La predicazione del Regno di Dio

Annuncio ed esigenze

Osservazioni di carattere generale

I passi del cammino che ci apprestiamo a percorrere sono scanditi sul programma della predicazione di Gesù, che nella forma più completa è presentata da Mc.1,15: “Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo”. Si può affermare che la proclamazione dell’imminente arrivo del regno di Dio costituisce il germe del messaggio evangelico e che la risposta mediante la fede, la penitenza e la conversione sono l’avvio ad una vita pienamente rispondente ad esso. Una proclamazione e un invito, la notificazione di un avvenimento divino e l’esigenza di una risposta umana. Dunque nel N.T. l’azione di Dio si presenta come una richiesta per l’uomo; dal messaggio nasce un appello. Anche l’ordine è rigoroso: dapprima opera Dio e quindi l’azione divina obbliga l’uomo. Come non vi è moralismo puro nel N.T., così neanche una pietà indipendente, separata dall’agire dell’uomo.

Ma che cosa si intende per regno? Che significa proclamare il prossimo avvento? In quale senso la consapevolezza di ciò si traduce in impulso ad agire? La risposta a questi interrogativi ci introduce nel vivo del messaggio di Gesù.

L’espressione “regno di Dio” o “regno dei cieli” (preferita da Matteo, il quale la impiega in conformità con l’uso linguistico del tardo giudaismo, che esprimeva la propria riverenza verso Dio anche evitando di pronunciarne il nome) è una metafora con la quale già nell’A.T. si vuole attribuire a Dio una funzione che in qualche modo rassomiglia a quella di un sovrano, salvo restando che Dio esercita il proprio dominio come un sovrano perfetto, ben lontano dai limiti d’ogni genere che si riscontrano nei monarchi dell’antico oriente.

Che il cuore stesso del messaggio neotestamentario sia presentato con una metafora, non deve recar meraviglia. Infatti, nel parlare del rapporto dell’uomo con Dio il ricorso al linguaggio figurato è inevitabile, poiché tale rapporto non può essere descritto in se stesso, ma (come ogni realtà non direttamente sperimentabile) si può esprimere solo con immagini tratte dall’esperienza. Nel N.T. tali immagini sono usate secondo il gusto e l’educazione dei singoli scrittori e conformemente alle esigenze del momento. Il loro grande numero e il loro continuo variare è in proporzione all’assiduo ritorno del pensiero centrale, che è appunto quello del rapporto che si instaura tra l’uomo e Dio. Così tale incontro, nuovo e definitivo, è detto ora salvezza (Rom.1,16), ora Redenzione (Ef.1,7), oppure giustificazione o giustizia (Rom.10,4), vita eterna (Gv.3,15), vita di Gesù (2 Cor.4,10), vita in Cristo (Rom.6,10), vita secondo lo Spirito (rom.8,13) o vita semplicemente (Gv.10,10). Ciascuna di queste metafore pone l’accento su un aspetto della nuova realtà. Tra tutte, quella del regno è la più usata ed è anche quella che propone la tematica più vasta.

L’espressione “regno di Dio” e l’equivalente “regno dei cieli” è mutuata dall’A.T., ma nel N.T. si presenta con un contenuto notevolmente rinnovato, anche se ben riconducibile al modulo veterotestamentario. Nell’A.T. l’espressione “regno di Jahwé” indica direttamente la sovranità divina su Israele e sul mondo. Indirettamente poi, e quasi con valore espressivo, designa pure l’attiva promozione di questa sovranità, fatta mediante l’esercizio del “giudizio divino”, cioè riportando assiduamente ogni cosa alla giusta relazione con Jahwé, poiché tutte le sue vie sono giudizio (Deut.32,4; Is.40,14). Sovranità e giudizio sono, dunque, i due momenti complementari che costituiscono il regno di Dio. Essi passano entrambi nella letteratura giudaica. Ma nelle due componenti di questa è messo maggiormente in rilievo rispettivamente il giudizio (nell’Apocalittica) e la sovranità (nei rabbini).

