Vangelo di Giovanni – Cap 1,1-18 a 1,35-51

Michelangelo Buonarroti. La creazione di Adamo

Prologo

Capitolo 1,1-18

In principio era il Verbo, e il Verbo era vicino a Dio, e il Verbo era Dio. *Egli era da sempre vicino a Dio. *Tutto venne all’esistenza per mezzo di lui, e senza di lui nulla fu creato di ciò che esiste. *In lui era la vita, e la vita era la luce degli uomini. *E la luce brilla nelle tenebre, e le tenebre non l’hanno afferrata. *Ci fu un uomo, inviato da Dio, chiamato Giovanni. *Venne come testimone, per testimoniare in favore della luce, affinché tutti credessero per mezzo suo. *Non era lui, la luce, ma solo il testimone della luce. *Il Verbo era la vera luce, che illumina ogni uomo venendo nel mondo. *Era nel mondo, e il mondo fu creato per mezzo suo, eppure il mondo non lo riconobbe. *Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’accolsero. *A quanti invece l’accolsero, a quelli che credono nel suo nome, diede il potere di divenire figli di Dio: costoro non sono generati da sangue, né dal volere della carne, né dal volere di un uomo, ma da Dio. *E il Verbo si fece carne e pose la sua dimora in mezzo a noi, e noi abbiamo veduto la sua gloria, gloria che come Unigenito riceve dal Padre, pieno di grazia e verità. *Giovanni testimonia in suo favore e proclama: Era di lui che affermavo: che viene dopo di me è passato davanti a me, perché era prima di me. *Tutti abbiamo ricevuto dalla sua pienezza, grazia su grazia. *La legge fu donata tramite Mosè, ma la grazia e la verità si sono rivelate in Gesù Cristo. *Dio non lo ha mai veduto nessuno: l’unico Figlio, che vive nel seno del Padre, lui ce ne ha dato notizia.

L’inno è posto come prologo e guida tutta la comprensione del vangelo ed è perciò in questa prospettiva che è necessario meditarlo. I concetti del prologo sono ripresi e sviluppati nel corso del vangelo. La teologia del prologo prepara la storia del vangelo stesso e ne indica il significato profondo, diciamo che ci offre la chiave per coglierne il vero significato. Nel prologo, in altre parole, si asserisce che il Verbo è la luce che brilla nelle tenebre, che diventa carne, che fu rifiutato, che manifestò la sua gloria.
L’inno si divide in tre parti:

vv.1-5, il Verbo e la sua storia di rivelazione e salvezza, una storia combattuta: questo contiene già, in breve, tutta la vicenda di Gesù ma espressa ancora in termini molto personali;

vv.9-13, è ripresa la medesima narrazione di rivelazione e salvezza, storia combattuta: si precisa però il dono che il Verbo offre e le condizioni per riceverlo;

vv.14-18, ancora la storia del Verbo, precisamente però l’incarnazione, il dono salvifico.

Il soggetto dei primi diciotto versetti è il Verbo, mentre i personaggi sono tre: Gesù (Il Verbo), il Battista, e Giovanni, il discepolo che scrive. Il vangelo di Giovanni si apre, come abbiamo visto, con una visione di verità, uno splendore inesprimibile, una bellezza infinita che ci comunica una profonda felicità e gioia.

In principio era il Verbo… La prima frase, come un lampo, spalanca d’un colpo la cortina che protegge il mistero di Dio. Il Velo del Tempio, che nasconde la presenza di Jahvè, è squarciato in due. L’ammirabile e impressionante, ma ancora imperfetta rivelazione di Dio nell’A.T. raggiunge la sua perfezione nel Nuovo. Il vangelo rivela agli uomini il mistero della vita intima di Dio; getta un prodigioso raggio di sole sul santuario interiore. Dio confida il suo segreto ai suoi figli, ai suoi amici, ai suoi prediletti; lo confida a tutti noi. Il Libro della Genesi ci mostra Dio in relazione col creato: “In principio Dio creò il cielo e la terra” (Gen.1,1). Più tardi, lungo la Scrittura, Dio si manifesta come il Santo, Colui che E’, l’Immutabile, il Fedele, Colui che ama il suo popolo. Il vangelo di Giovanni ci parla di Dio in se stesso: “In principio… il Verbo era presso Dio”. L’impenetrabile, l’eterno e primordiale mistero del segreto di Dio è rivelato a semplici creature. Con un atto d’amore che manifesta l’intera fiducia che egli accorda agli uomini, Dio parla e rivela di essere il Padre che genera suo Figlio da tutta l’eternità. La sua Parola dimora nel suo figlio. Dio ci fa conoscere la ricchezza della sua natura, l’essenza del suo amore, il dono che fa di sé, il modo con cui comunica al Figlio le sue perfezioni.

