Apocalisse: I Due Testimoni

I DUE TESTIMONI

Capitolo 11. I due testimoni.

Il capitolo 11 è oscuro e pone il problema del metodo di lettura. Necessita leggere e rileggere più volte il brano. Ci vuole tanta pazienza per chiarire alcune singole espressioni, senza preoccuparsi del senso globale dell’insieme. Poi, in seguito, occorre invece scoprire le strutture dell’insieme.

L’atto di misurare indica distinzione e separazione o, meglio ancora, preservazione: ciò che è “misurato” è sottratto e preservato. Uno dei riti principali ai tempi in cui esisteva il Tempio era l’offerta dell’incenso, che significava connessione. Il Sommo Sacerdote introduceva nell’area più sacra del Tempio di Gerusalemme un incensiere d’oro con undici tipi di sostanze, di cui dieci profumate e una maleodorante, e invocare quindi il perdono dell’Eterno per tutto il popolo. Gli undici ingredienti dovevano essere preventivamente triturati finemente al fine di ricavare un’unica sostanza miscelata. A significare che solo fondendo le nostre individualità possiamo costituire un’unica entità. E solo se ci “connettiamo” tutti possiamo neutralizzare e integrare gli elementi dall’ “odore sgradevole”. Da quando questo rito non è stato più possibile il cerimoniale dell’incenso ha assunto nella liturgia quotidiana, un tono di rievocazione nostalgica per ricordare qualcosa che non si considera finito ma solo sospeso nel tempo. Resta, tuttavia, inalterato l’invito a macinare il nostro ego per metterlo al servizio della collettività. Una singolare e imprescindibile procedura per presentarci nel nostro intimo al Santo dei Santi.

Il tempio, l’altare, gli adoratori simboleggiano il popolo di Dio rinnovato, cioè la comunità cristiana. Il cortile esterno non è misurato; in altre parole non è sottratto e preservato, ma lasciato in balia della violenza dei persecutori.

La frase “è stato concesso ai pagani di calpestare la città santa” pare alludere alla caduta di Gerusalemme e alla profanazione del tempio che ne seguì. Ad ogni modo, di chiunque si tratti, è certo che le forze del male hanno un sopravvento, ma limitato ed effimero di chiunque si tratti, è certo che le forze del male anno un sopravvento, ma limitato ed effimero. I quarantadue mesi, sono la durata tipica, presa da Dn.7,25 e 12,7. Nel libro di Daniele, i tre anni e mezzo determinano la durata della persecuzione organizzata da Antioco Epifane. In seguito, questi tre anni e mezzo, vale a dire i quarantadue mesi o i 1260 giorni, designeranno tipicamente la durata della prova escatologica e il tempo della Chiesa sulla terra.

In questo quadro di lotta, ecco apparire sulla scena due testimoni, la cui identificazione costituisce il principale problema dell’intero brano. La descrizione dei due testimoni che se ne fa ai vv.3-4 si ispira a Zc, 4,2-14, testo che il giudaismo applicava volentieri ai grandi personaggi dell’era messianica. Nel nostro contesto pare designata la Chiesa, la quale ricapitola la testimonianza di Elia e di Mosè (v.6) e quella del Cristo morto e risorto a Gerusalemme (vv.7-12). Giovanni si accontenta di dirci che sono profeti e che il loro compito è la “testimonianza”. Chiusa la parentesi esplicativa, la narrazione riprende dicendo che i due testimoni, espletato il loro compito, sono vinti e uccisi dalla “bestia che sale dal mare”. Ritroveremo quest’ultima immagine al c.13 che simboleggia le forze demoniache che trovano la loro incarnazione storica nello stato pagano che si fa adorare.

I due testimoni sembrano davvero sconfitti. Una sconfitta pubblica e festeggiata. Tutto mondo la festeggia, “gli abitanti della terra manifestano la loro festa scambiandosi doni”. Tuttavia, anche questo trionfo è effimero e apparente: tre giorni e mezzo. Infatti, la potenza di Dio li fa risorgere, e un gran terremoto fa crollare la decima parte della città e fa perire settemila persone. Parevano sconfitti, ma in realtà sono vittoriosi. La conclusione, a differenza di altri quadri analoghi (9,21) è giusta: i superstiti “diedero gloria a Dio”. L’ultima parola non è il trionfo della bestia, ma dei due testimoni. Si evince un movimento di sconfitta (apparente e provvisorio) e di vittoria ( reale e definitiva), di morte e di resurrezione. In pratica è lo schema della vicenda che Gesù Cristo ha vissuto. Ed è un movimento che si conclude aprendosi sulla speranza poiché i superstiti daranno gloria a Dio. Giovanni non ci sta narrando di questo o di quest’altro fatto preciso, ma neppure sta scrivendo di una storia diversa da quella d’ogni giorno. Sta parlando di cose che si ripetono continuamente nella storia umana: sono già accadute nel passato, accadono nel presente e continueranno ad accadere nel futuro.