Gesù sta più vicino alla linea dell’apocalittica. Nelle sue parole, infatti, l’idea della sovranità divina è bensì presente, ma di rado e in maniera inerte, mentre l’idea del giudizio divino vi assume nettissimo rilievo e diviene una proclamazione, apparendo sotto un gran numero di movenze, tutte intese a sottolineare l’importanza di tale giudizio e l’urgenza di tenerne rigorosamente conto. Con la venuta di Gesù e la sua attività si rende presente il regno di Dio tra gli uomini: il tempo escatologico, cioè l’epoca finale della salvezza, è giunto, è adempiuto. Cristo realizza le profezie veterotestamentarie che annunciavano una nuova alleanza tra Dio e l’umanità e in modo particolare quelle del libro d’Isaia, che personificava l’alleanza e presentava il servo di Jahwé come nuova alleanza e come colui sul quale era sceso lo Spirito di Dio.

Regno come realtà in tensione tra presente e futuro

L’affermazione di Gesù di essere il Messia sta per lui in stretto rapporto con il suo annuncio che il regno di Dio è vicino. La sua persona, la sua parola e opera segnano il tempo del compimento. Non però nel senso in cui l’attendeva l’A.T.: il tempo del compimento non è ancora il tempo della pienezza. Il tempo della salvezza è sì giunto, è iniziato, ma non è ancora il tempo della pienezza: la realizzazione piena della salvezza è rinviata. Il regno appare talvolta come presente, ma ciò non impedisce alle fonti di presentarlo anche come futuro.

Il regno di Dio è presente: “Se invece io scaccio i demoni con il dito di Dio, è dunque giunto a voi il regno di Dio” (Lc.11,20; Mt.18,28). Gesù non potrebbe asserire in maniera più perentoria che il regno è una realtà attualmente operante. “Il regno di Dio è tra voi” (Lc.17,21), in polemica con gli Zeloti e i Farisei. Il contrasto con i suoi interlocutori riguarda la diversa concezione del tempo del regno (ancora da venire per gli interroganti, già presente per Gesù), ma esso riguarda ancor più la concezione del ruolo che riguardo al regno giocano le disposizioni dell’uomo. Per le varie tendenze del giudaismo, l’uomo ha una parte attiva nel determinare l’avvento, mentre per Gesù nessun altro vi può fare nulla, se non Dio soltanto. Sembra dunque che la connotazione temporale (regno presente – regno futuro) non sia la sola ad entrare in gioco, ma si intrecci con il dato teologico della esclusiva funzione di Dio nel promuovere la sua opera. Si tratta di due tesi che non solo si incrociano, ma anche si gerarchizzano, così che la prospettiva temporale risulta subordinata a quella teologica. Non vi è dubbio, quindi che per i vangeli il regno di Dio è una realtà già calata nella storia.

Ma questa affermazione si allinea con sorprendente naturalezza accanto alla dichiarazione che esso deve ancora venire e che verrà in un futuro ravvicinato: il regno di Dio nella potenza e nella gloria è ancora futuro anche nella predicazione di Gesù. Esso è dunque presente e ancora non presente: presente nella persona del Messia, nella sua attività salvifica, ancora non presente come regno cosmico della pace e della gloria. Ma tra questo inizio e la fine, tra questo “penultimo tempo” e la pienezza finale esiste una connessione interiore, un incoercibile dinamismo. L’ultimo atto della realizzazione della salvezza è incominciato. Dio stesso porta a termine la sua opera nonostante le opposizioni del male. “Promessa e compimento sono perciò connesse intimamente in Gesù e si condizionano reciprocamente in quanto la promessa attinge la sua certezza dal compimento già effettuatosi in Gesù Cristo e perché il compimento provvisorio perde il suo carattere di scandalo soltanto nella consapevolezza del sussistere ancora della promessa”. Ci sono numerosi detti di Gesù che affermano che il regno, giunto con lui, continua ad essere atteso come prossimo anche durante la sua vita. Anche durante la prima generazione cristiana si assiste al medesimo fenomeno: il regno, si afferma, è imminente ed è in pari tempo già attuale. Realtà presente e attesa coesistono.

Questa è l’aporia del N.T.: il cuore stesso del suo annuncio appare con un’estrema concretezza, ma presenta i tratti sfuggenti di una realtà che non è mai interamente posseduta: “In verità vi dico: vi sono alcuni qui presenti che non morranno prima di avere visto il regno di Dio” (Lc.9,27; Mc.9,1; Mt. 16,28); “Quando vi perseguiteranno in una città fuggite in un’altra; in verità vi dico: non avrete finito di percorrere le città d’Israele, prima che venga il Figlio dell’uomo” (Mt. 10,23); “In verità vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto ciò avvenga” (Mc.13,30; Mt.24,34; Lc.21,32 – discorsi escatologici); “Venga il tuo regno” (Mt.6,10; Lc.11,2).