E il Verbo era presso Dio… Fin dall’inizio, il vangelo ci rivela il mistero di Gesù e la sua identità. Gesù è una cosa sola con Jahvè – Io Sono: il Signore nostro Dio, il Dio d’Abramo, d’Isacco e di Giacobbe, il Dio dei veri credenti, il Dio che crea e salva. La Sapienza di Dio ora si è fatta conoscere: è una persona, è la Parola vivente del Padre e abita in lui, Gesù Cristo. La rivelazione della vita intima di Dio ci riempie d’ammirazione e ci guida alle più alte vette della contemplazione: vedere e possedere Dio, così com’è, nello splendore della sua santità e della sua gloria. Il Figlio vive col Padre, partecipa della sua vita e della sua perfezione e trova la sua delizia nel rimanere nel suo amore.

E il Verbo era Dio. L’affermazione ci fa sussultare come un colpo di tuono. Il Cristo del quale il vangelo ci racconta le azioni e ci trasmette il messaggio, è la Parola, il Figlio eterno del Padre: Dio come il Padre. Nessuno mai ha visto Dio, ma il suo Figlio Unigenito è venuto dal cielo e lo ha rivelato. Nessuno, si diceva sotto l’antica Legge, può vedere Dio e vivere. Ma la nuova Legge proclama: conoscere Dio è vivere.

Tutto è stato fatto per mezzo di lui: precedendo la creazione Egli ne è il capo costruttore. Il Verbo è qui presentato come il mediatore grazie al quale la creazione e gli esseri creati vengono all’esistenza.

Giovanni non chiama Cristo il Creatore, un titolo che nel NT è riservato al Padre (cfr. Col 1,15 ss.) ma mediatore della creazione (“per mezzo di lui”). Questa mediazione della Parola nella creazione, però, non implica una subordinazione ma soltanto un ordine logico.

La Parola creatrice di Dio, una concezione eminentemente biblica (Gen 1,3; Is 48,13; Sir 42,15) è identificata dai rabbini con la Torà (Legge).

Senza di lui nulla è stato fatto di tutto ciò che esiste: quest’espressione esprime la stessa verità in forma negativa; è posto l’accento che la creazione, giacché distinta dalla Parola, incominciò ad esistere, e che la Parola è la causa di questa sua esistenza.

In lui era la vita: ogni esistenza creata (animata o inanimata) ha sempre avuto la sua origine nella vita della Parola, e la vita che gli uomini ricevono dalla Parola è un dono di Dio per mezzo di Cristo, una specie di partecipazione all’essere di Dio. Questa affermazione fa da introduzione ai vv. 14 ss, nei quali si asserisce chiaramente che la vita soprannaturale dell’uomo è una partecipazione alla vita divina della Santissima Trinità.

La vita era la luce degli uomini: vicino a Dio, Dio egli stesso, il Verbo vive fin dalle origini una relazione unica con gli uomini: tutto ciò che vive, riceve l’essere da lui. Egli è la luce che illumina ogni uomo, vale a dire il principio che permette ad ogni uomo di comprendere se stesso.

La luce splende nelle tenebre: qui per la prima volta si fa notare che esiste una resistenza, un’opposizione alla luce. Le tenebre indicano un mondo dominato dal male che si oppone alla rivelazione della luce. La seconda parte del versetto (“le tenebre non l’hanno accolta”) potrebbe essere tradotta così: “Le tenebre non l’hanno sconfitta”. L’ingresso di Cristo-luce nella storia crea tensione e rifiuto, ma anche accettazione nella fede.

