La solitudine

Se una volta la solitudine era un lusso di poche persone privilegiate: artisti, santi, poeti, intellettuali ecc., oggi, per l’uomo della civiltà industriale, la solitudine è diventata sinonimo di malattia sociale. Molti dicono che sia il più grosso flagello del mondo moderno. Mai l’uomo si è sentito così vicino fisicamente agli altri e così distaccato, così solo, anonimo. O per lo meno l’uomo mai come nella nostra epoca ha preso coscienza della propria solitudine come incapacità di comunicare con gli altri. Lavoriamo insieme, viviamo insieme, viaggiamo insieme, preghiamo e pecchiamo insieme, ma non “si è” insieme. Siamo diventati folla anonima. Sempre meno l’uomo è qualcuno, siamo diventati numero, scheda. Anche nel momento tragico delle malattie e della morte. Forse la sensazione di sentirsi insieme senza “essere” insieme è la più terribile solitudine. Una solitudine che addirittura ci spinge, paradossalmente, a desiderare e amare la solitudine, cioè la solitudine anche fisica.

Questa solitudine del collettivo, che l’uomo ha sperimentato in momenti drammatici quali i campi di concentramento, le guerre, le carceri, gli ospedali, oggi è diventata realtà quasi in ogni circostanza della vita moderna. Questo tormento l’uomo lo avverte continuamente, anche in famiglia. Appartamenti piccoli costruiti non a misura d’uomo ma della speculazione edilizia ci costringono a vivere senza uno spazio di intimità personale. E’ sintomatico che per tanti esseri umani di città l’unico spazio personale sia il bagno, che convertono in sala di lettura. Mi piacerebbe poter fare un’inchiesta sul numero di persone che oggi leggono il giornale nel bagno, sarebbe molto eloquente al riguardo l’esito.

Viviamo in bilico su questo paradosso: siamo malati di solitudine e nello stesso tempo soffriamo perché non troviamo né il tempo né lo spazio per restare soli. Si tratta, come possiamo ben osservare, di una condanna tremenda. E a questo punto mi sorge spontanea una domanda: ma non sarà che noi stessi siamo un paradosso?
“Amiamo la compagnia, anche se questa è rappresentata soltanto da una candela accesa”. Quante persone parlano ad alta voce per sentirsi in compagnia di se stessi, o tengono accesa la radio o la televisione, anche se non l’ascoltano o non la guardano?.

Il fatto è che come esseri umani, non siamo ancora perfettamente realizzati, siamo pellegrini in una terra che ci è stata data in eredità ma che sentiamo ostile. Ma allora l’esigenza di comunicabilità e d’incontro camminano insieme con l’esigenza di solitudine? L’essere insieme ci risveglia la nostalgia della solitudine e la solitudine ci acutizza il desiderio dell’incontro? Mi viene da dire che forse è vero che amiamo ciò che ancora non abbiamo.

Non pretendo di avere detto qualcosa di definitivo sul mistero uomo, anzi. Tuttavia camminiamo a tentoni nella ricerca dell’uomo (solo Dio, in Cristo Gesù e la fede in Lui, ci dà risposte esaurienti).
Le contraddizioni che troviamo oggi nell’uomo possono essere indice della nostra limitatezza ma anche segno della nostra infinità. Non riusciamo a capire il cuore dell’uomo perché è un essere paradossale, capriccioso, instabile, contraddittorio, o perché è troppo grande per la nostra unità di misura che non riesce a operare se non nella strettezza del tempo?

Comunque sia, ciò che non possiamo risparmiarci è la fatica della ricerca perché appartiene alla natura dell’uomo volersi capire, rispondere ai propri interrogativi, chiedersi chi è e come è fatto. Non è quindi inutile se ci chiediamo che cos’è questo mistero della solitudine umana, oggetto di odio e di amore nello stesso tempo per l’uomo della nostra generazione.

