Il Libro della Genesi: Capitolo 23 e 36

Gli ultimi fatti della storia di Abramo

Questi capitoli chiudono la storia di Abramo e aprono la breve storia di Isacco, tutta riempita in verità da quella dei suoi figli.

L’acquisto della grotta di Macpelàh per la sepoltura di Sara (23) segna l’inizio di un possesso fondiario della stirpe di Abramo e riceve un gran risalto perché è la promessa della terra che inizia a realizzarsi. Oggi sul posto a Hebron sorge l’imponente quadrilatero risalente e Erode il Grande, che custodisce le tombe dei patriarchi e delle loro spose, e che perciò è un santuario veneratissimo per Ebrei e Musulmani.

Il capitolo 24 è un vero affresco orientale, che rivela la fedeltà del clan dei patriarchi alla purezza del sangue, come è d’uso fra i nomadi sempre diffidenti nei riguardi della popolazione sedentaria.

I rapporti di Esaù e di Giacobbe fin dalla nascita (la lotta dei due gemelli nel grembo materno) sono il segno dell’ostilità che ha regnato tra i due popoli fratelli: gli Idumei, discendenti da Esaù (Edom), e gli israeliti, discendenti da Giacobbe (Israele).

La tradizione primitiva vanta l’astuzia di Giacobbe, e non rivela preoccupazioni di ordine morale per l’evidente inganno, e mette in ridicolo Esaù. La redazione finale riprova discretamente la menzogna, che poi è tutta suggerita dalla madre Rebecca, e mostra pietà per Esaù.

Questi giochi d’astuzia, tipicamente orientali, servono misteriosamente al piano di Dio, che ha eletto Giacobbe. Dio rimane sovranamente libero nelle sue scelte, e Antico e Nuovo Testamento lo ricorderanno (Mal.1,2ss; lettera ai Rom. 9,10-13).

Dio è capace di far servire al suo gratuito piano di salvezza anche quello che gli uomini compiono di male.

Il sogno di Giacobbe: la scala del cielo

Confluiscono anche qui due tradizioni, che tendono, per un verso, a rilevare il prestigio del santuario di Betel, per l’altro affrontano, mediante il genere letterario dei sogni, nato appunto presso i santuari, ove vivevano dei veri interpreti dei sogni, una visione che è in polemica con la religione di Babilonia: a Betel (casa di Dio) e non a Babel ( porta di Dio), verso cui Giacobbe è diretto, vi è la vera presenza protettrice di Dio. Qui ci sono gli angeli di Dio, cioè i ministri della sua corte; qui, perciò, Giacobbe dovrà ritornare per avere ancora la benedizione divina.

La scalinata che conduce al cielo fa pensare alle Ziggurat mesopotamiche, cioè a quelle grandi torri a piano, cui già ci si riferiva con l’episodio della torre di Babele (11). Ecco perché è difficile sottrarsi all’impressione che ci sia qui una voluta antitesi con quell’episodio: ciò che gli uomini non possono fare da soli, Dio lo fa per grazia. E’ Dio a gettare la scala, perché gli uomini sappiano che tra il cielo, pensato come residenza di Dio, e la terra non vi è separazione. Sia pure con il linguaggio provocatorio delle immagini si dà qui una risposta corretta alla domanda fondamentale di ogni religione: si può realmente incontrarsi con Dio? E Dio si lascia incontrare? Nello stesso tempo è ripetuta la dottrina costante e originale di tutta la Bibbia: l’incontro con Dio non è il risultato delle “opere” degli uomini, ma puro “dono di Dio”. Sono di fronte le due linee alternative di tutte le concezioni della salvezza dell’uomo presenti nella storia: l’uomo è salvato dalla sua sola libertà, o l’uomo è salvato dalla grazia. L’annuncio della Bibbia è: ”In principio vi è la grazia”.

Naturalmente questo discorso iniziato nella Genesi si chiarisce definitivamente nel N.T. dove, tra l’altro, si troverà scritto con chiara allusione a questa antica pagina: “In verità, in verità vi dico: vedrete i cieli aperti e gli angeli del Dio salire e scendere sul Figlio dell’Uomo” (Gv.1,51).

Il “sogno” di Giacobbe è diventato “realtà”.