Di fronte a questa prospettiva del regno futuro si registrano nell’A.T. due prese di posizione. La prima (propria del temperamento apocalittico) va alla ricerca del “quando”, e in genere delle circostanze in cui l’attesa avrà il suo compimento. L’altra (tipica dello spirito profetico) lascia da parte ogni domanda o ricerca curiosa e si appunta interamente sulla speranza come tale. Ognuno di questi atteggiamenti si è espresso in una propria letteratura. Quella apocalittica si è abbandonata ad ogni sorta di speculazioni e di curiosità intorno ai particolari dell’avvento del regno, spingendosi fino al tentativo di calcolarne i tempi e momenti (Zac.4,9-16s; Sof.3,15; Abd.21). Su un latro versante si pone invece la letteratura profetica, la quale, mentre conferma la solida speranza nell’avvento del regno di Dio nonostante le attuali avversità, la ribadisce non ricorrendo a qualche artificio letterario, ma col semplice impiego della formula “alla fine dei giorni”, o di altre simili. L’espressione ebraica corrispondente ha accezioni alquanto diversificate. Quando è usata per designare la fine dei tempi e il pieno avvento del regno di Dio assume il suo significato forte, indicando non semplicemente un tempo successivo a quello in cui lo scrittore vive, ma anche una condizione “diversa” da quella che si è soliti vedere. “La fine dei giorni” può essere intesa come una specie di spartiacque stilistico che distingue la contenutezza delle rappresentazioni profetiche dall’esuberanza dell’apocalittica.

Questa polarizzazione degli atteggiamenti va tenuta presente, perché ci può offrire una pista di non poca importanza nell’approccio al pensiero di Gesù. Il N.T. infatti è maggiormente legato alla prospettiva profetica pur sottolineando più volte l’idea del giudizio, prerogativa della prospettiva apocalittica, senza però la preoccupazione di chiarire i tempi e i modi dell’avvento del regno di Dio. Il ricorso alla categoria del giudizio diviene tanto prevalente che essa finisce per affiancarsi a quella del regno e anche a sostituirvisi, specialmente in san Paolo, che del regno parla relativamente poco, mentre ricorre con frequenza all’immagine del giudizio, o mediante l’uso del termine stesso di giudizio o giudicare, oppure con varianti del medesimo. E’ importante notare come l’annuncio dai toni sereni che riveste quando ha quale oggetto diretto il regno, passi invece ad assumere toni drammatici di grandiosa e misteriosa urgenza quando è fatto con il ricorso al giudizio (tribunale di Dio: Rom.2,1-11; 14,10; Giac. 4,12; 5,19; tribunale di Cristo: 2 Cor. 5,10; At. 10,42; Ap. 14,17). Anche Mt. 25,31-46, come pure di provenienza apocalittica è anche l’immagine del banchetto escatologico, al quale alcuni sono ammessi, mentre altri ne restano r9igorosamente esclusi (Mt.22,11-13; 25,10-12) L’aspetto minaccioso del giudizio è legato anche all’alone di incertezza che lo circonda (Mc.13,28-30; Mt.24,36; Mc.13,32).

Il pensiero neotestamentario nel suo insieme gravita dunque intorno alla severità del giudizio. L’incertezza che circonda il momento del suo arrivo è anch’essa un elemento di spicco, ma sembra sottolineata ai fini di inculcare l’estrema serietà e il carattere assolutamente decisivo del giudizio medesimo; non pare, invece, che abbia particolare risalto per se stessa, come elemento indipendente. Essendo integrativo nell’insieme del messaggio, l’elemento cronologico può presentarsi alquanto oscillante, perché in tutte le sue movenze è idoneo a porre in risalto l’importanza decisiva del regno di Dio.

Annuncio del regno e del giudizio e impegno morale

Si registrano varie teorie interpretative dell’imminenza del regno e del giudizio e del suo legame con l’impegno morale proposto da Cristo. Una rassegna critica di tali teorie però ci costringerebbe ad allargare troppo l’orizzonte delle nostre riflessioni, per cui ci limitiamo ad accennare alle due correnti principali.

