Il Libro dell’Esodo: Meditazione 21

Capitolo 34, 1-35.

Ancora una volta abbiamo di fronte un capitolo complesso, in cui compaiono temi e motivi già visti, almeno in parte, e variamente intersecati.

La prima impressione è perciò quella di trovarsi di fronte ad una serie di doppioni.

Es.34 è del resto e in buona sostanza, la versione di fonte “Y” del racconto già noto da Es.19-24 che proviene invece da fonte “E”: i temi fondamentali sono gli stessi: alleanza, fedeltà e idolatria, gelosia e unicità di Dio.

La ripetizione e l’intersezione delle fonti è dovuta all’esigenza di un racconto il più possibile completo, che non abbandona alcun dettaglio. Es. 34 ha così un grande successo nella tradizione: è spesso citato nel salterio, nel N.T., torna nella liturgia e nella tradizione ebraica, grazie soprattutto ai vv.6-7 in cui sono rivelati i tredici nomi attribuiti di Dio.

Solo i vv.29-35 appartengono alla fonte “P”.

Questi gli elementi essenziali del capitolo:

    • vv.1-4 dono delle nuove tavole dell’alleanza;
    • vv. 6-7 auto proclamazione di YHWH;
    • vv.10-13 una nuova alleanza;
    • vv.14-27 codice (decalogo) di prescrizioni rituali;

vv.29-35 ruolo e caratteristiche di Mosè.

Il capitolo si apre dunque (vv.1-4) con il dono di due nuove tavole di pietra: se le prime erano state tagliate da Dio (Es.24,12), tocca ora a Mosè provvedere.

Il passaggio è importante: infranta la prima alleanza con le sue tavole, il loro rinnovo prevede, per così dire, un maggiore impegno umano che, di fatto, è un’esigenza d’incarnazione.

Grazia e provvidenza non si sostituiscono infatti all’impegno umano, bensì lo reclamano. Spezzate perciò le tavole divine, spetta a Mosè tagliarne due nuove, anche se quanto vi è scritto verrà comunque dall’Alto: occorre che i due linguaggi, quello divino e quello umano, si incontrino e che Israele si assuma l’onere concreto dell’alleanza.

Certamente i vv.5-9 si collocano al centro del nostro interesse. In Es.33,23 Dio si è mostrato di spalle, ha in pratica fatto capire che, comunque non si può che “andare dietro” di lui, ciò che nel linguaggio del N.T. si chiama “sequela”.

Chi concretamente si deve seguire però?

Quali sono le esigenze di questo Signore che chiede di essere seguito come un capo carovana, o, meglio, con quali criteri guida egli stesso la carovana del suo popolo?.

I vv.6-7 sono auto rivelazione funzionale di Dio, dicono in altre parole in qual modo egli sia presente nella storia del suo popolo e perciò come il suo popolo stesso debba regolarsi per vivere guardando le sue spalle, cioè alla sua sequela.

Di per sé il Nome del Signore poiché Dio provvidente è già stato rivelato fin dall’inizio dell’Esodo, ma, come abbiamo già notato, esso è poi esplicitato capitolo dopo capitolo, o attraverso la narrazione di quanto egli compie o attraverso altri nomi che lo ripresentano. In fondo potremmo pensare a questi versetti e, più in generale, all’intero libro dell’Esodo, come una sorta d’esegesi del Nome divino che Mosè ha conosciuto nell’incontro del Roveto.

Questa auto proclamazione, in particolare, è un testo liturgico composito, parallelo ad Es.33,19-23, che abbiamo già meditato precedentemente.

Il senso di questa rivelazione è però quello di una speciale compiutezza: non solo perché si tratta di tredici termini (ossia dodici , che è un numero simbolico indicante pienezza, più uno). Tutti e tredici insistono sulla pazienza e sulla misericordia, in forma diretta o indiretta, compresa la strana indicazione secondo cui egli colpisce la colpa dei padri nei loro discendenti.

Essa significa diverse cose.

Anzitutto che il peccato è e resta tale, quale che sia la dimensione della bontà divina, ed esige quindi sempre correzione, pentimento e conversione. Secondariamente che il Signore è paziente: se il diretto responsabile non capisce la correzione e non si converte, Dio sa aspettare sino alle generazioni che subentrano e che quindi hanno comunque il modo di rendersi consapevoli della colpa. Infine che esiste una solidarietà verticale, tra le generazioni: il senso della storia e della memoria storica è anzi quello d’essere testimone e portatrice di tale solidarietà tra le generazioni, dalla quale nasce l’etica che identifica un popolo.

Alla rivelazione dei tredici nomi segue una nuova alleanza.

