Il Libro dell’Esodo: Meditazione 4

Capitolo 3,1-22

Siamo giunti ad uno dei più famosi testi non solo della Scrittura ma, forse, della letteratura in generale. Al suo centro sta la rivelazione del nome divino, cui dedicheremo gran parte della nostra attenzione, cercando di vederne alcune implicazioni teologiche. In ogni caso il testo merita di essere letto con attenzione in ogni dettaglio, anche se non potremo soffermarci su tutto.

Questo capitolo fa parte, con i due che lo seguono, di un nucleo narrativo che risale alle fonti “E” e “Dtn”: sono fonti di provenienza settentrionale, che gli scribi di Samaria si sono portati a Gerusalemme dopo la caduta del regno del nord nel 722 a.c. Della presenza di queste fonti settentrionali abbiamo traccia anche da altri elementi del racconto (per esempio il fatto che il Sinai si chiami Horeb). Ma troviamo un doppione parziale di esso al cap.6, che è invece di fonte sacerdotale “P”, ossia meridionale e più tarda.

Abbiamo così due racconti della vocazione di Mosè, da leggere non in contraddizione, bensì, più esplicitamente, come frutto di due diverse ideologie che rileggono lo stesso episodio. Essi sono cuciti in un’unità redazionale coerente e testimoniano come il redattore finale desiderasse “conservare” tutte le possibili letture di un medesimo fatto, vedendone le rispettive ricchezze.

In termini più grossolani possiamo distinguere nel nostro capitolo tre momenti:
vv.1-6 manifestazione di Dio nel roveto
vv.7-15 vocazione e missione di Mosè
vv.16-22 istruzioni sulla missione

Abbiamo dunque lasciato Mosè in una nuova condizione sociale e con una famiglia sua. Passato dalla corte a vivere sotto le tende, si delinea per lui un futuro dentro un clan. Al solito, non ci viene detto se ciò gli piaccia; il testo tace sulle sue reazioni personali, e questa rimane una sua caratteristica: pare un uomo senza volto, in altre parole senza vita privata propria. Come affermerà un’interprete moderna: Israele esiste in virtù della fede d’Abramo, Mosè esiste puramente in virtù del popolo d’Israele.

Ne avremo conferma via via, procedendo nella lettura.
L’approccio di questo capitolo parrebbe segnato da una cesura rispetto al precedente racconto. Mosè balza in primo piano, staccandosi dallo sfondo fatto d’accampamenti e storie di famiglia, nel quale lo avevamo lasciato al capitolo 2:
E Mosè era pastore del gregge di Yitrò, suo suocero, sacerdote di Midyan. Nella vicenda quotidiana di un uomo dedito al proprio lavoro irrompe qualcosa di nuovo.

Il nuovo è un roveto che brucia senza consumarsi.
Di questo roveto si è detto di tutto: che si spiega coi miti dell’albero della vita frequenti nel Vicino Oriente Antico, che è legato al culto della fertilità, e così avanti. Di fatto, il roveto si chiama in ebraico senéh, termine che è assonnante col nome del monte Sinai: secondo qualche studioso, anzi, senéh altro non è che la contrazione di sinài; per essere onesti non dobbiamo qui far altro che renderci conto che Mosè deve essere arrivato, consapevolmente o no, ad un luogo di culto tradizionale che il testo chiama “monte di “Elohim”: gli viene chiesto infatti di scalzarsi. Lì vede questo strano fuoco che da una parte lo terrorizza, dall’altra lo rende consapevole che la sua vita, che pareva ormai così ordinata e prevedibile, è governata da Altro, capace di coglierlo di sorpresa, come fa un fuoco che venga dal cielo.

La visione che interrompe la routine quotidiana evoca anche una memoria che pareva sopita: essa è fatta della miseria del popolo, di una promessa antica e di un incarico.
Abbiamo di fronte a noi un racconto di vocazione in alcune sue caratteristiche essenziali, come talora accade nei racconti di vocazione d’alcuni profeti:

  • il personaggio implicato, pur essendo colto di sorpresa, è collegato ad una storia;
  • riceve un incarico, ma, assieme ad esso, la forza e l’autorevolezza per compierlo;
  • tale autorevolezza è suffragata da una rivelazione che Dio fa di se stesso;
  • l’incarico riguarda il popolo e non tanto il destino singolo di colui che è chiamato, al quale non è promesso, personalmente, nulla.