Escatologia conseguente – etica interinale: Gesù si sarebbe semplicemente ingannato sul prossimo avvento del regno di Dio. Le parole di Gesù circa la prossimità del giudizio vanno prese alla lettera, il che vuol dire che sia lui sia la prima generazione cristiana hanno preso un abbaglio. L’etica proposta da Cristo non è quindi un’etica fatta per una comunità destinata a vivere per dei secoli, ma solo dei dettami adatti per tempi d’eccezione, cioè un’etica interinale. Proprio perché convinto dell’estrema urgenza di rispondere con una condotta di vita adeguata alla serietà dell’ora, avrebbe lanciato un appello morale di assoluto impegno e severità, proponendo quella che viene chiamata etica interinale.

L’interpretazione che minimizza la componente cronologica, che non prende cioè alla lettera le indicazioni cronologiche di Gesù. Le indicazioni di tempo che si leggono nel N.T. sarebbero, in sostanza, niente più che un mezzo per sottolineare la serietà dell’annuncio del giudizio. A noi basta sottolineare che Gesù sembra tenere come criterio costante quello di eludere le domande curiose di qualsiasi tenore. Egli non accetta mai di entrare nelle questioni riguardanti il come e il quando del regno di Dio, ma si limita a battere il tasto dell’estrema serietà del suo appello. Quindi Gesù-

  • Annuncia la presenza del regno di Dio;
  • Dichiara che il regno di Dio deve ancora venire;
  • Afferma l’imminenza di questa venuta rifiutandosi di precisare il momento e i modi (Quanto poi a quel giorno e a quell’ora, nessuno li conosce, neanche gli angeli del cielo e neppure il Figlio, ma solo il Padre. Mc.13,32).

La sottolineatura dell’imminenza dell’avvento del regno di Dio riveste sulla bocca di Gesù il carattere di una provocazione: l’attesa si deve esprimere in frutti di opere e non si deve esaurire in sterili atteggiamenti. La tensione tra il compimento parziale e l’attesa della fine, tra presente e futuro del regno di Dio, è situazione feconda per l’imperativo morale: l’impegno morale del cristiano si colloca tra questo inizio (Il regno di Dio è giunto) e il compimento futuro. L’annuncio escatologico è fatto in vista direttamente della provocazione etica. In generale, si può dire che l’esortazione morale discende per via diretta dalla proclamazione escatologica e si polarizza intorno al binomio “vegliare ed essere sobri”. E’ uno degli scopi del discorso escatologico del Signore (Mc.13 e passi paralleli) quello di richiamare all’impegno e alla vigilanza. La medesima esortazione alla vigilanza e alla prontezza riferisce Luca in altri passi (12,35-40) e la necessità della preparazione di fronte a ciò che accadrà, cioè la grande festa di Dio, viene sottolineata da Matteo con la parabola delle vergini stolte e prudenti (25,1-13). Questa parabola, come tutte le altre che rappresentano il regno di Dio sotto l’immagine di un banchetto o di una solennità nuziale, contengono l’esortazione: tenetevi pronti e mostratevi degni di essere nel numero dei partecipi. Anche là dove il regno di Dio viene presentato quale dono di Dio e largizione di salvezza, viene promesso soltanto a chi è dotato di particolari sentimenti e ha un atteggiamento ben disposto, come appare soprattutto nelle beatitudini (Mt.5,3-8). Soltanto se si ama il prossimo in maniera operosa, si può ereditare il regno di Dio (Mt.25,34ss).

L’annuncio della imminente venuta del regno di Dio si trasforma quindi in una esortazione costante e insistente alla vigilanza e all’attesa, alla sobrietà e alla prova nel mondo, all’amore per Dio e per il prossimo, e quindi, più propriamente, in una aspettativa continua.

La predicazione di Gesù non è stata motivata dall’attesa immediata in senso cronologico, ma dalla situazione della storia della salvezza determinata dalla comparsa della sovranità divina del Signore e dall’imminenza dell’evento finale del giudizio, che sovrasta sempre gli uomini e li mette di fronte alla decisione qui e adesso. Il motivo specifico dell’imperativo morale è costituito dall’opera salvifica di Dio, sperimentabile nella manifestazione e azione di Gesù, dalla sua rivelazione storico-escatologica, che garantisce il compimento futuro.

In questa prospettiva fondamentale deve essere interpretato anche l’ethos di Gesù. Il tratto specifico delle istanze avanzate da Gesù consiste nel radicale riferimento alla venuta del regno.

Teologia dell’Alleanza Antica e Nuova – Indice