Il Libro dell’Esodo: Meditazione 22


Capitoli 35, 1-35 e 36, 1-7.

Siamo di fronte ad un doppione, cui l’episodio del vitello, che abbiamo precedentemente meditato, dà carattere narrativo. Non siamo di fronte cioè a pure regole ripetute, ma al racconto di come vanno i rapporti tra Dio e il suo popolo.

Dio dà delle disposizioni, l’uomo prima disobbedisce e poi esegue quanto gli è stato proposto. Non a caso nei capitoli 25-31 c’è sempre il verbo “farai”, in 35-39, invece, s’insiste nel dire “fece”.

Il doppione ha perciò un significato importante: dopo l’incidente del vitello, si afferma che il progetto divino ha ricevuto la sua attuazione concreta e che quindi, c’è sempre per gli uomini, una possibilità di ritorno, ciò che i rabbini chiameranno tesubà e noi “conversione”, dalla disobbedienza e dall’infedeltà.

Certamente è Dio stesso che, per le insistenti preghiere di Mosè, ha dato questo spazio, ma il fatto di leggere adesso che quelle regole sono state osservate è, di per sé, un motivo di grande speranza per tutti noi.

Si può imparare ad obbedire al Signore.

Vediamo ora, senza perdere di vista la cornice narrativa in cui la descrizione del santuario è inserita.

Vediamo alcuni dettagli.

Prima di iniziare la descrizione della costruzione vera e propria, troviamo una disposizione che non riguarda lo spazio e la sua gestione, cosa questa che, appunto è rappresentata dal santuario, bensì il tempo.

Vi è, infatti, una ripresa della legislazione sul sabato (vv.1-3).

E’ tipico della religione biblica riconoscere più importanza al tempo che allo spazio. L’uomo può, infatti, misurare, tagliare, confinare, recintare lo spazio, in certo modo “padroneggiarlo”; il tempo invece è unicamente nelle mani di Dio.

Questa disposizione vuole perciò riaffermare la signoria assoluta di Dio, su cui l’uomo non può mettere le mani attraverso il dominio dello spazio, perché il Signore, l’Eterno, indiscutibile padrone del tempo, non è “confinabile” in alcun luogo.

Si capisce così la ripresa del comando sabbatico: poiché nessun santuario umano non sarà mai a misura divina, nessun lavoro, anche “sacro”, come questa costruzione, autorizza a violare la santità del tempo divino.

Si procede poi alla raccolta dei materiali (35,4 e 36,7).

Per due volte, in questa lunga sezione, si parla di “cuore generoso” (nadib, 35,5.22, proprio all’inizio e alla fine della sezione in una sorta d’inclusione). Il termine nadib, non dovrebbe essere però tradotto propriamente con “generoso”, quanto piuttosto “volitivo”. Compare per esempio nel Salmo 51,14, in cui chi prega, dopo aver ammesso il proprio peccato, chiede al Signore uno “spirito” (ruah nadib, vale a dire “fermo”, deciso alla fedeltà dopo il pentimento).

Dopo l’episodio del vitello, il popolo è cambiato ed è molto diverso. Il loro cuore è ora spinto all’opera del santuario, con spontaneità e decisione.

Se per noi la spontaneità è spesso solo un impulso momentaneo, qui si vuol porre l’accento che la donazione è avvenuta liberamente, ma con la determinazione di arrivare in fondo all’opera intrapresa. Tanto che Mosè è costretto a porre fine alla raccolta (36,3b-7) perché i doni sono eccedenti rispetto alla necessità.

Ugualmente nell’arco del cap.35 compare tredici volte l’aggettivo “tutta/tutti/tutte”, la maggior parte delle quali ai vv.20-29: benché il fatto di prestarsi per il santuario sia volontario, il testo riconosce la presenza e la forza di una volontà comune attorno a quest’opera, attraverso la quale il popolo si costruisce e s’identifica come comunità.

E’ un po’ quello che accadeva nell’Europa del medioevo quando si costruivano le grandi cattedrali o anche quando, in tempi più recenti, piccole comunità rurali o montane erano disposte a tutto per costruire o restaurare le loro chiese.

All’interno del popolo, tutto impegnato dunque in quest’impresa, si distinguono alcuni personaggi. Alcuni mantengono l’anonimato, come le donne dei vv.25-26, poiché filare era arte consueta per qualunque madre di famiglia che, a sua volta, la passava alle figlie.