Possiamo distinguere nel nostro racconto parecchi momenti in cui Dio parla di se stesso: sono tutti da tenere presenti per capire il senso del suo nome:
v.6 Io sono il Dio di tuo padre: il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe;
v.12 Io sarò con te;
vb.14b Io Sono;
v.15 e 16 Il Signore, il Dio dei vostri padri, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe;
v.18 Il Signore, il Dio degli Ebrei;
le definizioni aiutano a comprendere il senso del
v.14 Io sarò quello che ero
la cui traduzione è giustificata dal particolare uso del verbo, sul quale non è qui il caso di dilungarsi.

Essa è però particolarmente coerente col contesto, in cui Dio evoca se stesso nel proprio passato di relazione coi patriarchi e anticipa quale sarà il suo modo di essere e di fare nel futuro con Mosè e coi figli di Israele.
Come egli è stato coi padri, è ora con lui e sarà con loro.
Si capisce da qui perché Isaia potesse pensare ad un nome divino come “Emmanuele”, “Dio con noi” e come questo nome fosse particolarmente caro a Matteo che lo attribuisce a Gesù nel momento della sua nascita e lo richiama al momento del suo congedo: Ecco io sono con voi (Mt.28,20).
Qui non è rivelato un Dio puramente esistente, neppure nella pienezza del suo essere, né un Dio provvidente e sollecito: tutto questo è vero ma è troppo poco.
Si rivela invece, prima di tutto un Dio fedele e se stesso, che sarà quello che era ed è sempre stato, e quindi fedele alle proprie promesse e agli uomini con i quali si è compromesso.

Non è facile per noi renderci conto della portata di una tale rivelazione: essa significa che la storia è stata, è e sarà sempre visitata da Dio (v.16), il quale è presente alle vicende umane pur restando, come si usa dire nei cieli.
La storia umana non gli è indifferente; egli anzi partecipa ad essa fino a conseguenze che potremmo dire estreme.

Di fronte a questo Signore del tempo che irrompe direttamente nella sua storia, Mosè tenta di esternare le proprie perplessità (vv.11 e 13), per ora con poco successo.
Dio lo pone di fronte al proprio Nome eterno, ossia alla propria identità più autentica e genuina; egli sa quali e quante difficoltà si pareranno davanti al popolo (v.16ss), sa che stanno per entrare in gioco il suo prestigio e il suo buon nome; promette perciò una liberazione sovrabbondante: non certo la fuga di una massa disordinata di schiavi come vedremo in seguito, secondo un’altra versione del racconto della liberazione.
Questo tema del nome divino avrà grande fortuna tanto nell’A.T. quanto nel N.T., nella tradizione ebraica come in quella cristiana.

Ambedue insistono sul fatto che Dio si rivela non in maniera indistinta e generica, ma con un nome proprio che identifica una realtà personale libera e provvidente.
Già l’A.T. presentava una serie di nomi divini legati, per così dire, alle circostanze in cui il popolo veniva a trovarsi: Pastore coi pastori e Guerriero con il popolo in guerra.
Tutti i diversi nomi confluiscono però in questo Io Sono che ricorre spesso nel Vangelo di Giovanni nelle formule in cui Gesù parla di sé e, nella logica del N.T., nel termine “Padre” che ricapitola e affina tutta la rivelazione del Dio compagno dell’uomo.
Nello stesso tempo il mondo ebraico associa a questo massimo di rivelazione un massimo di indicibilità, talché il Nome diventa impronunciabile: dire significherebbe limitare, denominare, definire, porre dei confini.

L’estrema libertà di Dio deve essere, al contrario, rispettata: con una serie di espedienti si farà in modo che il Nome non possa essere detto, neppure distrattamente, quando lo si legge: un’associazione linguisticamente assurda di consonanti e vocali fa in modo che lo si possa riconoscere ma non dire. Cosa questa che nel mondo ebraico dura tuttora.
Nominare una persona infatti vuole dire, in qualche modo possederla e questo con Dio davvero non si può fare. Solo l’incarnazione lo consente: un uomo deve essere chiamato.

La riflessione su questa tematica ci porterebbe quindi molto lontano. Basterà limitarla alla relazione tra Dio e la storia umana che noi conosciamo come storie di tragedie e di lutti, di Dio assente o in eclisse.
E’ caratteristica della fede, sapere scoprire il Nome divino che abbiamo visto in questa meditazione anche nelle intemperie storiche più avverse, trovando le tracce del suo Io sarò quello che ero, ossia Io Sono, allorché egli pare più lontano e silenzioso.