Limiti e pericoli della legge veterotestamentaria

L’attaccamento alla legge costituisce la grandezza del giudaismo. Tuttavia la legge non era stata il dono più grande, né era per se stessa fonte di salvezza. Tutta la storia dell’elezione gratuita da parte di Jahwé per Israele e la storia della fedeltà di Jahwé al suo popolo nonostante i suoi numerosi peccati stava a dimostrare che il dono più grande e la vera fonte della salvezza non era la Torah, ma l’amicizia di Dio fedele e generosa, la sua giustizia, in cui Israele ha creduto o era chiamato a credere.

La legislazione giudaica era un’espressione della volontà di Dio. Ma essa era legata, almeno in parte, alle condizioni socio-culturali e religiose del tempo, anzi di vari tempi. Essa era quindi legata alla parziale e progressiva comprensione che Israele aveva avuto del suo Dio e della sua volontà. Già l’A.T. stesso lasciava intuire questa relatività di buona parte della legge mosaica: il diverso rilievo dato dal “desiderio” della donna del prossimo nel decalogo di Es.20 e in quello di Deut.5; la richiesta profetica della purità del cuore fatta dai profeti rispetto a quella delle purità levitiche; la richiesta dell’herem (o distruzione totale e sacra) nei riguardi dei popoli nemici quale condizione per la fedeltà a Jahwé (Deut.20,10-18) e la storia d’Israele, in cui il popolo eletto non solo ha imparato che poteva essere fedele al suo Dio anche quando gli altri compivano herem nei suoi confronti, ma che, in realtà, Dio voleva l’eliminazione dal suo popolo degli dei e del culto idolatrino e non necessariamente delle persone (Deut.7,1-6); caso analogo quello che risulta dal confronto tra 2 Sam.21,1-4: strage dei discendenti di Saul come voluta da Dio e Deut.24,16: Dio proibisce di mettere a morte i figli a causa dei padri. Anzi Geremia 7,21-23 relativizza tutta la legislazione rituale, dichiarandola non espressamente voluta da Jahwé o comunque secondaria rispetto all’ascoltare la sua voce: “Dice il Signore degli eserciti, Dio di Israele: Aggiungete pure i vostri olocausti ai vostri sacrifici e mangiatene la carne! In verità Io non parlai né diedi comandi sull’olocausto e sul sacrificio ai vostri padri, quando li feci uscire dall’Egitto. Ma questo comandai loro: Ascoltate la mia voce! Allora Io sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo; e camminate sempre sulla strada che vi prescriverò perché siate felici”.

Essendo una legge che voleva dirigere tutta la vita e con precetti per i singoli suoi momenti, essa diventava o, meglio, poteva diventare ossessiva e gravosa, soprattutto se ne perdeva il senso di legislazione di viaggio e di servizio a valori essenziali. Inoltre essa generava un ordinamento ierocratico molto rigido e chiuso: Jahwé è non solo il Dio da adorare, ma anche il legislatore, l’ordinatore del vivere civile, del diritto e delle pene, delle strutture sociali e politiche: insomma era anche il sovrano del suo popolo. Diventare un adoratore di Jahwé implicava accettare tutta la legge, tutta la sua sovranità e le strutture ad essa collegate. Praticamente ogni cultore di Jahwé doveva essere ebreo o farsi tale. La santità di Dio e del suo popolo generava facilmente la separazione dell’israelita e degli adoratori di Jahwé dal resto dell’umanità. Espressione classica di questa separazione è il giudaismo del post-esilio, specialmente quello del tempo di Esdra (Es.9,10). Già alcuni libri dell’A.T. (Genesi, Ruth, Giobbe, Isaia, Giona e Sapienza) cercano di limitare questo rigidismo nazionalistico, pur riconoscendo l’elezione e la missionarietà di Israele. Più decisamente ancora il N.T. romperà questo limite con la riscoperta della fede – aperta a tutti – come fonte di purità non di tipo rituale o giuridico, ma del cuore (At.15,9). E il cuore non ha né colore, né razza, né nazionalità (Gal.3,26-29; Ef.2,11-22).

