Il Libro dell’Esodo: Meditazione 15

Capitolo 20, 1-26.

Con ogni probabilità questa è una delle poche pagine della Bibbia che conosciamo a memoria. Molti di noi, infatti, hanno probabilmente imparato da piccoli I Dieci Comandamenti; ma la lettura diretta del testo ci mostrerà che forse li abbiamo imparati senza conoscerli troppo bene, ridotti come sono stati, dai catechismi, a poco più che un titolo articolo per articolo, e deprivati del loro contesto; quindi moralizzati, concentrati in regolette di comportamento prevedibile, buone per tutti e, forse, per nessuno.

Conviene invece non dare sempre le cose per scontate.

E’ probabile che adesso li possiamo riscoprire in tutta la loro novità come una forza etica (che vale per tutti) e morale (un’appartenenza a Dio, cioè, peculiare a chi crede).

Sono veramente dieci, prima di tutto?

Se osserviamo con attenzione le diverse versioni delle regole su cui Dio stipula l’alleanza con il suo popolo, vedremo che il numero può oscillare.

E’ comunque riducibile a dieci per favorire la memorizzazione (non sono forse dieci le dita delle mani su cui contare?): sono, infatti, da ricordare.

In questo anche il nostro catechismo aveva colto nel segno.

Le regole dettate nel nostro capitolo sono comunque riprese e semplificate nei capitoli seguenti, a dire che non è possibile dare indicazioni facili facili, senza prevedere altri casi o, comunque, un’interpretazione.

E’ vero che tutto si riduce ad amare Dio e il prossimo, come sta scritto anche nel vangelo, ma non è sempre facile capire il come , talché è necessario riflettere di continuo su ciò che, di per sé, sarebbe così semplice, perché la vita e gli uomini sono, invece, ben più complicati.

Il capitolo in oggetto è la versione sacerdotale “P”, approntata dai sacerdoti del tempio di Gerusalemme diversi secoli dopo rispetto all’uscita dall’Egitto. Essa presta particolare attenzione a regole di culto, come la legge sul sabato (vv.8-11) o la proibizioni delle immagini (v.4). Ma è essenziale rammentare che queste “dieci parole” (come di fatto si chiamano nel testo e nella tradizione ebraica) non sono una legge qualunque, sono bensì i criteri su cui Dio fonda l’alleanza con il suo popolo, o, se vogliamo, i criteri da rispettare per rimanere in amicizia con il Signore.

Essi sono in parte di tipo cultuale (dimensione che nel nostro capitolo è accentuata, come abbiamo detto), ma soprattutto , di tipo sociale : si è amici di Dio se si è amici all’interno del proprio popolo mantenendo legami di reciproco rispetto e solidarietà.

Anzi, molti aspetti della cultualità, come le regole del puro e dell’impuro che si troveranno in seguito, rispondono di fatto alle necessità di una convivenza ordinata o, almeno, a rischio calcolato.

Vediamo ora alcune cose nel dettaglio, tenendo presente che ciò che importa a chi ha scritto queste regole è affermare l’assoluto di Dio, come primo criterio anche di qualsivoglia convivenza umana.

Colui che parla si presenta come un Dio esclusivo (v.5), “geloso” secondo le nostre traduzioni; ossia un Dio che non ammette altre presenze di fronte a sé.

Esiste quindi un solo peccato, cui tutti gli altri sono riconducibili: quello dell’idolatria, o dell’accontentarsi di qualcosa che sia meno di Dio, fino a far valere altro al posto di colui che ha liberato Israele dalla servitù d’Egitto.

L’uomo antico non conosceva l’ateismo (ossia la negazione dell’esistenza di Dio), che è una scoperta del pensiero moderno; sapeva però che esiste l’idolatria, cioè la possibilità di sostituire a Dio un qualche surrogato: la potenza economica, per esempio, o quella militare, o quella familiare, o quella religiosa o qualunque altra cosa. Perciò tutti i comandamenti sono, alla fine, riconducibili a questo, che è il fondamento dell’alleanza: chi riconosce l’assolutezza di Dio, è pronto a ridimensionare tutto il resto o piuttosto a dare a ciascuna cosa il valore che merita secondo un ordine gerarchico, purché si manifesti l’assoluta unicità del Signore.

Su questo criterio di base vanno pensate tutte le dieci parole , e anche il legame che intercorre tra i membri del popolo di Dio deve fare i conti con esso.

Il Signore si autopresenta con grande solennità all’inizio dei comandamenti (v.2). La cosa ha una sua ragion d’essere: in ogni patto tra un signore e un vassallo colui che aveva il ruolo dominante si presentava per primo e ricordava quanto aveva fatto a favore di colui con il quale stipulava alleanza.

