Canto della vigna

Lectio Divina – 21

ISAIA

“Canto della vigna”

5,1-7

Introductio.

Lodiamo Dio nostro Padre che ci ha chiamato ad ascoltare la sua Parola. Preghiamo Maria Vergine Madre perché ci assista nel ricevere lo Spirito Santo.

Vieni, Spirito Santo, nei nostri cuori e accendi
In essi il fuoco del tuo amore. Vieni, Spirito Santo,
e donaci per intercessione di Maria che ha saputo
contemplare, raccogliere gli eventi della vita di
Cristo e farne memoria operosa, la grazia di
Leggere e rileggere le Scritture per farne anche
In noi memoria viva e operosa.
Donaci, Spirito Santo, di lasciarci nutrire da questi
Eventi e di riesprimerli nella nostra vita.
E donaci, Ti preghiamo, una grazia ancora più
Grande: quella di cogliere l’opera di Dio nella
Chiesa visibile e operante nel mondo. Amen.

Lectio.

Oggi diamo inizio a sei lectio divine relative al profeta Isaia e ci terrà impegnati a lungo. Probabilmente siamo abituati a pensare che il “profeta” sia un tale che, per qualche misterioso potere, predice il futuro. Invece, il compito del profeta biblico è ben diverso; non è una persona dotata di poteri speciali, che rasenti il paranormale. Se e quando fa una previsione su quello che accadrà, lo fa come chi guardi con oculatezza la realtà che lo circonda. In tal caso gli esiti di certe situazioni possono essere prevedibili. Un profeta perciò non è un indovino, né un veggente (personaggi nei confronti dei quali la Scrittura è, a dir poco, diffidente). E’ invece una persona chiamata da Dio per indicare al popolo come Dio stesso guida e vede i fatti della storia e della realtà umana, per esortare, correggere, confortare, dare speranza.

In particolare il profeta deve illuminare il popolo sulla propria fedeltà o infedeltà all’alleanza con il Signore, richiamandone gli elementi essenziali e denunciando formalismi, inadempienze e ipocrisie.

Gesù stesso ha ripreso temi e atteggiamenti profetici nel suo ministero e anche tutti noi, con il battesimo, partecipiamo del carisma profetico che investe ora tutta la Chiesa.

Se la meditazione dell’Esodo ci ha abituato ad un’atmosfera di miracolo pressoché continuo, i profeti ci svezzano da questa atmosfera e ci riportano all’assunzione quotidiana delle nostre responsabilità nei confronti dell’Alleanza, le cui esigenze sono espresse nella Torah.

Isaia, in senso stretto, svolge la sua attività profetica negli anni tra il 740 e il 701 a.C., prendendo però le date in maniera semplificata. E’ in ogni caso un periodo in parte sereno in parte turbolento, che finisce con l’invasione del Paese da parte degli Assiri.

Isaia è un uomo di corte, coltissimo e raffinato. Il suo linguaggio è spesso difficile anche per un buon ebraista, perché ricco di preziosismi: a conferma del fatto che quando affermiamo che il Signore si rivela e affida grandi incarichi ai poveri significa che chiama persone disponibili a tutto per Lui (Isaia, come capiremo, ebbe una vita assai tribolata, e la tradizione lo fa morire martire), quale che sia la loro estrazione sociale e la loro cultura. I profeti che provengono da classi sociali elevate, si considerano e sono in ogni modo “poveri” davanti a Dio.

Leggiamo il cantico tutti insieme attentamente:

Canterò per il mio diletto il mio cantico d’amore per la sua vigna. Il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle.

Egli l’aveva vangata e sgombrata dai sassi e vi aveva piantato scelte viti; vi aveva costruito in mezzo una torre e scavato un tino. Egli aspettò che producesse uva, ma essa fece uva selvatica.

Or dunque, abitanti di Gerusalemme e uomini di Giuda, siate voi giudici fra me e la mia vigna.

Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto? Perché, mentre attendevo che producesse uva, essa ha fatto uva selvatica?

Ora voglio farvi conoscere ciò che sto per fare alla mia vigna: toglierò la sua siepe e si trasformerà in pascolo; demolirò il muro di cinta e verrà calpestata.

La renderò un deserto, non sarà potata né vangata e vi cresceranno rovi e pruni; alle nubi comanderò di non mandarvi la pioggia.

Ebbene, la vigna del Signore degli eserciti è la casa d’Israele; gli abitanti di Giuda la sua piantagione preferita. Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi.

Meditatio.

Il cantico, secondo alcuni studiosi, trattasi di una parabola, termine che possiamo accettare, a patto di non dargli un senso troppo ristretto e tecnico.

Una voce, quella del profeta, canta con il grado di amico del protagonista (v.1). Inizia come fosse in un luogo affollato e dovesse richiamare l’attenzione di gente distratta, che ha perso di vista la gravità della situazione e da che cosa sia causata. Intona dunque un canto di lavoro, nel quale descrive l’impegno di un vignaiolo attorno alla propria vigna; in realtà si tratta di un canto su di un amore disilluso; solo nel finale si svela che è il canto del fallimento dell’amore divino.

Nel teso s’intersecano diversi livelli di linguaggio. Il verbo che vi compare più spesso è “fare2, che ricorre in tutto sette volte (due volte al v.2; quattro al v.4; e una al v.5).

