Il Giorno del Signore: la Santa Messa – 1

Dire Domenica significa pronunciare “Giorno del Signore” (dies Domini). Chiunque non sia proprio estraneo alla pratica religiosa, sovviene facilmente l’esclamazione gioiosa della Liturgia di Pasqua: “Questo è il giorno fatto dal Signore”. In realtà c’è un’unione profonda tra la Pasqua e la domenica. La Domenica è, infatti, la “Pasqua settimanale” secondo la meravigliosa definizione che risale ai primi secoli, molto amata dai Padri della Chiesa e fortemente professata specialmente nelle Chiese d’Oriente.

Per sant’Agostino la Domenica è “sacramento della Pasqua”.
Comunemente si afferma che arriva la Domenica e finalmente la settimana è finita. Invece la Domenica, leggiamo nei Vangeli, è il primo giorno dopo il sabato ebraico. Il giorno appunto della resurrezione di Gesù, che apre la nuova storia.

Quindi la Domenica è il “primo giorno” della settimana, essendo il memoriale della resurrezione ed apre il nuovo ciclo degli altri giorni. Questa è una verità quasi del tutto dimenticata. Si pensa alla Domenica e si augura buon fine settimana, secondo una formula derivata dal mondo anglosassone. E’ uno dei sintomi della decadenza del concetto di Domenica nella società post-moderna. Probabilmente non è il più grave. Mostra ad ogni modo la necessità di una nuova cultura del “dies Domini”, per la quale è bene iniziare dalla chiarezza del linguaggio, poiché la cultura non riguarda soltanto le singole coscienze, ma la società tutta.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica tratta quest’argomento dal nr. 2168 al 2195 e lo imposta sulla Bibbia. Cita due versetti, uno dell’Antico e l’altro del Nuovo Testamento. Il primo è tratto dal Libro dell’Esodo:
“Ricordati del giorno del sabato per santificarlo: sei giorni faticherai e farai ogni tuo lavoro: ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: non farai alcun lavoro” (Es. 20,8-10). Il secondo è tratto dal Vangelo di Marco:
“Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato! Perciò il Figlio dell’Uomo è Signore anche del sabato” (Mc.2,27-28).

L’accostamento dei due testi è letterariamente splendido ed è utile per risalire alle radici bibliche ebraiche e cristiane. Ma soprattutto ha il merito di mettere sulla strada per comprendere il significato e il contenuto ( dal punto di vista di Dio e di Cristo, quindi teologico e cristologico) del terzo comandamento: “Ricordati di santificare le feste”.

Ho detto accostamento. In realtà i due testi non sono soltanto accostati. “Sono coordinati intimamente l’un l’altro”. Se osserviamo con un po’ d’attenzione il loro contenuto (ciò che Dio dapprima comanda e ciò che Gesù riprende e spiega) notiamo subito due cose unite e inseparabili:
1. Una certa continuità e una certa novità del terzo comandamento nella storia della salvezza;
2. Uno sviluppo graduale e unitario nel passaggio dall’alleanza antica alla nuova.

La storia della salvezza è una sola. Il giorno di Sabato, giustamente tanto caro ad Israele, rivela la sua pienezza nell’essere in qualche modo una prefigurazione e un’anticipazione del “Giorno del Signore”. Vale a dire, un compimento e un superamento. E’ sempre nello stile di Dio ( e sua preoccupazione educativa) rivelare un poco alla volta il proprio mistero. E la pienezza della sua rivelazione si ha nella persona di Cristo, anche quindi riguardo al precetto della santificazione della festa. L’affermazione di Gesù – “Il Sabato è stato fatto per l’uomo” – fa capire l’intento profondo di Dio nel chiedere di non fare alcun lavoro nel giorno di Sabato: “In onore del Signore tuo Dio”.

Logicamente, anche questo, come ogni precetto, va visto non settorialmente, ma nell’animazione unificante del Decalogo. E’ “Una delle dieci parole”, le quali costituiscono un intreccio unico, che codifica l’alleanza di Dio col suo popolo.