E’ umana la solitudine?
E ‘ difficile per ognuno di noi nelle circostanze normali della vita desiderare la solitudine come un bene o un valore in se stesso. Quando la cerchiamo di solito è per contrasto con una solitudine più amara ancora: la solitudine di vivere con gli altri senza essere con loro. Per quelli che si amano, la solitudine, ad esempio è un dolore, una fatica, tanto più grave quanto più forte è il loro amore.
Oppure cerchiamo la solitudine non come un fine ma come un mezzo per raggiungere qualcosa. Allora più che la ricerca della solitudine è ricerca di uno spazio e di un tempo di isolamento. Infatti per la riflessione, per certi momenti di creatività la solitudine può essere efficace.

Se riandiamo col pensiero alla storia dell’umanità, ci rendiamo conto che le grandi decisioni dell’uomo sono state prese in solitudine. Anche Gesù, prima di dare inizio alla sua vita pubblica e per prepararsi al dolore supremo della morte, si ritirò in solitudine, come narrano gli Evangelisti. Ma forse più che di solitudine, ciò di cui abbiamo necessità in certi momenti decisivi della nostra esistenza e della nostra creatività è il silenzio esteriore e interiore.

Però anche questo non è una regola generale. Non scordiamo mai che l’uomo è stato veramente creato da Dio per vivere in comunione con gli altri e non da solo. Ecco l’amore. Se l’amore è la cosa più ambita da noi, è perché scopriamo che è la fonte principale della felicità, allora è certo che dobbiamo vivere, per essere felici, in una tensione di comunione, di abbraccio, di incontro. Possiamo amare il nostro corpo o il nostro spirito solo se fossimo certi che potranno divenire dono per l’altro. Abbiamo una tale esigenza dell’altro che se ci trovassimo senza nessuno finiremmo col parlare col nostro specchio.

Nella Bibbia, in Genesi, Dio dichiara solennemente, nel momento in cui crea la donna, che la solitudine è un male: ” Non è bene che l’uomo sia solo” (Gn.2,8). Siamo stati creati ” a immagine e somiglianza di Dio”, ma non scordiamolo mai che Dio non è solitario, è Trinità, cioè compagnia, comunità, dialogo. Convivenza eterna, infinita, amore. Dio non è neanche nel silenzio, perché è diventato Parola, corpo, realtà umana, presenza fisica nel tempo in Cristo Gesù.

Quindi la tensione nostra è l’incontro con gli altri, non la solitudine. Perciò non saremo lacerati dalla presenza degli altri, ma dalla presenza della solitudine, alienazione e non dialogo e comunione. Durante il corso della mia vita, la felicità l’ ho vista sempre negli occhi di coloro che riescono ad amare. Se alcuni Santi sono riusciti a toccare la felicità nel deserto e nella solitudine, è perché avevano trasformato quella solitudine in uno spazio di dialogo mistico con Dio.

E in realtà la mistica cristiana ci insegna che anche queste anime di preghiera si sentivano nell’inferno della più grande solitudine ogni volta che questa esperienza spariva facendoli piombare nell’aridità delle prove del silenzio, del deserto e del sangue. La solitudine, possiamo evincere, non è fonte di gioia. Mentre ogni incontro vero, divino o umano, è sorgente di felicità.
Non potremmo nemmeno sentirci soli se non avessimo già dentro di noi l’esigenza, l’immagine, il seme di ciò che significa incontrarsi. Proprio perché siamo stati creati per essere con gli altri, abbiamo la capacità di soffrire la solitudine. Gesù stesso soffrì la solitudine tanto che prima di morire disse: “Dio mio, perché mi hai abbandonato?”.

La solitudine porta alla nevrosi, all’abbrutimento, persino alla pazzia. In amore si soffre solo quando si introducono nel dialogo i germi della solitudine e dell’incomunicabilità, cioè ci guardiamo senza vederci, ci tocchiamo senza sentirci, ci parliamo senza amarci e senza capirci. Al contrario, la solitudine non esiste invece per due esseri umani che riescono a guardarsi negli occhi e a capirsi così profondamente da piangere di gioia o di dolore. L’inferno della solitudine inizia a esistere quando perdiamo la capacità di piangere o di sorridere, di comprendere o di amare: è in quel momento che scatta l’ora dell’isolamento.

