impegno con Dio.

Nota: Nel lavoro che si fa per il Regno di Dio, il risultato è spesso nullo o molto scarso; a volte, invece, va oltre ogni aspettativa. C’è chi attribuisce tutto a Dio e chi attribuisce tutto agli uomini. Gesù ci viene in aiuto, per chiarire il problema. Ascoltiamo ciò che egli dice.

Dal Vangelo di Marco leggiamo la parabola in 4,2-9

Commento

Nella parabola Gesù è di fronte alla folla, nell’atteggiamento del Maestro che insegna stando seduto. La parabola del seminatore si apre (4,3) e si chiude (4,9) con l’imperativo dell’ascolto, perché ascoltare è insieme sentire e obbedire.

“Chi ha orecchi per ascoltare ascolti”, la frase allude a un ascolto attento, all’orecchio proteso per udire tutto distintamente senza perdere alcuna parola. E suggerisce l’importanza, ma anche la misteriosità di ciò che viene detto. Qui “orecchio” sta per intelligenza: ciò che viene detto è, infatti, qualcosa da decifrare, e richiede l’attenzione della mente e del cuore. Disposizione che però non tutti hanno, vale a dire che esiste l’eventualità di non capire. La parabola del seminatore è quindi importante, va decifrata, è oggetto di un discernimento: alcuni comprendono, altri no. Le parabole si illuminano per chi è disponibile, restano oscure per chi ha il cuore indurito.

La parabola racconta la storia di una semina: “ecco, uscì il seminatore a seminare. E nel seminare..”. Una sola semina, lo stesso seminatore, lo stesso seme, gli stessi gesti, la medesima fatica, e tuttavia gli esiti sono diversi.

Ad una lettura attenta balza all’occhio che non il seminatore né il terreno sono al centro della parabola, ma il seme. Il seminatore compare all’inizio, poi non se ne parla più. E a parte il suo gesto iniziale, di lui non si dice nulla, né una parola né una reazione: sulla sua fatica, le sue speranze, le sue delusioni, la sua gioia per il raccolto abbondante. L’attenzione deve perciò concentrarsi sul seme; non sulle sue qualità, di cui nulla viene detto, bensì sulla sua sorte.

Tuttavia, sarebbe fuorviante fermare l’attenzione esclusivamente sul seme. Infatti,, la figura del contadino svolge una funzione assolutamente necessaria nella narrazione. Dicendo “uscì il seminatore a seminare”, la parabola fa subito intendere che le quattro scene di cui si compone non costituiscono quattro storie diverse, ma una sola: quella, appunto, di un contadino che getta il seme nello stesso campo e nello stesso giorno. Fuori metafora: le quattro vicende del seme rappresentano gli esiti diversi dell’unica seminagione fatta da Gesù. La parabola racconta la storia del suo ministero. E’ una parabola cristologia, anche se poi le successive comunità dei discepoli vi leggeranno la propria storia.

Ma ritorniamo alla struttura della parabola. I primi tre quadri sono la storia di un ripetuto fallimento: caduto sulla strada o fra i sassi o fra le spine, il seme non frutta. Soltanto nell’ultimo quadro si legge che il seme, caduto sul terreno buono, porta molto frutto.

L’evidente insistenza sulla sfortuna del contadino conferma quanto abbiamo già intravisto: e cioè che la situazione in cui la parabola va collocata è quella di una fatica che pare troppo spesso inutile e di un insuccesso della Parola che sembra totale o quasi. Tuttavia, le cose non stanno così, dice la parabola. E’ vero che ci sono gli insuccessi, anche ripetuti, ma è certo, sempre certo, che una parte del seme frutta.

Dunque, fratelli e sorelle, questo è un invito alla fiducia. In questione non è precisamente la verità della Parola, bensì la sua efficacia. Ciò che fa problema non è la bontà del seme, ma la sua concreta capacità di portare frutto. Non raramente è più difficile aver fiducia nell’efficacia della Parola piuttosto che fede nella sua verità.

In un certo senso, possiamo paragonare la parabola del seminatore a una storia a lieto fine: dopo i ripetuti fallimenti, ecco il successo che ripaga della fatica.

Comunque dì fronte alla ripetuta constatazione che in molti terreni il seme non frutta, sarebbe logico chiedersi per quali ragioni questo accada. Domanda importante, alla quale il Vangelo risponde più avanti in 4,14-20.

Tuttavia, l’interesse prevalente della parabola è un altro, come dicevamo all’inizio.