“Dieci Parole” è, nell’A.T., l’altro nome del Decalogo. Non per nulla l’intestazione che campeggia in testa ai Dieci Comandamenti è “Io sono il Signore tuo Dio”. Si tratta della presentazione che Dio fa di se stesso giacché autore della Legge. Si direbbe nel nostro linguaggio che mostra i “titoli” che gli danno diritto ad un tale intervento; e sono i titoli che risalgono all’amore di predilezione dimostrato al suo popolo con la liberazione dalla schiavitù egiziana. Nell’Esodo e nel Deuteronomio, leggiamo:

“Io sono il Signore tuo Dio
che ti ho fatto uscire
dal paese d’Egitto,
dalla condizione di schiavitù” (Es.20,2; Dt.5,6)

Dunque il Liberatore. Perciò egli chiede di essere riconosciuto come tale e rivendica per sé un culto unico, con esclusione assoluta di altri dei. Un Dio “geloso”, che punisce le colpe dei padri sui figli fino alla terza e quarta generazione per coloro che lo odiano:

“Ma che dimostra il suo favore
fino a mille generazioni, per coloro
che mi amano e osservano i miei comandamenti” (Es.20,6)

Sono espressioni che fanno riflettere seriamente sulla potenza di Dio, notando che essa si coagula tanto nella giustizia quanto più nella comprensione. La chiave di lettura di questa severa dichiarazione la offriva già il salmo 118 – “elogio della legge divina” – considerato, dice la Bibbia di Gerusalemme, “uno dei monumenti più caratteristici della pietà israelita alla rivelazione divina”. Tutta quanta la Legge, quindi anche le “dieci parole”, è un tesoro che contiene enormi ricchezze e le versa sulle mani libere dell’uomo. Il pio israelita ha dunque ragione di pregare, e noi con lui:

“Aprimi gli occhi perché io veda
le meraviglie della tua Legge.
Io sono straniero sulla terra,
non nascondermi i tuoi comandi.
Io mi consumo nel desiderio
Dei tuoi precetti in ogni tempo”
(Salmo 118,18-20)

Nella religiosità d’Israele era chiaro che il Decalogo costituiva il grande dono fatto da Dio all’interno dell’alleanza contratta con il suo popolo. E’ bello e istruttivo anche per noi oggi rileggere i capitoli 19-34 dell’Esodo (vedi esodo meditato, sezione lettura), in cui l’alleanza, ossia il patto scaturito dall’iniziativa di Dio, è descritto accuratamente nelle sue due fasi: la proposta e la stipulazione. In mezzo, tra l’una e l’altra, sta la narrazione della rivelazione delle “Dieci parole”. Si tratta della più gran teofonia (manifestazione), sul monte Sinai. Notiamo che il patto termina dopo che il popolo si è espressamente impegnato: “Quanto il Signore ha ordinato, noi lo faremo e lo eseguiremo” (Es.24,7).

All’interno di questo patto e nella ragione di questa alleanza che il Decalogo assume il suo più pieno significato. Il rivelarsi di Dio, il suo dialogare con il popolo eletto, sono espressioni dell’amore originario, direi fontale, di questa come delle altre sue innumerevoli iniziative.

“Io sono il Signore Dio tuo” è il principio di tutto, che tutto deve animare. I singoli Comandamenti vengono in secondo luogo. E dicono in modo concreto che cosa implica l’appartenenza a Dio attraverso quell’alleanza nata dalla sua bontà. Essi tracciano le vie da percorrere come risposta all’amore di Dio. Sull’onda di questa verità, non sorprende che il catechismo, nel trattare il Decalogo in generale, parte non dall’A.T., ma dal Vangelo, e precisamente dall’incontro di Gesù con il giovane ricco. E un’altra curiosità risulta evidente: quel giovane di duemila anni fa passerebbe per un post-moderno, dei nostri.

Educato: chiama Gesù Maestro e Maestro buono. Ma Gesù lo corregge: Solo Dio è buono.
Efficientista: interroga il maestro sul fare. E anche qui Gesù rettifica: lo dirotta sull’essere: se vuoi essere perfetto…Gli addita l’osservanza dei Comandamenti e gliene elenca la serie che riguarda l’amore al prossimo, con l’aggiunta dei consigli di povertà e castità.
Il ragazzo gli volta le spalle. Scompare dal mondo evangelico, perché era molto ricco. Post-moderno anche in questo.

In questo modo il Catechismo dà una risposta preliminare alla questione: i dieci Comandamenti sono stati donati nell’A.T.: che cosa c’entrano col Nuovo? La risposta è stata data espressamente da Gesù.con parole e opere. Egli ha fatto propri i Comandamenti, non li ha eliminati. Ha manifestato la forza dello Spirito che li anima. Non ha abolito, ha perfezionato. Ha portato a compimento l’antica legge, facendola confluire nella sua persona divina.

“Se mi amate, osservate i miei comandamenti.. Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama” (Gv.14,15.21).
Quando gli è stato chiesto qual è il più grande Comandamento della Legge, ha risposto:
“Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei Comandamenti” (Mt. 22,37).
Tuttavia Gesù è andato oltre nella risposta:
“E il secondo è simile al primo: amerai il prossimo tuo come te stesso” (Mt.22,39).
Di più. Ha aggiunto un’affermazione che può considerarsi coordinata con la chiave di lettura del pio israelita in preghiera col Salmo appena citato:
“Da questi due Comandamenti dipende tutta la Legge e i Profeti” (Mt.22,40).