Perché l’uomo si sente sempre più solo?
E’ una realtà che oggi tutti ci troviamo a vivere, in un modo o nell’altro, la malattia della solitudine. Non c’è tema come la solitudine che faccia scattare subito la conversazione negli ambienti più diversi e disparati, fra i tossicodipendenti, nei posti di lavoro, nei salotti, nelle chiese o nelle caserme, fra i borghesi e i proletari, fra i conservatori e i riformisti.

Oggi non riusciamo a vedere un film, a leggere un romanzo, ad assistere a una rappresentazione teatrale senza trovarci di fronte allo scottante problema della solitudine umana. Per non parlare poi della solitudine dentro la famiglia, fra i coniugi, fra i genitori e i figli, fra la coppia, fra i giovani e gli anziani. Direi che la solitudine è la parola cardine sulla quale gira tutta la problematica dei rapporti umani contemporanei.

E qual è, se non la solitudine, la radice ultima delle situazioni-limite e drammatiche dell’uomo, come la droga, la prostituzione, l’omosessualità, l’aborto, l’eutanasia, la pazzia, la depressione, il suicidio, ecc…? Certo, non tutti i malati di solitudine finiscono nella fossa di queste disperazioni, ma non troveremo uno solo di questi disperati che non porti su di sé le ferite della solitudine.

Oggi ci ammaliamo e moriamo non soltanto per degenerazione fisica, ma di solitudine. Ciò significa che abbiamo creato una società e delle strutture che, anziché aiutarci ad alleggerire la solitudine esistenziale del cuore, ci spinge maggiormente verso la solitudine totale che ci attende all’angolo di ogni situazione della nostra esistenza. Soprattutto per avere cancellato il posto che spetta a Dio, in Cristo Gesù, nelle nostre vite. Ecco perché l’analisi della solitudine umana non può essere solo un’analisi sociale e politica ma soprattutto religiosa e psicologica. Se vogliamo guarire da questa malattia dobbiamo riconoscere i nostri limiti sociologici e strutturali e riscoprire le nostre origini metafisiche ed esistenziali.

La società moderna è fabbrica di solitudine.
Se siamo attenti alla riflessione scopriamo che la nostra società (al pari delle altre industrializzate) è organizzata secondo una logica che implica inesorabilmente la solitudine. Infatti viviamo in una società fondata sul profitto, sul consumo, sulla produzione, sulla divisione del lavoro, sui valori che dividono gli uomini, sulle classi (anche se tendenzialmente dagli anni ottanta in poi si è cercato di attenuare il problema), sulla violenza. Tutte componenti della solitudine.

Perché, se siamo stati creati per la logica dell’incontro, una società fondata sui valori del successo ad ogni costo, della sessualità senza l’ideale dell’amore, della sopraffazione e dell’efficienza ci obbliga a sotterrare le nostre esigenze più intime. Cosa significa ad esempio, l’amicizia in questa logica?, cosa significa la fiducia nell’altro?, oppure la spontaneità, la libertà di comportarci come siamo e non come ci vogliono gli altri?
Siamo una società che ci obbliga a metterci di fronte all’altro come concorrente, come antagonista, come straniero, con tante maschere, anziché come esseri umani simili a noi, chiamati ad incontrarci per quello che siamo e non per quello che ci fanno essere. Viviamo in una società individualistica condannata, per sopravvivere,a una situazione che non si sente come destino comune, che è di essere uniti e non in lotta perenne con gli altri.

Penso e auspico che i giovani di oggi, che sono i nuovi adulti, riscoprano il coraggio di pensare con la propria testa, per divenire, con il loro spirito critico, con la loro irrequietezza, con il loro rifiuto di questa visione della società e la loro ricerca di alternative, il sintomo migliore per vincere la solitudine che questa società ci costringe a subire (ecco perché esiste il grande contrasto coi giovani, abbiamo perduto la capacità critica nei confronti delle cose). Però devo ammettere che non vedo niente di ciò che mi auguro, anche perché il pensiero di Gesù è remoto nel loro intimo.

