Il Libro dell’Esodo: Meditazione 20

Capitolo 33, 1-23.

In questo capitolo continua la schermaglia tra Dio e Mosè, cui abbiamo assistito in Es.32, fin dall’inizio (vv.1-6). Essa sembra risolversi solo verso metà (v.12ss), finché, alla fine, Mosè giocherà addirittura al rialzo chiedendo al suo sempre invisibile interlocutore di rinunciare alla propria invisibilità.

Come in Es.32, dal punto di vista delle fonti e della redazione compaiono anche qui mani diverse (per es. è facilmente avvertibile che i vv.1-7, pur essendo bene integrati nel testo, possono avere una provenienza diversa dal resto).

Secondo il solito, cercheremo di soffermarci su alcuni elementi espressivi. Intanto individuiamo, schematicamente, i tre momenti fondamentali in parte già accennati:

  • vv. 1-6 ripresa da Esodo 32;
  • vv. 7-11 la tenda dell’incontro;
  • vv. 12-13 la faccia dell’Invisibile.

Nel primo momento (vv.1-6) Dio tiene ancora le distanze anche nel suo modo di parlare: attribuisce a Mosè, infatti, l’uscita dall’Egitto come in Es.32,7; nello stesso tempo non rinnega il giuramento ai patriarchi né di combattere per il popolo all’ingresso nella terra. Rifiuta però la propria compagnia nel viaggio.

Il discorso si presenta incongruo o, in ogni modo, non unitario: è un dire e un non-dire, un esserci e un non-esserci avvalorato da bruschi cambiamenti grammaticali: Dio parla all’inizio con Mosè (v.1), ma subito dopo si rivolge al popolo direttamente (v.3: in mezzo a te…tu sei un popolo di dura cervice).

In breve: il testo appare tribolato, costruito forse con figure retoriche. Esse sono uno strumento stilistico che serve ad indicare una sorta di straniamento divino rispetto alla situazione. In poche parole il testo vuole probabilmente darci un segnale di disagio.

Il disagio vuole essere anzitutto divino, e come tale è avvertito dagli israeliti, per diventare anche il loro, talché più volte si parla di un rito collettivo di penitenza, dapprima deciso dal popolo (v.4) poi richiesto esplicitamente da Dio (v.5), infine praticato (v.7).

Né deve meravigliarci la richiesta di rinunciare agli ornamenti: le tribù e i clan beduini hanno ciascuno i propri: sono un modo per portarsi appresso metalli preziosi e talora il distintivo tipico del clan. Ma gli israeliti non avevano quest’uso quando il racconto fu scritto e qui tenta di indicarne indirettamente la causa.

I nostri problemi non sono finiti.

Se passiamo a vedere il secondo momento del testo c’imbattiamo in una tenda che Mosè pianta fuori dell’accampamento.

Di che tenda si tratta?

Gli studiosi sono abbastanza divisi circa la sua identificazione. Secondo alcuni si tratta della tenda di Mosè, distinta da quella ricordata in Es.25,8, sia per la diversità della fonte del cap.25 (“P”), rispetto al cap. 33 in oggetto (forse “E”), sia perché quella tenda del cap.25 viene costruita solo al cap.36 ed è all’interno dell’accampamento.

Se si accetta questa tesi, bisogna pensare appunto alla tenda del capo in cui avvengono le contrattazioni importanti per l’intera comunità e che Mosè, il capo appunto, sposta fuori dell’accampamento dopo il fatto del vitello, a dire che davvero esso non è più il luogo in cui il popolo ha un riferimento nei confronti di Dio, il quale non abita più in mezzo, come è detto al v.3.

Secondo altri, invece, si tratta proprio della tenda del cap.25 anticipata rispetto alla costruzione descritta al cap.36 per segnare il distacco divino dopo l’idolatria.

Il problema non è di facile soluzione, ma la seconda ipotesi è probabilmente la più plausibile, perché questa tenda che Mosè sposta si chiama come quella della tradizione “P” (‘ohel mo’ed, “tenda del convegno”, nome datole da Mosè stesso, v.7, ma che si trova già in Es.27,21, quando è stato consegnato il progetto che sarà messo in atto a partire dal cap.35).

Dunque un’anticipazione, ma molto espressiva.

Le due ipotesi hanno in ogni caso in comune la motivazione , validissima, del fatto che sia fuori dell’accampamento.

Estraniato rispetto al popolo, il Signore mantiene un ben diverso contatto con Mosè.

I vv.8-11 ci presentano i termini di questa relazione.

Il popolo non è ammesso ad un rapporto diretto, ma deve limitarsi a “cercare” Dio attraverso Mosè (v.7), inoltre gli è concesso un segno, la Colonna di Nube, che abbiamo già visto come guida nel deserto.

Mosè gode invece di un incontro intimo, amicale, di grande confidenza (v.11): questo significa infatti “a faccia a faccia, come un uomo parla con un altro”.