L’amore, infatti ( e non solo quello del contadino per la propria vigna!) non è un sentimento, ma una serie di decisioni che diventano azioni orientate a dare vita e a rendere fecondi. A tale e tanta attività il padrone credeva che la vigna corrispondesse “facendo”, a sua volta, frutto, in altre parole partecipando della sua stessa operosità. Al massimo sarebbe potuto rimanere deluso per una produzione scarsa e non all’altezza delle cure ricevute. La vigna invece non ha dato poca uva, ma addirittura un frutto sgradevole. Tradita nell’attesa del vignaiolo, ci accorgiamo allora che essa è in realtà quella di un amante.

“L’amico” o il “diletto” del v.1, infatti, ha lo stesso appellativo del fidanzato del cantico dei cantici, che tradotto, altro non è che David. Il profeta cantore richiama agli orecchi di un uditorio sulle prime distratte una storia lunga e ben nota: quella dell’Alleanza, come luogo dell’amore di Dio per gli israeliti, e della dinastia davidica.

Notiamo infine che il cantico d’amore è sul ritmo dell’elegia funebre. L’amore è morto; o piuttosto non è stato compreso né raccolto; è rimasto senza risposta. Il complesso gioco d’incastri conduce a dover costatare il fallimento di Dio, il quale però non chiedeva di essere riamato, bensì che si rispondesse alle sue cure con opere di giustizia (v.7), secondo quanto stipulato nell’Alleanza sul Sinai. Stando ad essa, infatti, l’appartenenza a Dio deve essere vissuta e agita nella solidarietà e nella giustizia verso gli altri.

Gli ascoltatori reagiscono con un silenzio imbarazzato: notiamo nel testo, infatti, un senso di sospensione dopo l’interrogativo del v.4. Ad esso fa subito seguito però un verdetto: tutto sarà divelto e distrutto, invaso da rovi e pruni e il cielo si chiuderà perché la desolazione sia irreversibile.

La considerazione forse più importante per fondare la nostra preghiera allora è che siamo troppo malati di psicologismo. L’amore è oggi inteso dai più come qualcosa che “si sente”, non come un progetto in cui certamente, entrano sentimento e attrazione, ma che sa permanere anche quando il sentimento passa o cambia. In altre parole la parola “amore” ha come termine correlativo la parola “fedeltà”, così come accade nel modo di agire di Dio.

Se rileggiamo con attenzione i vv.2 e 5, vediamo che vi sono elencate con cura tutte le operazioni compiute dal vignaiolo secondo il ritmo delle stagioni. I sassi, per esempio, emergono dal terreno dopo la stagione delle piogge e solo allora possono essere tolti, accumulati e al caso utilizzati per edificare un muretto a secco, a coronamento del quale si ponevano rovi e pruni (la siepe del v.5) per impedire alle bestie di entrare nella vigna e devastarla.

L’amore esige di essere coltivato con cure assidue e appropriate, spesso faticose; vive, alla lunga, più di decisioni e di fatica che non di percezioni. Così comprendiamo come Dio vede l’amore nuziale offerto al suo popolo attraverso l’alleanza come frustrato e tradito in maniera che pare irrimediabile. Poiché il risultato del suo lavoro non è stato poca uva, e non è stato neppure nessuna uva…esiti che avrebbero potuto, ancora, indurre alla pazienza e alla sollecitudine. La vigna, al contrario, ha semplicemente prodotto un’erbaccia puzzolente. Il popolo non ha, dopo di una tale requisitoria, possibilità d’autogiustificarsi: l’ingiustizia è sotto gli occhi di tutti, e così l’idolatria e la contaminazione di Gerusalemme e del Paese.

Nel cantico della vigna, l’amore non è una semplice esperienza, in parte durevole, ma un coinvolgimento totale e fedele, quando c’é.

Rileggiamo il cantico facendo attenzione ai suggerimenti dello Spirito Santo.

Contemplatio.

Padre celeste, tu hai curato e curi, con amore operoso ed infaticabile, ogni singolo uomo e l’umanità intera, eppure solo pochi sviluppano i frutti da te attesi. Tu attendi l’osservanza della giustizia, ma spesso noi siamo ingiusti, egoisti, indifferenti. Tu conosci bene la debolezza della natura umana e per questo ci hai inviato Gesù, Tuo Figlio, la vera vite; ci solleciti a seguirlo, ad ascoltarlo, ad imitarlo, perché solo così porteremo quei frutti di pace, di amore, di fratellanza che tu vuoi da noi.

Anche noi dobbiamo “fare”, non solo “aspettare” l’opera d’amore di Dio; dobbiamo uscire dal nostro individualismo, dal nostro ripiegarci sul nostro benessere, dal sentirci al centro dell’universo, perché questo atteggiamento genera i cattivi frutti dell’insoddisfazione, della solitudine, della disperazione. Gesù, Signore nostro, tu hai detto “Rimanete in me” (Gv. 15,4), quindi se noi, tuoi discepoli, ci applicheremo con tutte le nostre forze (mente, cuore, volontà) a volere vivere in Te e di Te, saremo dei tralci non solo viventi, ma ricchi di quei frutti di bene per i fratelli, per la Chiesa, che rallegrano il cuore di Dio Padre.

Conclusio.

La sera precedente la sua Passione, Gesù ha detto ai suoi Apostoli: “Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo…Rimanete in me ed io in voi. Come il tralcio non può recare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me” (Gv. 15,1-4).

Noi cristiani mediante la Chiesa, rimaniamo in Cristo e, non solo riceviamo la vita soprannaturale, ma diventiamo oggetto di particolare cura da parte del Padre celeste, che è l’agricoltore della mistica vite. Infatti, in Cristo il Padre riconosce gli uomini come figli adottivi e, come tali, li ama e li cura.

Grazie Santissima Trinità per questa ora di preghiera.

Sia lodato Gesù Cristo.

Amen.