E i vecchi?. Isolati in famiglia o abbandonati negli ospizi come in allucinanti aree di parcheggio di una umanità inutile, sono la verifica più eloquente di questa solitudine che ci riduce a categoria di oggetto inutile e ingombrante quando non siamo più in condizioni di lottare, di difenderci, di produrre o di consumare. Sappiamo, a questo punto, che una buona fetta della nostra solitudine è rappresentata dal prodotto della società che è fabbrica di solitudine, perciò è necessario uno sforzo personale e comunitario per capovolgere la logica della società materialistica redimendoci dalle nostre angosce e alienazioni, accogliendo il Regno di Dio, in Cristo Gesù, nei nostri cuori. Solo la conversione dei cuori ci può salvare, non c’è alternativa, tutto il resto sono chiacchiere umane che non conducono da nessuna parte, anzi peggiorano la situazione. Senza questa accoglienza e conversione del cuore, continueremo a vivere in una società in cui il valore dell’uomo si misura per la sua capacità di produrre e di consumare e non per il valore fondamentale primario di essere persona umana, concittadino della stessa terra, così l’uomo sarà sempre un candidato sicuro alla solitudine.

In un modo o nell’altro verrà tagliato fuori perché non è più interessante alla logica del profitto. Basti pensare che sono proprio queste persone le più emarginate della nostra società, le più abbandonate al proprio dolore, quelle che non vengono mai prese in considerazione se non per essere strumentalizzate a scopi di propaganda, di demagogia politica: i bambini, i pazzi, i vecchi, gli handicappati, i malati in genere, gli analfabeti, i senza potere. E’ più facile trovare fondi per costruire autostrade per i sani che ospedali per gli ammalati, perché i sani producono e consumano mentre i malati consumano soltanto. Lo stesso discorso vale per altre categorie di persone, per esempio i pensionati, sono solo consumatori e limitati.

In una società in cui non c’è posto per tutti l’uomo è costretto a conquistarsi il proprio spazio di sopravvivenza con la logica dell’affermazione ad ogni costo, anche con la crudeltà, col distacco dagli altri, con la prepotenza e l’inganno.
Ma a questo punto l’incontro con gli altri è viziato alla radice stessa, e allora scatta la solitudine che nasce dalla diffidenza e dalla difesa.

Il timore di perdere il lavoro, il benessere raggiunto o il posto nel treno dell’efficienza ci costringe a vivere lacerati fra l’esigenza di quiete e di pace e l’urgenza di correre sempre, di non avere mai tempo per l’amore, per la poesia, l’amicizia, per Dio. Viviamo sempre col piede sull’acceleratore, sempre sulla strada.
E la società che produce, non nella misura delle esigenze fondamentali dell’uomo ma nella misura della sete di guadagno, ci obbliga a costruire città fatte per lavorare ma non per vivere: formicai umani, dormitori di cemento, per cui nasciamo, cresciamo e moriamo a una decina di centimetri di distanza senza mai chiamarci per nome. Oggi in una città un essere umano solo può essere scoperto anche a mesi di distanza dopo la sua morte.

Oggi, purtroppo, nella quasi totalità (tranne che per qualche privilegiato), il lavoro è una delle fonti più grandi di solitudine. Noi siamo nati per essere creatori, per essere artisti della nostra opera, per realizzarci nel lavoro come creatività, siamo costretti, per sopravvivere, a rinunciare a un lavoro libero e creativo, per un lavoro imposto, schiavo e alienante, sotto schemi autoritari o paternalistici, senza possibilità di spazi. Veniamo costretti per tutta la vita a fare ciò che non avremmo mai fatto, cioè un lavoro che non risponde alla nostra creatività, che spesso non sappiamo nemmeno a cosa serve o, ciò che è peggio, che sappiamo che servirà per alienare di più gli altri e noi stessi.

La scienza e la tecnica che dovrebbero essere di grande aiuto per combattere la solitudine umana offrendo a noi uomini gli strumenti necessari per incontrarci con più facilità, per potere gestire meglio il proprio tempo allargando le possibilità della creatività, finiscono per essere, in questo tipo di società contro l’uomo (ora, poi, c’è la globalizzazione), uno strumento di violenza psicologica e fisica. In questo modo veniamo costretti ad essere sempre più schiavi delle macchine e a sacrificare la nostra intimità dovendo esistere continuamente nell’incubo di essere travolti dalla voragine di un progresso che non siamo capace di dominare né di gestire in libertà e dignità.

