Il Libro della Genesi: Capitolo 37 e 50

Con la morte d’Isacco che la tradizione sacerdotale fa vivere fino a questo punto come risulta dal capitolo 35,27-29; Giacobbe diventa il capo della linea patriarcale. Ecco perché la Genesi annuncia qui la decima e ultima “generazione”, quella di Giacobbe.

In altre parole, questi, che seguono, sono gli eventi in cui è implicato Giacobbe diventato la figura principale della storia della salvezza, eventi che lo terranno legato a Giuseppe e ai pretendenti all’eredità promessa. Pare che il redattore della Genesi, amalgamando in vario modo parecchie fonti che possiede, affronti un problema dei teologi del suo tempo a proposito di chi avesse il diritto di considerarsi l’erede legittimo delle promesse tra i figli di Giacobbe giacché esse sono passate a Giuda il quartogenito, “colui che ha diritto al tributo” (49,10) e non a Ruben, il primogenito, diseredato e neppure ai figli di Giuseppe, che pure dal padre era stato rivestito di una tunica regale, che occuperà il secondo posto dopo il faraone d’Egitto, che sarà riconosciuto come “principe” dai suoi fratelli (49,26).

I successi e i poteri umani potranno trasformarsi in strumenti per la riuscita del piano divino: così Giuseppe sarà l’uomo mandato in Egitto da Dio stesso per salvare un popolo numeroso (50,19). Gli stessi salvati non valgono per loro precedenze umane ma per l’elezione di Dio: Ruben, Simeone e Levi, lo stesso Giuseppe devono lasciare il primato a Giuda, che pure era vissuto sempre in disparte.

In lui va riconosciuto adesso il “seme” promesso alla donna e da lui discenderà il Messia.

Gli ultimi capitoli della Genesi, tutti dominati peraltro dalla figura di Giuseppe, cercano appunto di dare il fondamento a questa dottrina.

Dal punto di vista storico, alla luce anche della critica letteraria e dalle forme, la storia e la figura di Giuseppe risultano del tutto attendibili e situabili verso il 1450/1400 sotto la dinastia XVII dei Tuthmosis. La storia è tramandata in un dramma di carattere sapienziale, vero gioiello d’arte narrativa, con atti e scene, mentre i cicli dei tre patriarchi erano costituiti da tradizioni brevi e spesso localizzate in santuari.

Sui generi Letterari delle singole scene, sugli usi e costumi è evidente l’influsso egiziano, come del rituale egiziano è influenzato il racconto dei funerali di Giacobbe, mentre è minimo è l’influsso della cultura egiziana nei riguardi della religione, esclusa qualche pratica di carattere popolare e superstizioso, come l’interpretazione dei sogni, l’oniromanzia, e i giuramenti per la vita del Faraone.

Dal punto di vista del messaggio religioso la storia di Giuseppe sottolinea la Provvidenza personale di Dio e in qualche modo anticipa la problematica del giusto che soffre ingiustamente. In particolare il versetto 20 del capitolo 50 è ricco di dottrina teologica: Dio ripensa in bene il male pensato contro Giuseppe e addirittura lo fa servire ai suoi disegni di salvezza.

Giuseppe è fatto scomparire dai fratelli, incamminato su una via senza ritorno; invece è diventato il loro salvatore. Proprio perché casto (39,7-20) è calunniato e incarcerato; ma è questa situazione ingiusta che gli permette di incontrare il coppiere del Faraone e diventare poi a suo tempo noto al Faraone stesso. Davvero secondo verità potrà dire ai fratelli: “Non siete stati voi a mandarmi qui, ma Dio” (45,8). Allo stesso modo, la discesa del clan di Giacobbe in Egitto (46) prepara la nascita del popolo d’Israele. Vi è costante una medesima prospettiva di salvezza, che attraversa tutto l’A.T. e sfocia nel N.T., fino a permettere di intravedere nella storia di Giuseppe un abbozzo della redenzione.

Due versetti del Libro dei Proverbi possono offrire la chiave di lettura di tutti questi capitoli:

“Veramente il cuore dell’uomo medita la sua via, ma il Signore dirige i suoi passi”

“Nella mente dell’uomo ci sono molte idee, ma quello che sussiste è solo il piano di Dio”

(Prov.16,9; 20,24).

Storia di Giuda preservato da Tamar

Nella trama della storia di Giuseppe sono inserite due pagine (38 e 49), che la interrompono, ma che per la loro importanza morale e religiosa meritano di essere sottolineate.

Per quanto riguarda la storia di Giuda e di Tamar i critici sono concordi nel sostenere che si tratta di un documento indipendente, il quale presumibilmente doveva costituire il seguito del racconto sull’eliminazione di Ruben (35,22) e di Simeone e Levi (34,1ss) e stare prima del capitolo 37.

Però il redattore finale, inserendolo nella storia di Giuseppe, ha inteso farne un dittico col capitolo 37: là Giuseppe, sognatore e millantatore, è venduto dai fratelli, dietro consiglio di Giuda e amara delusione di Ruben; qui Giuda, nonostante la sua tendenza a separarsi dai fratelli, è preservato, in modo umanamente imprevedibile, da una donna, Tamar, che lo rende padre di due rigogliose tribù, quella di zara e quella di Fares, capostipite della dinastia davidica.

Questa storia svolge, dunque, ancora il tema fondamentale della Genesi: il seme santo e il primato di Giuda.

Per questa ragione l’autore sacro insiste sull’obbligo che s’impone al fratello di sposare la vedova del proprio fratello morto senza figli, per assicurare la discendenza al defunto (è la legge del “levirato”, dal latino “levi”, che significa “cognato”), e loda l’azione di Tamar, come “più giusta” di quella di suo suocero, perché con il suo tranello ha preservato la sopravvivenza della famiglia, da cui sarebbe dovuto uscire il Messia.

