IL Libro di Qoelet o Ecclesiaste

Premessa

A metà della Bibbia, tra l’elogio della “donna perfetta” con cui finisce il libro dei Proverbi e il grido d’amore appassionato che inizia il Cantico dei Cantici, compare un titolo strano: Kohélet in ebraico ed Ecclesiaste in greco, in altre parole l’uomo dell’assemblea (=predicatore).

Il testo si snoda senza un chiaro ordine ed affronta la questione del significato della vita umana. Incapace di scrutare a fondo i disegni di Dio, l’uomo si trova a lottare con la realtà d’ogni giorno, alla disperata ricerca di una felicità che gli alleggerisce l’onere di vivere. La felicità terrena, la ricerca delle sensazioni del piacere non può essere il vero scopo della vita. Qual è in definitiva il segreto della vita, l’autore non sa spiegarlo (almeno in apparenza), si accontenta di demolire gli argomenti opposti ai suoi.

Il libro osserva semplicemente l’esistenza e ne trae le logiche conclusioni. Si tratta della “vita sotto il sole” (il mondo considerato semplicemente dal punto di vista umano), così come l’uomo la vede attorno a sé. L’autore non impone idee preconcette. La vita vissuta dell’uomo, se priva di Dio, è inutile, assurda, senza scopo, vuota, una realtà molto triste. La natura e la storia si ripetono ciclicamente, senza produrre nulla di nuovo. Se si assommano i pro e i contro dell’esistenza vedremo che è meglio morire. La vita non è bella: il lavoro ricomincia sempre da capo; il piacere ad un certo punto non soddisfa più; la buona condotta e i pensieri saggi sono azzerati dalla morte.

“Sii realista”, consiglia il libro. “Se la vita senza Dio è tutta qui, prendila per quel che vale. Non pretendere troppo. Non nascondere la testa nella sabbia. La verità sulla vita è questa!”

A motivo del suo caratteristico argomentare, l’autore è stato accusato di cinismo, di essere un pessimista, un edonista o uno scettico; in realtà egli è uno spirito profondamente religioso e, dichiarando l’illusione della felicità sulla terra, orienta le aspirazioni dell’uomo in direzione di una felicità più alta e sicura. Il consiglio finale dell’Ecclesiaste, ispirato ad un realismo di buona lega, è un invito alla moderazione nell’uso delle cose terrene, nel rispetto della volontà di Dio.

Nei suoi aspetti apparentemente negativi, l’autore testimoniala necessità di una più completa rivelazione divina sulle sanzioni eterne nell’ al di là all’opera dell’uomo sulla terra.

La rivelazione cristiana offrirà agli uomini, che inseguono sulla terra i loro insopprimibili desideri di felicità, la grazia divina. Il libro è, infatti, il necessario presupposto del Vangelo, l’annuncio liberatore per chi comprende che “tutto ciò che non è eternità, è tempo perduto”.

L’autore, un vecchio professore giudeo che ha insegnato a Gerusalemme intorno al 250 a.C., ha lasciato pubblicare da un suo discepolo il libro condensando il suo insegnamento. La data sembra confermata poiché la paleografia ha collocato verso il 150 a.C. i frammenti dell’Ecclesiaste trovati nelle grotte di Qumran.

L’epoca storica è il tempo in cui la Palestina è sottomessa al governo dei Tolomei, dominata dal lusso, dai piaceri e dalla cultura ellenista, raggiunta, perciò, dalla grande corrente umanista internazionale, ma non ancora illuminata dalla fede e dalla speranza nella retribuzione ultraterrena, che guiderà la resistenza maccabaica.

Il libro, in definitiva, ha un preciso carattere di un’opera di transizione. Il pensiero ebraico si trova ad una svolta. La convergenza su altre opere similari avviene su temi universali, diventati patrimonio comune della sapienza di tutti i popoli, ma che l’Ecclesiaste risente in modo del tutto originale in ragione della sua fede jahwista, perché l’autore è e vuole restare un credente.