La solitudine non ha età.
La solitudine sfortunatamente non ha età. Ce la troviamo in tutto l’arco della nostra esistenza. Nasce con noi e ce la portiamo nella tomba a meno che….questo è un argomento che tratteremo in seguito, per ora limitiamoci al tema in oggetto.

I due momenti di più profonda solitudine per noi umani sono infatti la nascita e la morte. Questi istanti di suprema solitudine si esprimono sensibilmente con un urlo o un pianto come a significare lo choc dell’abbandono estremo. Ogni bambino nasce piangendo. Dal caldo umido e protettivo dell’utero materno, che lo ha avvolto per nove mesi offrendogli, attraverso il tatto, la prima e più importante esperienza vitale, si trova di colpo solo.

E’ come sentirsi, affermano gli psicologi, nel vuoto esistenziale, sperduto in un mondo radicalmente nuovo, sconosciuto. Ecco perché il bambino si aggrappa subito al corpo della madre: è la paura, il senso di insicurezza, lo smarrimento del nuovo. Se questo primo trauma esistenziale non viene compensato da un’accurata assistenza materna, il bambino si trascinerà per sempre la prima triste esperienza di solitudine. Purtroppo è in aumento il numero di queste creature indifese e sole a cui dal primo momento viene a mancare la madre o il padre per motivi diversi, ma sempre traumatizzanti. La solitudine del bambino continua quando dovrà servirsi di un linguaggio che non è il suo, ma dei grandi. Per cui non capirà e stenterà a farsi capire.

Nascono in questo modo le prime incomprensioni e le prime lotte del piccolo per esprimere il mondo che comincia a sbocciare dentro e fuori di lui come una scoperta. Ci sono poi altri elementi che condizioneranno fortemente la dimensione di solitudine del bambino: l’ iperprotezione di noi genitori gli impedirà sovente l’incontro con la realtà, isolandolo dagli altri pensando di evitargli così i pericoli; o il troppo lavoro dei genitori ( specialmente se entrambi lavorano) per cui il bambino, resterà troppo solo e difficilmente imparerà ad amare. La mancanza dell’immagine del padre o della madre con cui può identificarsi può creare nel bambino le prime deviazioni sessuali perché lo porterà alla conoscenza di un solo sesso.

La solitudine cresce ancora nella scuola dove il bambino viene educato più sapere che all’amore. Gli si danno subito modelli di comportamento che metteranno gravemente in pericolo la sua creatività. Insomma viene manipolato e costruito secondo la logica del consumo e del profitto. Inizia a subire le ingiustizie della società eretta non per fare gli uomini ma per piegarli. Impara una storia falsa tanto che comincia a guardare il mondo non nella sua realtà ma nelle immagini che gli uomini del potere hanno fatto del mondo e delle cose. Impara a difendersi dagli altri, a prevalere sugli altri, a riconoscere nei compagni i potenziali nemici di domani, non l’amico, il fratello, il compagno di avventura e di umanità. Questa scuola di solitudine, che insegna a noi uomini ad essere soli, si protrae fino all’età adulta dove la solitudine continua a essere compagna di vita nel lavoro, nella famiglia e nell’amicizia.

Soprattutto in famiglia: da ragazzi educati alla solitudine e non all’incontro, alla concorrenza e non all’amicizia, al possesso e non alla frazione del pane, alla violenza e non alla libertà, nasceranno così coppie e famiglie dove gli schemi si ripeteranno e dove la spontaneità dei rapporti iniziali di amore seguirà la cruda realtà dell’incomunicabilità, della supremazia dell’uomo sulla donna o della donna sull’uomo, della mancanza reciproca di creatività e di fantasia, dell’impossibilità di un rapporto di parità dove tutte e due possano e dare e ricevere senza schemi e senza prevenzioni maschili.

Inizierà così la terribile solitudine a due. Il rapporto cominciato nel nome dell’amore si esaurirà in una squallida accettazione, sopportazione, rassegnazione, convivenza passiva, oppure nella separazione indifferente (che grande problema è oggi questo), fredda o umiliante.

