Il Libro dell’Esodo: Meditazione 13

Capitolo 18, 1-27.

Il capitolo che meditiamo presenta dei tratti molto speciali ed è un testo bellissimo, ricco d’indicazioni anche per la vita quotidiana, ecclesiale o meno.

Prima di tutto notiamo che pare fuori posto: la scena, infatti, è ambientata al monte di Dio (cioè il Sinai, v.5), mentre il capitolo 17 è ambientato a Refidìm (vv.1-8) e da Refidìm si riparte in 19,1. La nostra sarebbe una specie di parentesi collocata in una tappa decisiva del cammino, appunto il Sinai, come se fosse stato percorso un tratto di strada per tornare al punto di partenza.

Di fatto, il Sinai è il luogo della Legge e quindi torna bene ambientarvi un episodio che ha a che fare con l’esercizio del potere giudiziario come “consultare Dio”.

Il testo è inoltre di tradizione “E”: il nome divino compare, infatti, 13 volte e dodici di queste è Elohìm.

Il particolare del tredici è interessante, perché altrettante volte Jetro è “chiamato” suocero di Mosè e altrettante volte si fa menzione del “popolo” d’Israele.

In poche parole siamo di fronte ad un capitolo ben costruito, con una fitta rete di risonanze interne, perché deve dirci qualcosa di molto importante, anche se a noi pare che parli di burocrazia.

Infine la struttura di superficie del nostro capitolo: possiamo individuare quattro momenti:

  1. vv.1-6 incontro di famiglia di cui Mosè e il suocero paiono i personaggi principali;
  2. vv.7-12 celebrazione liturgica dell’incontro;
  3. vv.13-23 Jetro dà un consiglio a Mosè;
  4. vv.24-27 il consiglio è posto in esecuzione.

Vediamo ora alcuni aspetti peculiari di questi momenti.

L’incontro di per sé, ci lascia qualche incertezza. Se da una parte è ragionevole che il suocero fosse informato della carovana che avanzava e andasse incontro a Mosè, dopo il congedo di Es.4,18, meraviglia la presenza di moglie e figli che, stando sempre in Es.4,20, erano partiti per l’Egitto con lui.

Il problema è forse solo redazionale e di fonti, ma, onestamente, non se ne può dare una spiegazione accettabile.

Di particolare interesse la descrizione abbastanza dettagliata dell’incontro, preludio alla liturgia, tra suocero e genero, con tutti i convenevoli tipici del galateo familiare e beduino (v.7), che sostanzialmente non è molto cambiato. Ne possiamo vedere i diversi momenti.

Anzitutto sono le sentinelle dell’accampamento ad avvistare i visitatori, a identificarli e ad avvertire Mosè (v.6), il quale non aspetta, ma va loro incontro, si prostra e abbraccia il suocero.

Segue una lunga serie di domande e risposte, che la buona educazione esige siano sempre indirette e che il testo non riporta, ma che servono per scambiarsi le informazioni con l’aria di parlare di tutt’altro.

Segue una celebrazione liturgica aperta da una specie di catechesi in cui si narrano i prodigi divini nella liberazione d’Israele e conclusa da una sorta di riconoscimento di fede da parte di Jetro.

A questa segue il pasto sacrificale e comune.

Abbiamo qui uno schema completo e compiuto della celebrazione liturgica, come, in fondo, la viviamo ancora noi oggi: si conviene e ci si incontra, si ascolta il racconto delle opere di Dio, si professa la fede, si sacrifica e si mangia insieme.

Certamente la sezione più interessante è quella del consiglio di Jetro. E’ vero infatti che egli appartiene alla famiglia, ma sostanzialmente rimane un estraneo. Che sia venuto incontro a Mosè è importante perché il cammino è ostacolato adesso non più dalla fame, dalla sete e dalla noia soltanto, ma anche da aggressori militari. Un segno di benvenuto è perciò gradito, tuttavia non si vede perché e come lo straniero debba o possa interessarsi di problemi interni ad un popolo che non è suo, né come gli Israeliti possano accoglierne le indicazioni con tanta facilità.

Jetro è senza dubbio un personaggio interessante.

Anzitutto sa ascoltare quel che Mosè racconta e lo sa interpretare nella chiave giusta tanto che da lui scaturisce quella benedizione che diventerà l’ossatura della preghiera ebraica (v.10).