I cadaveri dei due testimoni restano esposti nella pubblica piazza della “grande città”. L’espressione grande città fa pensare a Roma. Tuttavia la successiva indicazione (“dove il loro Signore fu crocefisso”) fa pensare a Gerusalemme. Ma non solo, Giovanni ci comunica che “simbolicamente” si chiama Sodomia o Egitto. Si tratta di una sovrapposizione d’indicazioni che si sottraggono ad una collocazione precisa, verso uno schema: corruzione, paganesimo, ostilità a Cristo. Tutte cose che non appartengono ad un luogo solo, ma che trovano, di volta in volta, la loro incarnazione storica in questa o quest’altra società. Ma ritorniamo ai due testimoni. Sono talmente importanti che Giovanni avverte la necessità di offrirci, in un’ampia parentesi esplicativa, numerosi indizi per identificarli.

Chi sono?

I due ulivi e i due candelabri ci rinviano a Zaccaria 4,1-14. Per il profeta i due ulivi sono Giosuè e Zorobabele, i due capi, l’uno politico e l’altro religioso, della comunità ebraica da ritorno dell’esilio babilonese. Poi, per non farci soffermarci e legarci troppo sulle due figure, Giovanni interrompe la citazione e ci offre altre indicazioni. “Un fuoco esce dalla loro bocca”: l’immagine ci fa rammentare 2 Re 5,12: è la storia di Elia. I due testimoni sono due figure che assommano in sé i tratti di tutta la storia: una storia di profeti e di giusti – dell’Antico e del Nuovo Testamento – che trova la sua più completa realizzazione nella vicenda di Gesù Cristo.

Siamo giunti agli ultimi cinque versetti del c.11.Il contenuto dell’annuncio è semplice, e lo potremmo esprimere con le medesime parole con cui l’evangelista Marco ha iniziato il suo Vangelo, riassumendo in una formula lapidaria l’intera predicazione di Gesù: “Il tempo è compiuto” (1,15).

Annuncio essenziale e atteso: è finito il tempo in cui le forze del male la facevano da padrone nel mondo, la signoria del mondo è passata nelle mani del Signore Gesù.

Non è possibile un annuncio più semplice e più importante di questo. E Giovanni lo ha preparato fin dall’inizio: le sue prime parole (1,1) assicuravano che egli avrebbe svelato “le cose che devono accadere fra breve”, e che “il tempo è vicino” (1,3; 10,6): più avanti ci ha raccomandato di pazientare “ancora un poco” (6,11); e in più occasioni ci ha fatto capire che le forze del male hanno i giorni contati (2,10; 9,5; 11,2).

La consumazione del “mistero di Dio” (10,7), che la settima tromba aveva il compito di annunciare, è dunque questo: la regalità del mondo è passata nelle mani di Dio e del suo Messia. Si tratta, in definitiva, della “lieta notizia” dei racconti evangelici.

All’annuncio dell’avvento della regalità di Dio sul mondo, i ventiquattro anziani – che fanno corona al trono di Dio – rispondono con un gesto di adorazione e con un inno di ringraziamento. L’adorazione è il loro gesto abituale (4,10; 5,8.14). E l’inno di ringraziamento riprende e precisa il tema dell’annuncio: Dio ha fatto uso della sua potenza e ha assunto il regno, ha vinto la ribellione dei popoli e ha giudicato i morti: da una parte i servi di Dio, profeti e santi e tutti coloro che, piccoli e grandi, noti e ignoti, temono il Signore; dall’altra, quelli che “sconvolgono la terra”.

“Allora il tempio del cielo si aprì e apparve l’Arca dell’Alleanza”. La visione dell’apparizione – insieme a lampi, grida, tuoni, terremoto e grandine, che sono i segni abituali che accompagnano le teofanie divine (Es.19,16; Ez.4,5) – significa dunque che il “compimento” di Dio non consiste semplicemente nella vittoria sulle forze del male nel giudizio, ma in una presenza divina nuova e definitiva, in una comunione senza rotture.

Il capitolo 11 è interamente dominato dall’idea del compimento: la regalità del mondo è passata nelle mani di Dio. Il compimento – vittoria sulle forze del male e sulla ribellione dei popoli, il giudizio, la venuta di Dio – è proclamato e affermato, ma non descritto. Ancora non è detto come Dio ha vinto la ribellione delle genti e ha giudicato coloro che sconvolgono la terra, e ancora non sono indicate le modalità della nuova e permanente presenza di Dio.

Lo faranno i capitoli successivi.

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