Fondati su questo testo i Padri non temevano di vedere nella scala di Giacobbe una figura dell’Incarnazione del Verbo di Dio; e nella teologia dei giudeo-cristiani, oggi così meglio conosciuta grazie alle recenti scoperte soprattutto degli archeologi francescani di Terra Santa, è fatta l’identificazione della scala di Giacobbe con la croce.

La liturgia ripete le parole del patriarca in occasione della dedicazione di una chiesa e risente dette a sé nell’oggi della propria storia le parole di Betel:

Io sono con te.

Io ti proteggerò dovunque tu vada.

Non ti abbandonerò finché abbia compiuto ciò che ti ho promesso.

E soprattutto, la benedizione annunciata per la prima volta ad Abramo:

“Saranno benedette per te e per il tuo seme tutte le famiglie della terra” (28).

La federazione dei figli di Giacobbe

In questi capitoli il redattore finale riunisce tre cicli letterari per narrare il viaggio di andata e ritorno da Bethel a Harran. Il primo ciclo (29-31,2) riguarda le relazioni tra Giacobbe e il mondo dello zio Labano; il secondo (31,3-33,17) le relazioni tra Giacobbe e Esaù; il terzo (33,18-35,15) quelle tra i figli di Giacobbe e i Cananei di Sichem e di Bethel.

Gli episodi di questa storia sono in gran parte spiegati dal diritto sociale e matrimoniale di quel tempo e dagli usi e convinzioni popolari di quelle culture. L’arcaicità delle tradizioni è confermata anche dal fatto che alcuni comportamenti dei patriarchi saranno proibiti dalla legislazione mosaica successiva, come per il caso del matrimonio di sorelle (Lev.18,18ss).

Qui sottolineiamo soltanto due punti, particolarmente importanti per tutta la storia successiva perché riguardano le dodici tribù e il nome di Israele (29-35).

I dodici figli di Giacobbe

Per la prima volta compare il sacro numero di dodici. Questo sistema delle dodici tribù è passato attraverso diverse fasi. All’inizio il numero dodici è raggiunto contando Dina, la sorella, che poi sarà sostituita da beniamino nato successivamente in Palestina nelle vicinanze di Betlemme (35,16-20). Tutto è rappresentato come la storia di una famiglia; gli individui sono trattati come persone, a differenza del capitolo 49 e del capitolo 38 del Deuteronomio, dove gli stessi individui sono piuttosto gli antenati eponimi delle tribù costituite. Infine, quando Levi diventerà una tribù sacerdotale, il numero dodici sarà ugualmente mantenuto grazie alla introduzione dei due figli di Giuseppe, Efraim e Manasse.

Molti pensano che questo sistema, anche nella sua forma più antica, non sia potuto essere stabilito se non dopo la sedentarizzazione in Palestina. Però, anche se non si può negare che la storia delle future tribù abbia in qualche maniera influito sulla natura di alcuni individui (Dan, Neftali, Gad, Aser, figli di serve e capostipiti di tribù secondarie), pure sembra agli studiosi che si debba ammettere di essere davanti a vecchie tradizioni che rispecchiano un periodo preesistente all’insediamento in Canaan.

Il sistema delle dodici tribù avrà un’importanza permanente per tutta la storia biblica fino al N.T., per la concezione della Chiesa e la visione escatologica ( i 12 Apostoli, le 12 nazioni presenti a Pentecoste, le dodici porte della Gerusalemme celeste con i 144.000 segnati, che indicano l’immensa moltitudine sacra dei beati).

I nomi dei figli di Giacobbe alludono ai sentimenti di Lia e di Rachele, le madri ancestrali, soprattutto alla loro rivalità, attraverso etimologia popolari spesso oscure.

Anche nella storia di queste rivalità emerge il principio biblico della elezione gratuita: Dio dimostra la sua bontà verso la moglie trascurata (il testo dice “odiata” nel senso semitico di “amata di meno” ) da Giacobbe, Lia, che sarà resa feconda (è il tema della sterilità e della fecondità come dono di Dio che ritorna costante) e diventerà madre di Giuda, il quartogenito, da cui Davide, da cui il Messia.

Come prima s’era chinato su Agar e Ismaele (16,1-15), che si chiama così perché “Dio ha ascoltato” il dolore della madre; e poi si chinerà su Giuseppe venduto e imprigionato, il Dio biblico non misura sulla base di preferenze umane, ed è attento non soltanto alla “comunità sociale”, ma ad ogni singola persona.