Ci fu un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni: Con quest’espressione entriamo nella storia contemporanea. L’evangelista parla del Battista, che di poco precede la missione di Colui che è la Parola. Il Battista è un testimone della luce, ma non la luce stessa. Giovanni rende solo testimonianza alla luce davanti alle autorità giudaiche (1, 19-34), davanti al popolo d’Israele (1, 31-34) e davanti ai propri discepoli (1, 35-37). L’ultima volta che Giovanni è menzionato nel vangelo, è quando viene elogiato per essere stato un testimone fedele: “Tutto ciò che egli disse di Gesù era vero” (Gv 10,41). In altre parole, Giovanni Battista ha portato a termine il compito che Dio gli ha affidato: preparare la via al Messia.

“Veniva nel mondo la luce vera”: appare qui un aggettivo (“vero”) che tornerà spesso nel vangelo: vero pane (6,32), vera bevanda (6,55), vera vita (15,1). Nell’uso ebraico, “vero” caratterizza in primo luogo l’ordine divino (cfr. 7,28; 17,3), che viene contraddistinto dall’illusione e dalla fallacia dell’ordine dell’uomo peccatore (cfr. Rm 3,4).

Gesù, come Vita e Luce, fu sempre presente agli uomini, ma essi non lo riconobbero (il mondo non lo riconobbe). L’idolatria imperante ai tempi dell’evangelista e quella precedente, come pure l’ateismo moderno, nelle sue diverse forme, lo dimostrano. Colui, che è la parola, era già presente in tutta la storia del popolo eletto. Più avanti si parlerà di Luce e Acqua che disseta, per rammentare due fatti espressivi dell’Esodo: la nube luminosa, che guida Israele, e l’acqua, che zampilla dalla roccia. Eppure i suoi non l’accolsero, e Giovanni nel dire questo pensa soprattutto agli Ebrei dei suoi tempi che non ubbidiscono a Mosè e non accolgono la Parola di Dio che risuona nelle Scritture. Per questo non sono capaci di accogliere Colui che è la Parola. Infine, pensando a se stesso e agli altri discepoli d’origine ebraica, aggiunge: A quanti però l’accolsero. Non tutto Israele ha rifiutato Gesù, alcuni lo hanno accolto, hanno creduto nel suo nome e furono trasformati: ricevettero il potere di diventare figli di Dio, non per adozione, ma mediante una vera nascita.

Essi, infatti, sono figli di Dio non per il sangue, né per desiderio carnale o per volontà d’uomo, ma perché da Dio sono nati. Giovanni spiegherà più tardi quest’evento, ma fin d’ora è chiaro che il fatto della figliolanza divina è legato alla totalità del mistero di Gesù.

E il Verbo si fece carne: senza cessare d’essere Verbo, il Verbo entra nel tempo. Colui che esisteva da tutta l’eternità è entrato nel tempo e nella storia umana. Questo è il tremendo mistero dell’Incarnazione per cui la Parola eterna assunse la nostra identica natura umana, divenendo in tutto simile a noi, fatta eccezione per il peccato (Eb 4,15). Cioè in tutto, escluso ciò che era incomprensibile con la divinità.

Questa è una delle affermazioni più incisive di tutto il vangelo. Per esprimere questo mistero, Giovanni ha deliberatamente scelto l’immagine biblica della tenda: “Ha posto la sua tenda in mezzo a noi”. Il vocabolo evoca la tenda del deserto (Es 25, 8-9) costruita perché Dio potesse “abitare in mezzo a loro”. Il tempio di pietra di Sion (come si dirà esplicitamente in Gv 2, 18-22) è ora sostituito dalla “carne” di Gesù, cioè dalla sua corporeità e dalla sua esistenza storica che condivide con noi.

A partire dal versetto 14 la parola “Verbo” sparisce dal Vangelo. Ora che Giovanni ha definitivamente raggiunto il punto culminante della sua introduzione parlando della Parola divenuta carne, non la chiama più la Parola ma Gesù: il Vangelo è una testimonianza non alla Parola eterna ma alla Parola fatta carne, Gesù Cristo, il Figlio di Dio. Ormai si lascia vedere soltanto l’uomo-Gesù e, lungo tutto il suo vangelo, Giovanni si compiace di rilevare l’umanità di Gesù.