Come sa ascoltare un racconto, sa leggere una situazione (v.14) e si esprime con senso critico nei confronti di Mosè (v.17), ma è un senso critico costruttivo, perché offre subito una proposta (v.19ss).

Dice un commentatore rabbinico moderno, riprendendo un mistico del XVII° sec., che Jetro, da bravo gentile, si intende di burocrazia. Se la Torah contiene infatti la saggezza, ci sono cose in cui i gentili superano gli ebrei, come l’abilità ad organizzare una buona amministrazione.

L’ammirazione di Jetro per l’opera di Dio diventa per lui esperienza creativa, che nasce da un vero ascolto di quanto Dio fa, ma intende portarlo a compimento con il proprio contributo.

Nello stesso tempo, Mosè a differenza di tanti responsabili che chiedono parere agli esperti per fare poi quello che credono, accetta un consiglio non richiesto, rivelandosi ancora una volta, un modello di autentico ascolto.

In questo senso il nostro cap.18 è un testo esemplare sulla reciproca accoglienza (non dimentichiamo che Jetro è uno “straniero” per Israele e che lsraele in questo momento “ha tutti contro”).

Il consiglio di Jetro è molto oculato.

Quando infatti il popolo ha qualche questione (dabàr), viene a Mosè per conoscere i regolamenti (tok indica una regola divina di cui non è sempre possibile dare una motivazione razionale) e la leggi (toròt) da seguire.

Mosè si occupa di tutto, forse anche l’esercizio del potere giudiziario era considerato nel Vicino Oriente Antico esercizio dell’autorità divina, pertanto Mosè si sentiva particolarmente responsabile.

Jetro laicizza apparentemente la questione, dando al potere giudiziario una configurazione collegiale. In realtà egli suggerisce a Mosè di avocare a sé i casi legali più importanti, in cui sono in ballo grosse somme di denaro (dabàr gadòl, vv. 22.26; non a caso si esige che gli uomini del collegio siano incorruttibili, v.21), lasciando ai tribunali di diritto inferiore le questione minori e di minor impegno economico (dabàr qatàn). Questi uomini devono quindi dirimere sulla loro competenza e passare la mano.

Mosè invece lascia cadere il criterio puramente economico e decide di avocare a sé i casi difficili (ha-dabàr ha-qashé, v.26), in nome di un criterio di giustizia che superi il problema del puro indennizzo. E’ anche questa un’indicazione preziosa: anche i consigli si devono accogliere in maniera creativa, senza limitarsi alla pura esecuzione.

Ciò che sta al centro di tutto è l’atteggiamento di ascolto nei confronti della realtà, delle persone e delle indicazioni date da Dio stesso, che nel nostro caso non sono menzionate, ma che stanno in filigrana alle decisioni finali di Mosè.

Tale atteggiamento è la condizione perché il popolo possa vivere unito in maniera responsabile. Anzi, il suo modo di ascoltare definisce un popolo come tale. Si può infatti prestare attenzione alla propaganda, al pregiudizio, alle proprie opinioni personali, al proprio interesse, o, al contrario, al bene comune, alla ricerca della verità, al confronto, alla diversità ben accolta.

Normalmente il nazionalismo non identifica un popolo autentico, così come il fondamentalismo non identifica un credo religioso veramente vissuto.

Semmai è l’esatto contrario, specie nella tradizione giudeo-cristiana. Talché Jetro fa un buon servizio a Israele, ma Israele stesso attraverso Mosè si chiarisce le ragioni di una superiore giustizia, laddove sta veramente il centro della sua identità.

Non a caso alla fine dell’episodio, suocero e genero si separano. Dopo avere riconosciuto la propria identità entro la collaborazione . Jetro segue un diritto consuetudinario, proprio al suo popolo, e consiglia in conformità a quel che vede e al proprio vissuto.

Mosè si muove invece nell’ambito di un diritto che ha a che fare col rapporto con Dio.

Jetro è un sacerdote, ma predica una giustizia che pare laica a tutti gli effetti, Di Mosè non si afferma che sia sacerdote, ma prende decisioni in rapporto con Dio.

A ben guadare paiono due mondi molto distanti, eppure non solo sono imparentati, ma sono anche in eccellenti rapporti da sempre, ne fa fede l’atteggiamento che Jetro ha tenuto verso Mosè fin dal principio.

I richiami del testo sono quindi molti e, soprattutto, di particolare utilità in un tempo come il nostro in cui la differenza ha un peso speciale sociale gravissimo e l’accoglienza del diverso diventa sempre più difficile.