Il senso di separazione di Israele dagli altri popoli appare nella stessa legislazione sociale, pur così interessante e educativa anche per noi. “Ama il tuo prossimo come te stesso” diceva Levitico 19,18; ma il prossimo da amare è il connazionale, gli altri sono nemici o stranieri. Nonostante i correttivi presenti nella legge mosaica (Es.23,3-4; Deut. 21,10-14 e 23,8-9), forse nello stesso giudaismo rabbinico e più ancora nei libri “universalistici” citati sopra, il senso di chiusura verso gli altri rimase. Netto sarà l’invito a superare i confini del prossimo, cioè chiunque gli si faccia prossimo sulla sua strada, chiunque gli faccia da buon samaritano; anzi dovrà egli stesso farsi prossimo, cioè amico misericordioso verso qualsiasi altro viandante come lui, fosse anche un nemico: “Amate i vostri nemici…Amatevi come io vi ho amato”.

Come legislazione di un popolo in cammino verso la Nuova Alleanza, verso la piena attuazione del dono di un cuore nuovo e di uno spirito nuovo, di una circoncisione del cuore, derivava a tutta la legge una intrinseca relatività e caducità. Per cui, quando san Paolo affermerà che la legge fu un semplice “pedagogo” che doveva condurci a Cristo e alla scoperta del dono del suo Spirito (Gal.3,24; Rom.7), non rivelava una tesi del tutto nuova, ma che era già stata intuita dai profeti e dal Deuteronomio. Tuttavia, pur con i suoi limiti, la legislazione mosaica si presenta ancor oggi con grandi fasci di luce. Abbiamo visto infatti che essa nascondeva in sé idee preziose e valori tutt’altro che disprezzabili. Per questo Gesù non venne ad abolire, ma ad adempiere la legge stessa.

L’attaccamento alla legge, si è detto, costituisce la grandezza del giudaismo. Tuttavia l’osservanza della legge, quando non tiene conto dei limiti in essa inscritti, comporta parecchi pericoli.

Il primo è quello di mettere sullo stesso piano i precetti religiosi e morali, civili e cultuali, senza ordinarli correttamente intorno a ciò che dovrebbe esserne il centro: il comandamento fondamentale “Non avrai altro Dio di frante a me”. Cose accessorie vengono fatte assurgere a punti di primaria importanza, mentre punti importantissimi vengono svuotati di contenuto.

Il secondo pericolo, ancor più radicale, è quello di fondare la giustizia dell’uomo di fronte a Dio non sulla grazia divina, ma sull’obbedienza ai comandamenti e sulla pratica delle buone opere, come se l’uomo fosse capace di giustificarsi da solo. Lo sganciamento delle leggi dalla realtà dell’alleanza, l’isolamento e l’assolutizzazione di ogni singola legge conducono fatalmente a considerare l’osservanza della legge come una specie di piattaforma superba su cui l’uomo pretende di erigersi per un “do ut des” nei suoi rapporti con Dio.

Tutte le leggi non vengono più viste come dono del Dio dell’alleanza da accettare e da vivere in spirito di riconoscenza, ma come una occasione per una orgogliosa prestazione etica da parte dell’uomo, che se ne serve come di uno sgabello per innalzarsi al di sopra degli altri uomini ed esigere da Dio la relativa ricompensa.

Risulta quindi evidente il terzo pericolo: l’osservanza della legge, di tutta la legge, anche nei suoi più piccoli e secondari aspetti, può diventare il mezzo di cui ci serve per distinguersi dagli altri, per elevarsi al di sopra degli altri ritenendosi più giusti di loro.

Se si dimentica la realtà dell’alleanza dalla quale la legge scaturisce e quindi l’infinita superiorità di Dio, la gratuità della salvezza da lui operata, al posto dell’amore riconoscente e rispettoso subentra una irrispettosa mentalità giuridica: ciò che conta è l’ottemperanza meramente esteriore della legge e non l’ubbidienza in timore ed amore ad una persona, a Jahwé che gratuitamente opera la salvezza dell’uomo, alla quale si partecipa osservando la sua legge che è legge di libertà e di vita.

Teologia dell’Alleanza Antica e Nuova – Indice