Chiedersi perché i terreni non permettano al seme di fruttificare è questione importante, che però riguarda gli altri. La parabola mira piuttosto non alle ragioni dei molti fallimenti, ma all’atteggiamento di fiducia che l’annunciatore della Parola deve assumere quando li incontra. Sottolineando per tre volte l’insuccesso, Gesù mostra chiaramente la situazione storica ed esistenziale in cui la parabola va letta: una situazione nella quale il lettore cristiano non ha difficoltà a scorgere l’esperienza di Gesù e la propria.

Proprio per questo Gesù sposta l’attenzione dell’ascoltatore sull’abbondanza del raccolto: e lo fa con una serie di sottili contrapposizioni. Nei primi tre quadri la sorte del seme è descritta con “gli uccelli lo beccarono, il sole lo riarse, le spine lo soffocarono”. Invece, nel quarto i verbi sono all’imperfetto: “dava frutto, rendeva il trenta ecc”..In tal modo la parabola invita il lettore a concentrare l’attenzione sul seme che cresce e porta frutto. Non solo, la quantità di seme caduta in terreno cattivo è espressa al singolare: una parte, un’altra parte. Diversamente, per indicare la quantità di seme caduta in terreno buono, viene usato il plurale: altre parti.

Sì, è vero che per tre volte il seme va sprecato, ma è ugualmente vero che la quantità non sprecata è molto grande.

Me è soprattutto l’abbondanza del raccolto che sorprende. Il trenta, il sessanta, il cento per uno è una proporzione altissima.

Molto spesso si legge la parabola come se la fiducia richiesta al seminatore fosse innanzitutto rivolta al futuro. Se così fosse, il messaggio centrale della parabola sarebbe sostanzialmente ovvio. Al contrario, la fiducia richiesta riguarda il presente più che il futuro. Questo è forse il tratto più singolare dell’intera parabola. I ripetuti fallimenti e il successo non sono disposti su una linea temporale: ora è il tempo dell’insuccesso, ma il futuro riserva ampio raccolto; oggi si sperimenta il fallimento della propria fatica, domani invece se ne vedrà il frutto abbondante. La differenza come possiamo vedere, infatti, è fra terreno e terreno, non fra tempo e tempo. Vale a dire che nella stessa semina e nello stesso tempo fallimenti e successo sono la sorte del seme. Di fronte alla medesima Parola c’è contemporaneamente chi l’accoglie e chi la rifiuta.

L’importante per chi fa sua questa fiducia non pretenda che il seme cresca sempre e dovunque. Piuttosto, la certezza che da qualche parte, già ora, esso dia frutto, offre la possibilità di accorgersene, non soltanto la pazienza di attendere.

Comunque sia, non c’è ragione di scoraggiarsi, tanto meno di dubitare della presenza del Regno. La fiducia del contadino insegna a guardare al di là dei fallimenti, per accorgersi che la Parola del Regno è qui, fra smentite e successi, già ora efficace.

Vorrei rammentarvi a tale proposito una frase di Gesù in Giovanni 4,15: “Levate i vostri cuori e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura”.

Fin qui il racconto parabolico: ciò che succede all’azione del contadino succede all’azione di Dio. Ma perché mai la semina di Dio deve assomigliare a quella di un contadino?

Non stupisce lo spreco di un contadino palestinese (questo era proprio il modo di seminare degli antichi palestinesi), ma quello di Dio sì. Il contadino eviterebbe lo sperpero, se potesse. Dio non dovrebbe, proprio perché Dio, evitarlo? Così la domanda cruciale si ripropone, costringendoci a rileggere la parabola per accorgerci che essa non darebbe nessuna risposta, se non venisse collocata nell’evento di Gesù.

E’ qui che si chiarisce. Nessuna parabola può essere letta diversamente. Perché altro è l’azione di un contadino, altro quella di Dio. Ed è soltanto al storia di Gesù che permette di cogliere le ragioni della somiglianza. La storia di Gesù, gesti e parole, croce e risurrezione, è la parabola che illumina tutte le parabole. Le parabole svelano pienamente il loro senso solo dopo la Pasqua. Se la semina di Dio non è diversa da quella del contadino, è perché all’origine dell’agire di Dio c’è una sovrabbondanza di amore che sembra spreco e noncuranza, e che soltanto la croce di Gesù riesce a svelare nel vero senso: non sperpero o inefficace debolezza, bensì gratuità e luminosa rivelazione di chi è Dio.

A questo punto la figura del contadino muta fisionomia: i suoi gesti non sono più quelli semplici e abituali di un contadino della Palestina, ma i gesti rivelatori della generosità divina, tanto disinteressata e traboccante da rasentare l’incuria e lo spreco; ciò è tipico dell’amore che non calcola.

MARCO 4,13-20.