Sempre, Egli rimane sovranamente libero di amare in direzione degli emarginati, senza essere catturato da nessuno per nessun titolo (29,31-30,24).

Giacobbe l’uomo che ha combattuto con Dio

Non si può negare di trovarsi di fronte a un episodio strano che lascia a prima vista l’impressione del leggendario e del mitologico.

Nel suo viaggio di ritorno da Harran Giacobbe, giunto al fiume Jabboq, tradizionale confine con la terra promessa, mentre ha già inviato alcuni doni al fratello Esaù, rimasto solo di notte, lotta con un essere misterioso. L’episodio è molto simile a quello descritto nel Libro dell’Esodo, 4,24-26, dove Dio assale Mosè di notte “per farlo morire”.

Con ogni probabilità confluiscono in questo racconto due temi, quello dell’attraversamento del fiume e quello della lotta con il nume protettore, conservato il primo dalla tradizione jahwista e il secondo dalla tradizione elogista. Lo sfondo culturale è quello dell’uso cananeo di consacrare i fiumi a numi tutelari e il genere letterario è quello classico della lotta del guerriero con il dio-fiume. Si pensi ad Ercole che lotta con il fiume Achelaus nella Beozia o ad Achille che lotta con i fiumi Xanthos, Simois e Scamander, difensori della patria contro gli invasori (Iliade XXI). Il redattore finale compone questi due racconti preisraelitici, eliminando ogni elemento idolatrino e soprannaturalizzando ogni mito. Il testo attuale, infatti, rimane volutamente incerto sulla natura dell’avversario, come rimane ambiguo sul vincitore.

Per l’elohista vince Giacobbe che sloga il misterioso rivale; per lo jahwista è Giacobbe a restare slogato all’anca attraversando il fiume. Questo attraversamento è presentato come una lotta notturna contro l’Angelo di Dio, protettore del primogenito Esaù. Giacobbe pur restando azzoppato, non è morto, contro la credenza popolare comune (si è scontrato contro la divinità faccia a faccia ed è ancora vivo, il che spiega il nome del santuario di Fanuel che significa “davanti a Dio”) e per rammentare questo fatti gli Israeliti non mangeranno il nervo sciatico, quasi interdetto riparatore.

In questo passaggio del confine al di là dello Jabboq è affermata in favore di Giacobbe la sostituzione definitiva nei diritti di primogenitura nei confronti di Esaù e può appropriarsi di tutte le qualità racchiuse nel nome nuovo di Israele. Il patriarca non si chiamerà più Giacobbe, o soppiantatore del fratello, ma Israele, perché ha lottato con Dio. Tuttavia per analogia con mani simili, Dio è il soggetto e alla lettera il nome deve significare: Dio lotta, Dio è forte.

L’episodio segna una svolta decisiva nella storia di Giacobbe: proprio la vittoria si concretizzerà anche per Giacobbe nel distacco da tutte le sue vedute umane e nell’accettazione senza riserva delle vedute divine. Già l’autore del Libro della Sapienza (10,12), lo sottolineava: “La Sapienza gli porse vittoria in aspre lotte perché sperimentasse, che di tutto trionfa la pietà”. Fino ad allora il patriarca aveva creduto di poter ottenere con dei mezzi umani, forza, lavoro, astuzia, la realizzazione delle promesse ricevute; procedimenti, anche riprovevoli, non gli ripugnavano (27); egli saprà ormai che il soccorso divino ottenuto con la preghiera gli assicurerà in maniera più efficace il trionfo.

“Così questa scena ha potuto diventare l’immagine del combattimento spirituale e dell’efficacia d’una preghiera insistente” (S.Girolamo).

Questo senso letterale e questa applicazione che legittimamente se ne ricava bastano per rendere ammirevole, qui e altrove, la trasformazione che la Bibbia opera sugli elementi estranei che essa incorpora nella storia della rivelazione.

L’incontro amichevole di Giacobbe con Esaù chiude questa storia e chiude il ciclo dei loro rapporti e della loro rivalità. Esaù si tuffa nel suo deserto e il redattore, finito di narrare un blocco positivo (quello della promessa a Giacobbe), elimina, come ha già fatto per Ismaele (25,12-18), anche Esaù dalla prospettiva della sua storia della salvezza.

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