Il Libro dell’Esodo: Meditazione 19

Capitoli 31, 18 e 32, 1-35.

Possiamo da subito ricorrere a due termini per identificare i momenti in cui si divide la vicenda del capitolo che ci accingiamo a meditare:

  1. la ribellione del popolo (32,1-6);
  2. l’intercessione (32,7ss) che nasce dal disinteresse personale, di Mosè per comporre quella lacerazione tra il popolo e Dio che la ribellione ha creato.

Non dobbiamo però pensare a questi due avvenimenti solo come a due momenti chiave della storia biblica (cosa che per altro certamente sono), ma come due eventi che toccano la vita d’ogni credente, sempre a rischio di ribellione (quel che si chiama “il peccato”, l’unico, che è “l’idolatria”) e la capacità di pregare pensando non a se stessi ma al destino di tutti i propri fratelli.

Il complesso di Es.32-34, per altro, che ha tanta importanza all’interno della Scrittura come per l’esperienza umana, è un testo intricato, in cui le diverse fonti che già conosciamo sono connesse tra loro in maniera tale che è difficile districarle e quindi utilizzarle, con le loro caratteristiche, per l’interpretazione.

In linea generale possiamo dire però che il racconto è antico e riflette la preoccupazione di focalizzare, appunto, il grande problema del peccato e della riconciliazione.

L’ultimo versetto del capitolo 31 riallaccia il racconto dopo la lunga serie di disposizioni dei capp.25-31, e il cap. 32 si apre con una notazione molto fine: Mosè tarda e il popolo si insospettisce.

I ritardi fanno sempre pensare male, perché inducono all’incertezza, al senso di provvisorio e quindi a cercarsi sicurezza in proprio.

La tradizione rabbinica, grazie ad un gioco di parole, riesce ad affermare che, in realtà, il ritardo fu breve, aggravando così la posizione popolare e suggerendoci la necessità del rispetto del tempo come dimensione della fede.

In popolo in realtà non sa aspettare, che del resto è arte difficile, e chiede ad Aronne un dio che cammini davanti, in testa alla carovana, che sia visibile (v.1).

E’ necessario notare alcune cose.

Anzitutto si chiede direttamente un dio, non un’altra guida, come era Mosè, né si chiede ad Aronne di sostituire il fratello, quasi fosse ben noto che egli non lo farebbe o, come qualche interprete afferma, quasi fosse assodato che ci si fida più volentieri di qualcosa che venga da fuori che non una forza interna che supplisce più semplicemente chi già esercitava funzioni note.

In secondo luogo e soprattutto, si chiede “qualcosa di visibile”, che cammini davanti, rifiutando dunque l’invisibilità divina e la necessità inerente alla fede, di leggere i segni che finora sono stati posti (nube, colonna di fuoco, miracoli vari) come luogo della Presenza.

L’idolatria ha molte facce: è voler sostituire l’Eterno Invisibile con qualcosa, cercando il sostituto fuori del proprio orizzonte e chiedendogli di assumere un ruolo totalizzante. In poche parole, l’idolatria sostituisce ai rischi della fede l’esigenza di avere davanti a sé delle evidenze.

In questo senso può esistere allora persino un’idolatria religiosa, il vitello, infatti, non rappresenta né il denaro né il potere né il sesso, come talora si sente dire, ma la volontà di una guida diversa da quella voluta dal Signore per raggiungere gli obiettivi che egli stesso ha promesso.

Il Testo non si dilunga a descriverci i gesti dell’idolatria, quanto piuttosto le reazioni che essa scatena.

Aronne sembra tenere una posizione di non compromissione, leggermente codarda. La tradizione ebraica, che mai parlerebbe male di un antenato, cerca di sfumare il suo ruolo nei commentari successivi. L’atteggiamento dei leviti, descritto ai vv.25ss, fa pensare invece che nell’accampamento non esistesse, alla fine unanimità (lo stesso modo di pensare contrario i rabbini lo attribuiranno anche alle donne) e in ogni caso appare una legittimazione della classe sacerdotale che non ha tralignato.

La reazione più violenta è quella del Signore, che prende subito le distanze facendo diventare quello che era “Il mio popolo”, nel contrasto col Faraone, “il tuo popolo” nel discorso con Mosè. Il Dio del Roveto pare rinnegare che Israele sia suo, come quando si litiga in una coppia a causa di un figlio indocile e un coniuge dice all’altro “tuo figlio”. Attribuisce a Mosè ciò che, di fatto, era stata opera sua (v.7); tratta gli israeliti con il pronome “essi/loro” che frappone una gran distanza tra lui e il popolo; infine propone a Mosè il ruolo che era appartenuto a Abramo (v.9), rendendolo capo di una grande nazione.