Vediamo qui la stessa cosa: Dio si presenta con suo nome proprio, quello rivelato a Mosè nel Roveto ( e del resto siamo sul Sinai), e fa una breve memoria di quanto ha compiuto per gli Israeliti.

Subito dopo pone le prime condizioni o clausole dell’alleanza: la sua unicità o esclusività (v.3), rafforzata dalla proibizione delle immagini e del loro culto, e persino della proibizione di pronunciare il suo nome.

“Dire il nome” o “nominare” equivale infatti a circoscrivere nel tempo e nello spazio; in qualche modo consente di manipolare ciò che si nomina. L’Eterno reclama la sua libertà e la sua assolutezza. Il suo nome è sì rivelato, ma resta impronunciabile, così come il suo volto deve restare invisibile.

Infine Egli reclama la propria signoria sul tempo. Lascerà all’uomo lo spazio che si può misurare e dividere e recintare, attraverso il dono della terra, ma esige per sé la signoria del tempo attraverso il precetto del sabbatico (vv.8ss).

E’ uno strano precetto per noi cristiani, che siamo pronti a ridicolizzarlo considerando esagerato e troppo pieno di piccole cose da osservare, secondo le interpretazioni che il mondo ebraico ne ha dato successivamente.

Di fatto però abbiamo per lo più perso la nozione del tempo santificato e dedicato a Dio, nonostante la domenica giorno-del-signore, per acquisire piuttosto quella, laicistica, del “tempo libero”.

Il testo ci dà un’indicazione interessante: usa infatti col sabato il termine “santificare”, lo stesso usato nella formula tradizionale del fidanzamento: vale a dire che si tratta di un tempo sponsale, in cui Dio contempla la sua creazione e rallegrandosi del proprio lavoro con cui la porta a compimento, raggiunge un’unione speciale con il Signore del tempo.

Non si tratta di avere semplicemente “un giorno libero” dal lavoro o dagli impegni, ma di godere gratuitamente di un tempo dedicato a Dio, contemplando le sue opere e le nostre. Di per sé il sabato, che contempla e celebra la creazione divina (v.11) non equivale la domenica, che è invece celebrazione della resurrezione di Cristo. Potrebbe valer la pena riflettere se davvero noi cristiani abbiamo fatto un buon affare a sostituire il sabato con la domenica (guadagnando così il fine settimana…), o se non dovremmo invece recuperare la dimensione autentica di ambedue questi due giorni nella loro reciproca integrazione.

Il v.12, in cui entra tra le clausole del patto di Dio la pietà filiale, fa da cerniera tra la dimensione del rapporto con lui e quella sociale. In sé non ci meraviglia tanto l’indicazione di onorare e dare importanza al padre e alla madre (v.12), quanto piuttosto la sua motivazione. Il fatto di avere “lunghi giorni” se si osserva questo precetto ci rimanda infatti ancora una volta ad una speciale concezione del tempo.

Un popolo che non riconosca di avere un passato (il padre e la madre del nostro versetto) cui dare importanza e peso, non può avere un futuro. E in certo modo la nostra vita non è solo “nostra”, ma è anche delle generazioni che ci hanno preceduto e di quelle che ci seguiranno. Il testo di per sé, si riferisce al patrimonio familiare ereditario, ma non è detto che esso consista, come il comandamento in una prima accezione intende, solo nel patrimonio fondiario o nel bestiame. Sono patrimonio anche tradizioni e cultura, educazione e affetti. Alcuni non ricevono tutto questo per una serie di sfortunate circostanze, ma chi ha questa eredità non può vanificarla: essa è alla radice della continuità stessa del popolo.

I vv.13-16 pongono le basi della vita comune, ma il v.17 radicalizza il discorso, indicando come alla base d’ogni convivenza autenticamente pacifica (Gesù direbbe che si tratta de “la pace non come la dà il mondo”, Gv.14,27) stia il fatto sia di non porre la cupidigia alla base delle proprie scelte, sia di non lasciarsi travolgere dalla cupidigia. Essa può essere indotta da quello che si sente o si vede (da qui l’accenno che il testo fa alla casa, alla donna, e in generale a ciò di cui altri si rallegrano e che noi forse non possediamo), ma il comandamento raccomanda di tenere se stessi sotto controllo. Indirettamente richiama ancora all’assoluto e alla superemazia del Signore: egli, che ci aiuta a governare e a piegare desideri e ambizioni, ma è soprattutto, grazie all’alleanza che ci offre, il nostro primo e maggiore “investimento” per usare un termine in sintonia con la cupidigia.

Nulla può essere più attuale di un discorso come questo, in un’epoca in cui tutti lamentano un consumismo esasperato, ma in cui, esso viene contemporaneamente incentivato in tutte le forme possibili e sotto vari pretesti.

Quest’ultimo precetto che richiama l’inizio delle dieci parole, mostra anche tutto il valore universale di loro, di là dalla fede rivelata.