Libro di Giuditta: Capitoli 4-8

Come la figura di Nabucodonosor è più teologica che storica, così è teologica la descrizione della strada della vittoria offerta agli Ebrei. Innanzi tutto gli Ebrei sono l’unico popolo che decide un’effettiva resistenza, adottando anche misure militari, ma confidando soprattutto nella protezione di Dio.

Curiosamente la visione teologica che anima gli Ebrei, prima di essere descritta nella loro esperienza, si trova esposta nel discorso dell’Ammonita Achior.

Questo intermezzo ha, nel racconto, lo scopo di spiegare la cautela con cui Oloferne affronta gli Ebrei, preferendo un lungo assedio ad un attacco diretto, e di creare la situazione richiesta dal seguito della narrazione. Ma ha anche una funzione teologica: dimostrare che solo condividendo la fede e l’esperienza d’Israele può trovare salvezza e benedizione anche lo straniero, come già si prometteva ad Abramo; la storia d’Israele è un segno per tutti i popoli.

La teologia della storia elaborata da Achior è fondata sulla tradizionale concezione deuteronomista. Il vero protagonista di tutte le vicende del popolo ebraico è Dio e la sua forza sta soltanto nella fedeltà a Dio.

Chi combatte contro Israele combatte contro Dio, non contro uomini e può avere speranza di vittoria non facendo leva sulle sue forze, ma soltanto su eventuali infedeltà del popolo di Dio, che nella storia non sono certo mancate.

Paradossalmente è sempre e solo il popolo che si autoprocura la sua sconfitta se pecca contro Dio.

Dietro questa diagnosi di Achior, che sarà poi riproposta da Giuditta, si scorge evidentemente un’esortazione dell’autore agli Ebrei per questo scrive: Se vogliono sopravvivere essi devono fare una cosa sola: non peccare!

Ovviamente noi possiamo considerare tutto ciò una semplificazione fideistica, ma non dobbiamo scordare che è proprio della mentalità apocalittica la riduzione d’ogni problematica ai suoi elementi fondamentali decisivi. Mediante queste radicalizzazioni l’apocalittico vuole giungere alla spiegazione trascendente della complessità superficiale degli eventi.

L’autore vuole convincere che una fede assoluta e quasi cieca è l’unica arma di salvezza che il popolo possiede. Per questo motivo, nel seguito del racconto, esigerà che questa fede persista anche quando, finito ogni rifornimento idrico, la situazione è arrivata al limite estremo e pone in bocca a Giuditta un rimprovero per la tentazione di Dio, implicita in quella specie di ultimatum: o la salvezza viene entro cinque giorni oppure ci arrenderemo.

Giuditta vuole che si lasci a Dio il computo dei giorni e si resista nella speranza senza condizioni. Ad una resistenza di questo tipo l’autore vuole invogliare gli Ebrei del suo tempo, rassicurandoli, con la sua narrazione, che, per chi persevera senza riserve, la salvezza arriva prima della temuta catastrofe.

La fede non esclude la messa in opera d’ogni difesa umanamente ragionevole (Giuditta farà leva sulla sua bellezza!), ma il capitolo 8 vuole dimostrare che queste difese, anche le più sicure (tanto che Idumei e Moabiti giustamente le ritengono valide convincendo Oloferne a non attaccare direttamente) possono essere aggirate e frustrate dall’astuzia del nemico. E’ inutile illudersi: se non ci si affida a Dio soltanto, l’ultima parola è sempre del nemico. La lezione era stata appresa dagli Ebrei in troppe occasioni per lasciare ancora qualche spazio all’incertezza.

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