Il testo non vuol dire che il Signore rinunci con Mosè alla propria invisibilità, il termine “a faccia a faccia” significa “di fronte a” (lo stesso termine che indica il “volto” può infatti essere usato anche in senso avverbiale). Del resto si può anche stare l’uno di fronte all’altro e in relazione intima senza vedersi. L’intento del redattore è porre l’accento come lo stesso Signore che si è estraniato dal popolo, ha però mantenuto una relazione strettissima con Mosè. Infine il termine “amico” (re’ah), che si potrebbe anche tradurre “prossimo” ha a che fare con la stessa radice del termine ro’eh “pastore”, già attribuito a Mosè in Es.3,1. Il re’ah è colui con cui si condivide il pascolo, si mangia assieme, si ha comunità di vita.

Troviamo conferma di questa insopprimibile invisibilità del Signore nel terzo momento del nostro capitolo. I versetti finali (12-13) paiono abbastanza intricati. Si possono però individuare gli elementi fondamentali.

Come abbiamo detto all’inizio infatti, Mosè sembra qui approfittare dell’intimità concessagli per giocare al rialzo a favore del popolo e anche per sé.

Con lo stile dell’autentico diplomatico egli non attacca però il problema direttamente, ma riprende i termini della sua precedente intercessione, insistendo sul fatto che il popolo possa avere la compagnia del Signore nel suo viaggio.

Notiamo che la partenza e l’itinerario sono sempre individuati come una “salita” o un “salire” (vv.1.3.5.12…), secondo la terminologia che poi la tradizione rabbinica ha consolidato: da fuori, in terra d’Israele si può solo “salire” infatti e, dall’interno del paese si “sale” a Gerusalemme. Tale terminologia, che ha un’origine fisica e concreta (Gerusalemme è in collina), indicherà poi la necessità di vedere il viaggio verso la terra data dal Signore e verso la città santa come una vera e propria ascesi spirituale.

Mosè dunque non conosce la strada e chiede al Signore di far da guida personalmente alla carovana in forza di due principi: confermare che egli davvero gode dell’amicizia divina e che il popolo è tuttora di Dio, nonostante tutto.

Notate che Mosè non mette in dubbio alcuna delle due cose. Resta perciò problematico il v.15, tanto che qualche commentatore considera interrogativo il v.14 (“Forse che io camminerò con voi e darò riposo a te?”).

La trattativa sembra però, stando al v.17, concludersi positivamente.

A questo punto Mosè alza ancora la posta della sua trattativa, e al v.18 gli sentiamo chiedere ancora una maggiore intimità. Il termine “Gloria” è tipico del linguaggio sacerdotale che lo associa alla nube e al fumo della teofania (ricordate, per es., il racconto della vocazione di Isaia in Is.6,1ss): dunque Mosè, in un certo modo, chiede di penetrare nella Nube e di vedere oltre. La risposta divina è un’affermazione di libertà, benché detta in termini indiretti, ma il Signore reclama la sua invisibilità. In termini altrettanto indiretti, offre però la massima rivelazione del suo essere:

v.19 E disse: lo stesso farò passare tutto il mio bene davanti a te e griderò il nome di YHWH davanti a te; e farò grazia a chi farò grazia e avrò pietà di chi avrò pietà.

Riprende infatti la rivelazione del proprio nome già fatta a Mosè sullo stesso monte (Es.3,14), ma accentuando il termine della bontà, della grazia e della pietà. Il Dio provvidente dei Padri è colui che “si china” (è questo il senso del verbo che noi traduciamo “far grazia”), è cioè colui che è favorevole, incline, benevolo, pietoso; il complesso dei termini di questo versetto insiste su questa “bontà” con la quale egli intende manifestarsi ancora e sempre al suo popolo, per quanto esso sia indocile e disobbediente.

A Mosè è dunque concessa, in particolare, la rivelazione del Nome come un tempo, e, con essa, di essere confermato nella percezione della bontà del Dio del Roveto e del dono della Torah.

Non gli è concesso di vedere.

Ne va della sua stessa vita. D’altra parte ciò che è veramente importante oramai lo sa. Conosce ben di più che un volto: conosce intenzioni, modo di pensare e di essere divini.

La prima conclusione da trarre, per noi, dunque, può essere questa: si conosce di più di una persona se essa si manifesta in opere e parole (come il redattore di Luca-Atti per Gesù), che per il fatto di vederne il volto. Dovremo imparare a far attenzione a quel che il Signore da e insegna, se vogliamo davvero “vederlo”.

La seconda è che questi pochi versetti dovrebbero finalmente cancellare un antico pregiudizio che fa pensare a molti che nell’A.T. ci sia presentato un Dio, a dir poco, severo, a differenza del mite Gesù del Nuovo Testamento. Vediamo bene da qui che la percezione di Dio come infinita bontà, pazienza, condiscendenza risale a parecchio più indietro.

Anzi questo è proprio ciò che gli studiosi chiamano l’orizzonte ermeneutico dell’Esodo dall’inizio alla fine: Dio è provvidente e buono, presente e vicino, pronto ad esercitare la sua potestas a favore dei poveri.

Anche un testo così antico e apparentemente disordinato può essere perciò per noi fonte di sorprese e di conversione.