E poiché il male è alla radice stessa dei rapporti umani viziati già dall’infanzia, noi riproponiamo questi schemi di solitudine in tutti gli altri incontri: con i figli, con i parenti, con gli amici (se nonostante tutto riusciamo ad averne), con i compagni di lavoro. La parola d’ordine è la diffidenza, l’autoritarismo, l’interesse. Non solo, finiamo addirittura per ignorare cosa è in realtà un rapporto vero, pulito, spontaneo, generoso, creativo, dove non c’è posto per la solitudine, tranne per quella solitudine inevitabile che ci trasciniamo interiormente. Una vita fondata sulla solitudine non può che aggravare tale malattia quando arriva il tramonto della vita.
Ma l’ultima e più amara solitudine è il momento cruciale della morte che solo la speranza della fede riesce ad alleviare.

Quando la vita non è stata giocata nell’esperienza di un incontro umano liberalizzante e gioioso, difficilmente potremo vedere la morte come un incontro con l’Amore . Chi nella vita non è stato amato, difficilmente avrà della morte l’esperienza di un Amore che aprirà all’uomo definitivamente i misteri nascosti della vita. Solo se ai bambini insegneremo, fin dalla nascita, ad amare la vita donataci da Dio Padre, saranno capaci di vedere la morte come la continuazione di una vita più piena, come un modo diverso da vivere, non come il nulla.

La solitudine esistenziale.
Abbiamo analizzato fin qui della solitudine costruita da noi stessi in un mondo fatto per vincere e non per amare; se esiste anche la solitudine di chi ama essere solo, perché rifiuta l’amore e quindi sceglie l’inferno, oppure la solitudine di chi, incapace di amare, impedisce agli altri di avvicinarlo e di amarlo, esiste anche una solitudine ineliminabile, inguaribile, che appartiene alla condizione dell’uomo pellegrino. Questa solitudine è forse la dimostrazione più vera della nostra dimensione di infinito.
Questa solitudine non dipende più dalle strutture sociali umane, anche se esse possono esasperarla. Si tratta di una solitudine che vive nei nostri cuori e che esiste anche in mezzo alle strutture sociali e politiche più ideali.

E’ la nostalgia di infinito, è la capacità mai esaurita di noi umani di conoscere, di amare, di incontrare sempre più profondamente l’altro. E’ la nostra sete di sempre più.

E’ la nostra fame di divino o di mistero. Sentiamo, al di là di ogni scelta religiosa, che siamo capaci, nel nostro desiderio, di cose infinite, che siamo infiniti noi stessi. Ecco perché quando abbiamo conquistato ciò che desideriamo, continuiamo a desiderare ancora, quando crediamo di avere raggiunto la meta, vogliamo andare più oltre. Questa solitudine nessuna ce la può togliere. Esiste anche fra coloro che hanno avuto la fortuna di trovare la freschezza dell’amore in mezzo al deserto di cemento di questo mondo violento: esiste nei santi più veri.

Solo in certi momenti di pienezza di gioia umana o divina, generalmente nella linea dell’amore ma anche conoscenza, noi abbiamo per un istante la sensazione di avere vinto totalmente questa solitudine esistenziale sentendoci pieni interiormente. Ma si tratta solo di un istante, passato il quale vorremmo una pienezza maggiore, forse perché quell’esperienza di amore o di luce allarga la nostra capacità di desiderio.

Se abbiamo la capacità di sentirci soli malgrado tutto, ciò sta a significare che interiormente abbiamo la nostalgia della non-solitudine, perché in realtà non siamo mai completamente soli. Un uomo che fosse completamente solo non avrebbe mai la coscienza della propria solitudine. Tutto ciò spiega perché sentiamo, avvertiamo, percepiamo che non siamo nati per la solitudine ma per l’incontro, anche se siamo ben consci di non potere eliminare completamente tutte le dimensioni della solitudine nella nostra esistenza.