Altri invece sono identificati per nome, come Besal’el (Es.31,2; 35,30; 36,q1.2; 37,1; 38,22), che diventerà nella tradizione ebraica l’artista per antonomasia, protettore degli artisti fino ad oggi, tanto che a Gerusalemme l’Accademia delle Arti Figurative si trova in via Besal’el.

La differenza è comprensibile: un certo artigianato esige e suppone tecnologie specifiche che diventano “arti” riservate con veri e propri segreti da custodire.

Tutti costoro sono comunque “saggi di cuore”, termine che ricorre più volte, cui è attribuito il titolo di “saggio” ( takam), perché nell’artigianato s’incontrano l’abilità manuale, l’elaborazione di tecniche nuove sui materiali, il gusto estetico, la percezione della cultura del proprio tempo e del proprio popolo, la volontà di esprimerla: è dunque una sintesi culturale molto complessa e raffinata, che si opera a partire, magari, da strumenti e materiali modesti, ma sapientemente, appunto, compresi e usati.

Tale “saggezza” che comporta, come dicevo, la manualità, ma alla quale la manualità da sola non basta, è attribuita allo “spirito di Dio” (35,31; ruah èlohim).

Non è pertanto difficile vedere in controluce al popolo mutato nel cuore e a questi personaggi un modello di chiesa, in cui sono rispettate e valorizzate le attitudini delle persone, ma in cui comuni sono il progetto e l’impegno per la costruzione.

Forse questo capitolo, come quelli che lo seguono e il loro precedente doppione, sono di faticosa lettura. Ma se pensiamo ad un accampamento di clan di beduini che si applica ad un’impresa di questa portata, possiamo avere diversi motivi di riflessione.

Il santuario, come struttura, presenta già quella caratteristica strutturale del tempio di Gerusalemme. Le sue dimensioni, rispetto a quelle del tempio sono la metà. Dunque, qualcosa di abbastanza grande in ogni modo.

Dato che noi abbiamo un’idea molto relativa della vita nomade beduina (non è certo un campeggio, ma neppure un campo nomadi come quelli che conosciamo; vedere inoltre per approfondimento la “storia del popolo ebraico”) ci riesce difficile immaginare la scena di un gruppo di tende nere, aperte in pieno deserto del Negeb, in cui le persone si applichino ad altro che non sia la sopravvivenza.

In realtà a queste persone basta poco per vivere, mentre è molto importante per loro quel che a noi parrebbe superfluo come la festa e il culto.

Si spiega in questo modo il dilungarsi sui materiali preziosi “investiti” nella costruzione del santuario, e perciò in certo modo “persi”, anziché in traffici commerciali.

L’opera del santuario è all’insegna della massima gratuità, non già del profitto, come vero ogni atto di culto, ed il popolo, che si trova ora con il cuore volitivo s’impegna gratis e, finalmente, a favore dell’Invisibile, che aveva ripudiato nell’episodio del vitello.

Verso la fine dell’avventura dell’Esodo ci troviamo di fronte quindi ad un grande momento di conversione, benché ci sia raccontata indirettamente.

Non trovo confessioni di peccato, né liturgie di espiazione, ma una nuova mentalità, che si manifesta in un impegno.

La grande idolatria del vitello, in cui si ricapitolavano un po’ tutte le resistenze alla liberazione divina e le ribellioni nel deserto, l’ordalia che ne è seguita, le preghiere di Mosè, la promessa divina di essere ancora con il popolo, hanno condotto gli schiavi fuggitivi dall’Egitto ad una nuova consapevolezza. Di se stessi e di Dio.

So che meditare la lettura dell’Esodo è faticosa e lunga , tuttavia fin da ora posso ben capire come mai alcuni padri della chiesa, a cominciare da Origene, abbiano visto in questo lungo è tormentato racconto, tutt’altro che lineare, il modello per interpretare la vita della chiesa e la vita dei fede di ciascun credente.

La nostra vita si muove, infatti, nonostante le contrarie apparenze, come l’esistenza dei nomadi da una tappa all’altra, da un tradimento ad una conversione, senza illudersi sulla definitività della propria adesione a Dio, quanto invece nella certezza della fedeltà di Lui che, tappa dopo tappa, non viene mai meno.