In questo episodio è gravemente condannato il peccato di “onanismo”, che appunto prende il nome da Onan. Nonostante le discussioni recenti, il senso del testo biblico non si può ridurre alla semplice condanna di un peccato contro il levirato, e quindi un peccato solo contro la giustizia, e neppure alla condanna di onanismo in funzione antimessianica: chi pecca d’onanismo ritarda l’avvento del Messia, è come colui che uccide e deve essere ucciso, proprio come Ez e Onan.

Questa è l’antica interpretazione ebraica, seguita dai Padri, difesa dagli esegeti cattolici fino alla fine del secolo XIX, e che affonda le sue radici nei costumi babilonesi (38).

Le benedizioni di Giacobbe e le lodi per Giuda

Il capitolo è un grande poema di benedizioni, che ha però la forma dell’oracolo al cui centro vi è l’affermazione del primato assoluto di Giuda durante il regno di David nella città di Hebron intorno alla tomba di El Khalil (Abramo, “l’amico”), divenuta tomba di famiglia di tutti i patriarchi.

Non si tratta, perciò, di individui, ma di tribù; e la “situazione vitale” del testo non è più quella egiziana della storia di Giuseppe, ma quella palestinese posteriore alla conquista di Canaan.

L’autore, conformemente alla mentalità del suo ambiente, pensa che sia stato il patriarca ancestrale a creare la storia del suo popolo mediante la forza delle benedizioni e delle maledizioni. In realtà si tratta di epigrammi che caratterizzano la storia già accaduta delle singole tribù; insomma un poema tribale, religioso e profano insieme.

L’oracolo più importante riguarda la tribù di giuda, cui spetta “il tributo e l’obbedienza dei popoli”. In particolare il versetto 10 afferma il primato di Giuda, e la maggiore parte degli studiosi della Bibbia, sia Ebrei sia Cristiani, hanno riferito quelle parole alla realtà messianica. San Girolamo ha reso comprensibile questo senso messianico in chiave personale, sia traducendo con “dux” la parola ebraica che significa “bastone di comando”, sia collegando con il verbo “mandare” la parola che significa “colui al quale” e traducendo “qui mittendus est”, sia rendendo la parola “obbedienza” con “expectatio” (49).

La fine della storia di Giacobbe e di Giuseppe

Il libro delle “origini” si chiude con l’annuncio dell’Esodo. La storia biblica spinge sempre in avanti. Quello che è capitato spiega e motiva quello che capiterà, poiché colui che conduce la storia è Dio, e Dio crea sempre e fa sempre cose nuove.

Giuseppe muore all’età di centodieci anni, l’età ideale di ogni giusti egiziano, è imbalsamato e posto in un sarcofago in Egitto. Prima, però, si era fatto giurare che le sue ossa sarebbero state portate via dall’Egitto, quando Dio nella sua futura visita salvifica avrebbe di nuovo fatto salire i discendenti di Giacobbe alla terra che Egli aveva promesso con giuramento ad Abramo, Isacco e Giacobbe.

Passato, presente e futuro nella Bibbia non sono mai semplici successioni di stagioni, ma “memorie vive ed efficaci”, in cui il passato garantisce e norma il presente ed apre al futuro nella speranza. Forse per questo la parola usata per dire “sarcofago” è in ebraico la stessa che sarà usata per indicare l’arca dell’Alleanza, mai adoperata in altri passi per indicare una cassa di mummia.

Il sarcofago di Giuseppe è, dunque, uno scrigno sacro lasciato come pegno di una speranza che non muore.

La storia dei patriarchi, come quella intera della Genesi, si rivela alla fine come storia di fiducia e di fede in un Dio, che elegge gratuitamente per far partecipare alla realizzazione di un piano di salvezza, che si fonda sulla grazia e non sulle opere autonome dell’uomo.

Questo è sostanzialmente l’insegnamento di fondo, costante e ripetuto, che si deve ricavare quando si legge questo primo Libro della Bibbia secondo una lettura globale, che è uno dei criteri fondamentali della corretta lettura della Bibbia. E, di fatto, è già l’insegnamento di tutta la Sacra Scrittura.

Quando il redattore finale ripresentava questa antica storia, che è stata tramandata a viva voce come i ricordi di famiglia e poi fissata a poco a poco per iscritto, attraverso un processo lungo e complesso, mirava a far comprendere ai suoi contemporanei, che avevano visto crollare con l’esilio di Babilonia tutta l’economia mosaica fondata sulle opere della legge, che l’unica speranza dell’uomo e del popolo è di fondarsi sulla Parola-Promessa di Dio. E’ esattamente quello che, durante una seconda crisi del giudaismo, scriverà San Paolo ai Cristiani di Roma: “La promessa di essere erede del mondo non fu fatta ad Abramo e al suo seme in base alla Legge, ma in base alla giustizia che viene dalla fede” (Rom.4,14).

Cos’ appaiono i bei lineamenti del volto di Dio che attraverso la Bibbia ci è rivelato e l’uomo può sapere chi sia il Dio su cui appoggiarsi. Perciò, concludendo, può non essere inutile risentire, con gioia, i nomi con i quali questo Dio si fa chiamare lungo il corso di questa storia unica: El Shaddai (il Dio montagna, l’Onnipotente) che protegge come una roccia; Jahwè che si dona come un salvatore amico; Pachad che si lega come un parente; Elyon altissimo che crea il cielo e la terra; Olam che penetra nel profondo e vive nell’eternità (50).

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