Esiste una solitudine positiva?
E’ possibile una solitudine buona, positiva, desiderabile? Diceva Nietzsche: ” Io ho bisogno della solitudine, voglio dire del ritorno a me stesso”; e Rostand: ” Essere adulto vuol dire essere solo”; e Sarano: ” La nostra epoca ha due grandi mali: la solitudine e l’assenza di solitudine”.

Ad una prima analisi di queste affermazioni sembrerebbe che questi filosofi amino la solitudine. Niente di più falso. Penso piuttosto si tratti di ambiguità di linguaggio. Se per non-solitudine intendiamo conformismo, gregarismo, mancanza di creatività, incapacità di scegliere secondo coscienza, essere massa, allora hanno ragione i succitati personaggi. Ma poiché credo fermamente nelle capacità dei doni ricevuti da Dio Padre, allora dobbiamo pensare con la nostra testa, decidere da soli, non essere d’accordo col sistema, senza scordare che spesso vuol dire essere tagliati fuori, essere incompresi e probabilmente perseguitati. Ma, aggiungo, essere un uomo libero. Se per non-solitudine intendiamo anche chiasso, confusione, mancanza di quiete, attivismo esasperato, frenesia, correre senza meta, assenza di riflessione personale, collettivismo, massimificazione, allora è vero che dobbiamo imparare a essere soli, a cercare la propria solitudine che ci risparmi la nevrosi di essere troppo insieme agli altri.

Tuttavia ogni volta che avvertiamo la nostalgia della solitudine è perché dall’altro lato non troviamo l’assenza di solitudine alienante, il vero incontro umano, la vera amicizia, la presenza liberalizzante, ma al contrario sono i rapporti falsati, le strutture disumane, la babilonia del linguaggio e degli atteggiamenti, cioè l’impossibilità di essere se stessi senza essere giudicati e condannati, in definitiva la vera solitudine che tradisce o annienta o schiavizza, anche se fatta di tante persone insieme. Amare la solitudine per la solitudine, ovvero come un valore, non è mai un atteggiamento dell’uomo vero, che si sente nato per la convivenza. Sarà sempre il male minore o il cosiddetto e saggio slogan popolare: ” Meglio soli che male accompagnati”. Cioè, meglio la propria solitudine che una somma di solitudini.

C’è una sola solitudine che dobbiamo imparare ad accettare senza odio, a sentirla nostra anche se non possiamo amarla, quella che abbiamo chiamato esistenziale, inguaribile. Se volessimo eliminarla, cadremmo nella disperazione. E’ una solitudine che troviamo non solo in noi stessi ma anche nei rapporti più veri con gli altri, nei rapporti più profondi di amore. Anzi, è una solitudine che cresce nella misura in cui penetriamo nella verità delle cose e nella genuinità dell’incontro umano. E’ questa accettazione che ci rende liberi e sereni anche in mezzo all’inevitabile sofferenza di non potere toccare l’infinito.

Penso che questa sia l’unica vera alternativa ai vecchi rapporti umani impregnati di possesso e di violenza, che mortificano nella radice stessa la nostra dignità e della dignità del nostro prossimo. L’unica alternativa alla solitudine esistenziale del nostro cuore in via di realizzazione. Allo stesso modo che una lotta intelligente e coraggiosa per una società diversa, eretta dall’uomo con l’aiuto di Dio Padre, Gesù Cristo nostro Signore, il Santo Spirito. Questa è l’unica alternativa, l’alternativa dell’amore. Allora comprendiamo che tutte le altre alternative studiate dall’uomo si rivelano sempre più surrogati falsi: così la droga, il sesso distaccato dall’amore, il divertimento sfrenato per stordirsi, il successo, la sete di potere, il suicidio ecc…

Il fatto che la ricerca alternativa
( vale a dire il rifiuto del progetto di Dio) addormenta solo i problemi, per ritrovarceli davanti ingranditi e non risolti.
Sono convinto che non è sfuggendo al realtà del nostro bisogno di Dio che si vincerà la solitudine umana, ma in comunione con gli altri fratelli e sorelle in Cristo riusciremo a realizzare una società migliore. Come? Avvicinando gli altri, i più soli, per aiutarci a vicenda a uscire dalla comune solitudine, instaurando, in Gesù Cristo, rapporti umani nuovi.
(02/02/01)