Primo segno concreto di quella pazienza divina che è appena stata rivelata, essa altro non è che una delle tante rinnovazioni di cui la storia del popolo di Dio è costellata. Se noi infatti non siamo capaci di fedeltà, Egli, al contrario, non può smentire ciò che ha appena detto e che dice di se stesso; continua perciò a riproporre un rapporto d’amicizia e di comunione.

Tale alleanza prevede ora le clausole (vv.14-17) soprattutto di carattere rituale, il cui scopo è salvaguardare la purità del popolo tenendolo lontano da tutto ciò che potrebbe essere anche solo in sospetto d’idolatria.

Colpisce certamente in essa il termine “geloso”, presentato come una sorta di quattordicesimo nome divino (v.14: la nostra traduzione lo scrive con la lettera maiuscola). La traduzione dell’ebraico ‘el qanah potrebbe anche essere, come alcuni suggeriscono “esclusivo”, accentuando l’idea che il Dio del Roveto non accetta di coabitare o di condividere tempi e culto con altre divinità, non accetta cioè che ci sia “un altro dio davanti alla sua faccia”.

Al centro di tutto sta una metafora matrimoniale: Israele e il Signore hanno contratto un matrimonio legittimo. Qualsiasi relazione con un’altra divinità è da considerare perciò come un adulterio o una prostituzione.

Questa tematica avrà ampio seguito nell’A.T., specialmente in alcuni profeti, e poi nella tradizione tanto ebraica quanto cristiana.

Che ruolo assume a questo punto Mosè dentro questo matrimonio?

Il capitolo si conclude con una specie d’appendice di fonte sacerdotale (vv.29-35) dalla quale apprendiamo come egli fosse e che cosa facesse al suo ritorno dall’incontro con il Signore sul monte.

Il particolare più noto, che ha influenzato ampiamente anche l’iconografia lungo i secoli, è quello dello splendore del volto.

Nelle religioni primitive allorché un sacerdote è in relazione diretta con la divinità si copre il volto, per lo più con una maschera rituale. Qui accade il contrario: Mosè si vela quando non ha alcuna funzione o quando ha terminato di esercitarla (v.33) e si scopre quando parla con Dio e riferisce al popolo.

Il fatto che qui si parli di un velo evoca la cortina del tempio e quindi un elemento che entra nel culto molto tempo dopo.

Quanto allo “splendore” del volto di Mosè, San Gerolamo lo interpreta come “corna” di luce in base ad un’antica versione greca dell’A.T., dando così origine a tutte le immagini in cui la guida del popolo appare con due protuberanze sulla fronte, la più famosa delle quali è forse quella di Michelangelo.

Se però badiamo al senso letterale non potremmo concludere nulla di speciale. Il testo ebraico fa pensare solo ad un volto “luminoso” o “splendente” perché simbolicamente, rivela la Gloria che pure ha visto solo di spalle.

Dovremo accontentarci di un significato incerto e parziale.

Possiamo tratteggiare invece alcune delle caratteristiche di Mosè a partire, in particolare, da quanto abbiamo riflettuto in questi due ultimi capitoli. Nell’A.T. gli si è attribuito in particolare il titolo di “servo del Signore” ( ‘ebed YHWH): paradossalmente il principe egiziano che ha rinunciato alle prerogative dinastiche ha scoperto la grande dignità del servizio di Dio e del popolo. “Servo del Signore” è un titolo che investe, prima ancora che la fedeltà o la sottomissione, il culto e la preghiera.

Mosè è infatti colui che vive in forza della propria missione per Israele e per Israele intercede, come abbiamo visto, rinunciando ad un destino personale, alla discendenza, al prestigio, a tutto quello, in breve, che rende appetibili il lavoro e l’impegno.

Non ci è sempre facile pensare alla vita di servizio nei termini di un tale spogliamento. Mosè non è infatti un ingenuo ottimista per il quale la fede coincide con l’idea che, comunque, si troverà una soluzione; al contrario è ben consapevole dell’indocilità endemica del popolo (v.8), eppure si identifica con esso in un “noi” strettamente solidale senza misurare responsabilità e colpe.

Potremmo parlare di un’immagine di servizio “integrale”, rispetto al quale Mosè non si ritaglia spazi privati o carriere o futuro. L’idea di servizio culmina certamente nel gesto liturgico e scaturisce da esso, tuttavia investe tutti i momenti della vita sino al futuro più lontano.

Mosè non entrerà nella terra verso la quale ha guidato il suo popolo, per la quale ha pregato e sofferto. Nel racconto della sua morte si dice solo che la guarda dalla vetta del monte Nebo, nell’attuale Giordania. Secondo il diritto antico il “guardare dall’alto” era un modo per prendere legittimamente possesso di un territorio. Tuttavia il fatto che egli resti sulla soglia dice ancora un aspetto del “servizio”: la promessa divina contiene già il suo compimento e per un autentico servo la responsabilità del lavoro è premio a se stessa.