Le “Dieci Parole” sono parte integrante dell’intero patrimonio rivelato, tutto frutto dell’iniziativa amorevole di Dio, che in Cristo ha raggiunto l’espressione massima, umanamente inconcepibile fino alla donazione di se stesso in forma perenne nel pane eucaristico. Il Decalogo deve essere interpretato alla luce dell’unico e duplice comandamento della carità annunciato e spiegato da Gesù nella Nuova alleanza. Quelle parole che Dio ha deposto nel cuore dell’uomo, non sono un’imposizione forzata dall’esterno. Le ha scolpite sulla pietra quando gli uomini non le leggevano più nei loro cuori.

Anche il comando della santificazione del “Giorno del Signore” è un ramo di questo tronco. Rivela l’amore. Richiama amore. Con un timbro particolarmente esigente: RICORDATI!

Ritorniamo ancora alle parole di Gesù:
“Il Sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato. Perciò il Figlio dell’uomo è padrone anche del Sabato” (Mc.2,27-28).
Viene spontaneo chiedersi: di quale uomo si tratta? Riflettendo che siamo ormai nell’Alleanza Nuova e che questa è strettamente unita all’Antica con la quale costituisce una cosa sola, appare che l’uomo di cui parla Gesù è l’uomo creato da Dio, l’uomo redento sempre secondo il piano di Dio, l’uomo che in Cristo diventa “creatura nuova”. Ed è di capitale importanza la dichiarazione di Gesù: “Sono padrone del Sabato, ho autorità sul Sabato”.

E’ su questa linea di pensiero che si può approfondire e recuperare il significato della Domenica, quindi la verità totale del Giorno del Signore, sul piano delle motivazioni sia dottrinali, sia morali. Ho già detto di una certa continuità e novità e di uno sviluppo graduale e unitario che contrassegnano, come tutta la storia della salvezza, il rapporto tra la versione antica e quella nuova del terzo comandamento: dal Sabato ebraico alla Domenica cristiana.

Resta chiaro e pacifico che la Domenica non è la continuazione del sabato. Ha un’identità propria. Il Sabato è una sua prefigurazione e anticipazione per alcuni aspetti, iniziando dalla sua origine divina. La formulazione letterale del terzo Comandamento tanto nell’Esodo quanto nel Deuteronomio, è particolarmente minuziosa.

“Ricordati del giorno del Sabato per santificarlo” (Es.20,8).
La parola Sabato significa in radice: riposare, finire il lavoro. E’ bene rammentare il racconto della creazione nel Libro della Genesi, in cui leggiamo: “Allora Dio, nel settimo giorno, portò a termine il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro. Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che egli creando aveva fatto” (Gn.2,2-3).
Se non si tiene presente questa divina benedizione-consacrazione originale, non si può cogliere il senso delle minuziose prescrizioni sul riposo ebraico.

“Tu non farai alcun lavoro,
né tu, né tuo figlio, né tua figlia,
né il tuo schiavo, né la tua schiava,
né il tuo bestiame, né il tuo forestiero
che dimora presso di te.
Perché in sei giorni il Signore
Ha fatto cielo e terra…
Ma si è riposato il giorno settimo”.
(Es.20,8-11)

Dunque: giorno sacro e riposo sacro. Alla motivazione religiosa se ne aggiungeva una umanitaria: far riposare gli schiavi, i forestieri, gli animali. Tuttavia l’osservanza del sabato ha finito per assumere un’intonazione “legalista”, schiava in pratica della lettera della Legge, distaccata dallo spirito che l’animava. Maestri in questo sono stati gli scribi e i farisei, con i quali Gesù ha intrattenuto le polemiche più aspre. A tale schiavitù legalista Gesù reagisce, e certe volte lo fa con molta energia, evidenziando le contraddizioni dei farisei.

A proposito del giorno del Sabato, non esita a sfidarli. Come nel racconto, cui fa riferimento il Vangelo, dei discepoli che attraversando con lui i campi di grano, iniziano a strappare alcune spighe. Apriti cielo! Un lavoro che infrange il riposo. Come se fosse mietitura. I farisei ne sono scandalizzati. E il maestro richiama il fatto di Davide che mangiò e fece mangiare ai suoi i pani riservati ai sacerdoti per placare la fame. In un altro momento Gesù guarisce di Sabato, nella sinagoga, un uomo che aveva una mano inaridita, suscitando apertamente l’ostilità dei farisei, i quali, dopo l’avvenuto segno miracoloso, tennero consiglio per ucciderlo. Il fatto è che li aveva colti di sorpresa. Di fronte a quell’infelice interpellò proprio loro in termini ironici e provocatori: “E’ lecito in giorno di sabato fare il bene o il male, salvare una vita o toglierla?” (Mc.3,4).