Dopo avere accuratamente analizzato la parabola del seminatore, se ne leggiamo la spiegazione, si ha subito l’impressione di trovarsi in un mondo diverso. Essa assume quasi i connotati di trasformazione allegorica, nella quale ciascun tratto ha il suo corrispondente: il seme è al Parola, i quattro terreni sono i differenti tipi di ascoltatori, gli uccelli sono l’immagine di Satana, il terreno sassoso è l’uomo facile all’entusiasmo e volubile, le spine le molte passioni che soffocano il cuore dell’uomo. Ma stranamente nulla si dice del seminatore, che in tal modo conserva la sua ricca ambiguità, al tempo stesso figura di Dio, di Gesù e degli evangelizzatori che ne continuano l’annuncio.

Colpisce ancora di più lo spostamento dell’attenzione, dal seme ai terreni; e non soltanto, come nella parabola, si constata che ci sono terreni buoni e cattivi, ma ci si premura indicarne le ragioni. A differenza della parabola che è essenzialmente una risposta a una domanda teologica, la spiegazione ha un’intenzione morale, invita all’impegno. E non è indirizzata ai missionari della Parola, ma ai molti ascoltatori che, dopo averla ascoltata, rischiano di mortificarla. Il problema se la Parola è efficace diventa il problema di come renderla efficace. L’attenzione si sposta dalla Parola alla sua accoglienza, da Dio all’uomo. L’incoraggiamento si trasforma in avvertimento.

Al primo tipo di ascoltatori appartengono gli uomini nei quali la parola seminata resta del tutto inerte, non riesce nemmeno a mettere le radici. La parola sparisce non lasciando traccia. Che esistano tali ascoltatori è un dato di fatto, ma individuare le ragioni di tale impermeabilità non è facile. E così il testo dice sbrigativamente che è Satana a portare via da loro la Parola, omettendo alcun tentativo di spiegazione psicologica. Si afferma però con chiarezza che la colpa non è della semina, significativamente menzionata due volte, ma del terreno.

Al secondo tipo appartengono gli ascoltatori entusiasti, che in fretta gioiscono e altrettanto in fretta si abbattono. Ciò che li caratterizza è l’avverbio “subito”, come nel primo tipo: là era usato per esprimere la superficialità dell’ascolto, qui per sottolineare la fragilità del carattere. L’analisi di questo genere di credenti (si tratta infatti di credenti, perché non solo ascoltano la Parola, ma l’accolgono gioiosamente) è molto precisa. Sono uomini che comprendono e si entusiasmano, ma sono privi della solidità necessaria per perseverare. Al sopraggiungere della tribolazione e della persecuzione, la loro fede subito vacilla. La parabola allude alla fede, non soltanto alla coerenza morale: tale è, infatti, il senso biblico del verbo scandalizzarsi. Tribolazione è un termine che può significare qualsiasi afflizione. Ma qui si precisa che si tratta di un’afflizione a motivo della Parola: certo si allude alle persecuzioni.

Il terzo tipo di ascoltatori è delineato con tratti marcati. Ciò che qualifica questo credenti non è la fragilità del carattere, l’entusiasmo e lo scoraggiamento facile, ma l’eccesso di interessi. Nel loro animo e nella loro vita la Parola soffoca (l’immagine è molto espressiva) perché è priva di spazio e manca di aria. Gli interessi eccessivi, o le passioni smodate, si insinuano in questi uomini con nascosta prepotenza, sconvolgendoli alla radice.

Il verbo “entrare dentro” suggerisce con grande efficacia che queste passioni modificano l’essere dell’uomo, non solo il suo agire. Il cuore distratto e appesantito diventa del tutto incapace di avvertire ciò che vale. Non soltanto non accoglie la Parola, ma ne perde il gusto. E a soffocare la Parola non sono le passioni eccezionali, ma quelle comuni, quotidiane: le preoccupazioni per gli affari, l’attrattiva del denaro, le smodate ambizioni di ogni genere. Naturalmente questo rilievo non va letto in un quadro di rifiuto delle cose materiali perché indegne, degli impegni nel mondo perché terrestri, della ricchezza perché vanità, ma nella prospettiva evangelica della libertà e del Regno. L’insistenza particolare nel descrivere le ragioni dell’infruttuosità della Parola presso gli ascoltatori del secondo e del terzo tipo lascia intravedere che questi erano, di fatto, i veri motivi per cui molti venivano meno di fronte alle esigenze della Parola. Un panorama quanto mai abituale al giorno d’oggi.

Del quarto tipo di ascoltatori si dice semplicemente che sono il terreno buono. Perché lo sono non è detto. Le qualità che fanno di costoro il terreno ideale per la Parola non interessano. Si descrive invece che cosa fanno: ascoltano, accolgono e portano frutti. Il percorso, cari fratelli e sorelle, è completo.

Amen,alleluia,amen.