La collera divina si manifesta in una specie di crescendo che contrasta col senso di sollecitudine e provvidenza che abbiamo costatato nei precedenti capitoli, come se una misura fosse stata colmata.

Mosè reagisce in tre tempi:

  1. con una perorazione in chiave interrogativa, incentrata sul ricordo delle promesse e delle imprese già compiute dal Signore per la salvezza del suo popolo (vv.11-14);
  2. con un gesto simbolico (un’ordalia) che innesca anche la reazione dei leviti (vv.15-29);
  3. con una seconda supplica nella quale si rifiuta implicitamente di assumere il ruolo di Abramo e, apertamente, di assumere un ruolo diverso dalla sua vocazione originaria con un destino autonomo rispetto al destino comune d’Israele (vv.31-32).

E’ però necessario anticipare che l’intercessione di Mosè si spinge fino al cap-33.

La sua insistenza e soprattutto la qualità di questa preghiera, che è davvero di altissimo livello, fanno sì che la tradizione già all’interno dell’A.T., lo consideri per antonomasia il servo di Dio (‘ebed YHWH), sofferente per il peccato, capace di vera preghiera, senza altro interesse che il Signore e il suo popolo a prezzo della sua vita.

Ma questo aiuta anche a capire come mai egli sia un modello dominante nel N.T. per definire alcune caratteristiche di Gesù Cristo.

Inoltre nel confronto tra il Signore e Mosè sul destino del popolo e, in definitiva, sull’esito dell’intera impresa dell’Esodo, conviene prestare attenzione ad alcuni altri particolari.

Mosè non è tenero con Aronne, che pure è suo fratello, al quale non esita ad attribuire una responsabilità diretta dell’accaduto (vv.21.25). Al tempo stesso disapprova la collera divina, che non intende accettare supinamente. La sua preoccupazione è anzi che il Signore “torni indietro” da essa (v.12), noi diremmo “si converta”. Ne va infatti del prestigio stesso di Dio davanti agli egiziani . Non chiede perciò a Dio semplicemente di “chiudere un occhio”, ma di dimostrare la propria fedeltà a se stesso: se dovesse infatti reagire in base all’accaduto, è certo che la punizione d’Israele potrebbe avere un senso. Ma se Colui che si è rivelato a Mosè nel roveto al principio di tutta l’avventura intende essere coerente col proprio nome di allora (“Io sarò quello che ero”, Es.3,14), deve ora “tornare” da una giustizia puramente distributiva, che commina la pena in base alla colpa, alla sua vera giustizia che consiste nella continua provvidenza e, in questo caso, nel perdono perché il popolo viva.

La preghiera di Mosè induce Dio a “convertirsi” e a “pentirsi” (v.14), a fare tesuba, secondo il linguaggio tradizionale, ponendo, in questo modo, la possibilità, anche all’uomo di convertirsi, cambiare vita, recedere dall’idolatria, pentirsi e tornare al Signore.

Allo stesso tempo Mosè non è tenero neppure con il popolo, al quale non concede alcuna attenuante e del quale non nasconde al colpa (vv.30-31). Ciò che per lui conta è il prestigio divino, il fatto che il Signore non dimentichi quanto ha promesso ai patriarchi e quanto ha già compiuto per adempiere questa promessa.

In nome di questa coerenza divina che è pronto a richiamare, Mosè non intende avere un futuro diverso da quello degli altri israeliti. Piuttosto preferisce non avere alcun futuro.

La promessa della discendenza infatti, è stata fatta ad Abramo, e Israele esiste in forza della fede e della giustizia di Abramo.

Mosè sa invece di esistere in forza di Israele, né può avere un futuro indipendentemente o a scapito del proprio popolo.

A questo punto possiamo cercare di trarre un po’ le fila della nostra meditazione.

La prima considerazione da fare è, evidentemente, sul rapporto tra fede, evidenza e idolatria.

La fede è rispetto dell’invisibilità di Dio e costante capacità, da parte nostra, di leggere gli indizi e i segni della sua presenza nella storia. In questo senso la fede ha ben poco di consolatorio ed è piuttosto una tensione alla vigilanza.

La seconda è che, al di là di ogni moralismo, Mosè mostra come accettare il servizio divino significhi il rifiuto di ritagliarsi privilegi o ruoli sociali. Essere “servo del Signore” è cosa da prendersi alla lettera non nel senso della servitù/schiavitù, bensì nel senso della supremazia delle promesse divine, alle quali, se necessario, occorre richiamare Dio stesso. La grande intercessione di Mosè, del resto, ci apre la strada per comprendere anche la figura di Gesù-servo orante e sofferente, preoccupato non del proprio destino ma della volontà del Padre.

La terza è che le porte del pentimento/conversione sono sempre aperte e praticabili perché il Signore stesso, come abbiamo visto, è il primo a “tornare”/pentirsi della sua collera.