Nessuna risposta, evidentemente, da parte dei farisei. E Gesù, nell’atto di compiere il segno risanatore, li guarda “con indignazione”, ed è “rattristato per la durezza dei loro cuori”. E’ importante osservare questo atteggiamento del Signore. Indignazione per la fredda aridità di una casistica, che va contro la verità della legge. Tristezza per la durezza di cuore che sacrifica ciò che di meglio è nell’uomo. Così è più facile comprendere la sentenza di Gesù, secondo cui il Sabato è stato fatto per l’uomo e non viceversa. E’ il suo dichiararsi “Signore del Sabato”.

Mi sono dilungato un po’ sul senso del Sabato. Perché? Non è difficile dirlo e capirlo. La teologia biblica del Sabato ci fa risalire agli eventi misteriosi della creazione. A Dio che, nel suo amore preveniente, ha tratto il mondo dal nulla. Ora Dio alla conclusione della sua opera creatrice, la sigilla santificando il settimo giorno. E il settimo giorno, mentre chiude l’intera impresa creatrice, è strettamente legato al sesto, che è il giorno in cui Dio crea l’uomo “a sua immagine e somiglianza”. (vedi primi capitoli della Genesi meditata, sezione lettura).

La relazione immediata tra “giorno di Dio” e “giorno dell’uomo” era presente ai Padri della Chiesa nelle loro meditazioni sul racconto biblico della creazione. Cito Sant’Ambrogio, il quale commenta così il riposo di Dio: “Fece il cielo, ma non leggo che ivi abbia riposato; fece le stelle, la luna, il sole e neppure qui leggo che abbia riposato. Leggo invece che fece l’uomo e che allora si riposò, avendo in lui uno al quale poteva perdonare i peccati”.

Il Sabato dunque è stato fatto per l’uomo non come un’imposizione onerosa, ma come una sosta delle sue ordinarie occupazioni per onorare il riposo di Dio ed alimentare la sua relazione di dipendenza dal Creatore. Per l’uomo pre-cristiano, dunque, si tratta di uno degli aspetti del patto concluso e del dinamismo dell’alleanza, e come consapevolezza del dono della liberazione dalla schiavitù. Per l’uomo dell’alleanza nuova, per il seguace di Cristo. Sono cadute evidentemente le modalità legate alle antiche condizioni di vita, superate ormai dal compimento e dallo sviluppo. Sono rimasti i motivi essenziali, correlati con i fondamenti delle “Dieci Parole”, da valutare nello spirito nuovo portato da Cristo “Signore del Sabato”.

Per l’uomo di tutti i tempi, anche del nostro. Particolarmente per l’uomo d’oggi, poiché la transizione secolare e millenaria che attraversa il quadrante della nostra storia, più direttamente provoca a ripensare il senso del tempo. Questa transizione, inoltre, si dibatte in una crisi molteplice: di civiltà, di cultura, e di religione. Per cui è quanto mai necessario risalire alle radici della verità, alle motivazioni primarie.

Lo spirito non semplicemente la lettera del precetto ridotto in forma catechistica dalla Chiesa: “Ricordati di santificare le feste”, consente di riscoprire la verità della Domenica e di accoglierla come tale. Non vi possono essere altre premesse per trovare i modi conciliabili con le attuali condizioni di vita – naturalmente quelle rispondenti ai canoni dell’onestà – e ridare alla Domenica il posto che le spetta, nell’economia della propria esistenza.

A noi uomini del terzo millennio, il catechismo offre una delle testimonianze più antiche della tradizione cristiana, quella di san Giustino: “Ci raduniamo tutti insieme nel giorno del sole, poiché questo è il primo giorno nel quale Dio, trasformate le tenebre e la materia, creò il mondo; sempre in questo giorno Gesù Cristo, il nostro salvatore, risuscitò dai morti”.

Per ripendere coscienza del valore della Domenica bisogna puntare l’obiettivo sulle motivazioni dottrinali. Il senso del dovere scaturisce da qui. Un puro e freddo “tu devi” è destinato a restare un precetto morale privo di contenuto e disatteso senza rimorso, come in genere gli imperativi categorici che vengono fatti cadere sulle sabbie del deserto.

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