Giovanni gli rende testimonianza: Il Battista è presentato come una persona nota ai lettori. A differenza dei sinottici, il vangelo Giovanni non contiene alcun elemento biografico su di lui: la sola cosa che lo interessa è la testimonianza resa a Gesù. Infatti, mentre nei sinottici il Battista è il precursore, qui la sua funzione si limita a quella di testimone, e la sua testimonianza è possibile e convalidata dal fatto che è mandato da Dio. Giovanni vede dunque nel Battista il testimone, e questo rientra perfettamente nel tema del prologo e del quarto vangelo. Così la menzione di Giovanni non è solo per dirigere il pensiero alla storia, ma precisamente per introdurre il tema della testimonianza. In seguito vedremo che il Battista è colui che vede e capisce chi è Gesù, annuncia a chi non ha visto e capito, suscita discepoli a Gesù. La testimonianza è tutto questo, ed ha sempre come oggetto la persona di Gesù, il suo significato profondo: è sempre cristologia; la testimonianza è ordinata alla fede: è un invito a credere; la testimonianza rimanda alla storia, suppone il vedere: non però il semplice vedere fisico (come quello dei giudei che videro ma non compresero), ma il vedere che sa cogliere la presenza di Dio in Gesù; la testimonianza è sempre in una situazione conflittuale, d’opposizione, di giudizio: qui nel prologo l’opposizione fra la luce e le tenebre, l’accettazione e il rifiuto. Si tratta, in un modo o nell’altro, di un processo. l’Inno finisce con una successiva testimonianza del Battista, che afferma il primato di Cristo che è “prima” di lui, anche se venuto cronologicamente “dopo” di lui nella storia umana. Si esalta poi la missione del Figlio di Dio presso l’umanità. Egli offre all’uomo soprattutto “la grazia e la verità”. La missione della Parola nel mondo fu precisamente quella di porre gli uomini in grado di divenire figli di Dio, partecipi cioè della vita divina.

Le riflessioni sul Prologo, ci portano a concludere che: il Logos, che all’inizio del prologo appare in tutto il suo splendore e potenza, s’immerge paradossalmente nell’abisso della nostra miseria e fa della quotidianità e della ferialità dell’uomo, lo spazio dove piantare la sua tenda. Non possiamo che contemplare provando una gioia inesprimibile nell’apprendere la notizia inaudita che questo Verbo è disceso fino a noi per dichiararci l’Amore di Dio. Gioia nel contemplare che Lui è il nostro “principio”, che noi eravamo amati prima ancora di essere creati e che saremo amati per sempre. La nostra esistenza è immersa nel mistero dell’amore di Dio per l’uomo. Con l’Incarnazione del Figlio di Dio l’eterno entra nel tempo ]e il tempo viene assunto dall’Eterno, perché in Gesù Cristo il tempo raggiunge la sua pienezza: “Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli” (Gal 4, 4-5). La dimensione ordinaria e cronologica dell’esistenza (krònos) diventa kairòs, luogo dell’incontro con l’amore gratuito di Dio e, attraverso di esso, della piena realizzazione dell’uomo. C’è una ricchezza nella propria giornata, quando il tempo è vissuto come “kairòs”. Non è necessario evadere dalla quotidianità per sentirsi vivi.

Parlare di quotidianità significa parlare di esperienza, di lavoro, di studio, di tempo libero, di relazioni, di uso di beni, in una parola di tutto quel complesso che chiamiamo “realtà temporali” o “beni penultimi”. E’ in questa quotidianità che Dio si rivela. La storia eterna della Parola è storia di donazione, creazione e salvezza non solo per i credenti ma per tutti gli uomini, poiché “tutti i confini della terra vedranno la salvezza del nostro Dio” (Is 52,10).

La testimonianza del Battista

Capitolo 1,19-34

*Ecco la testimonianza di Giovanni allorché i giudei gli mandarono da Gerusalemme soldati e leviti per interrogarlo: Tu, chi sei? *Egli dichiarò apertamente, senza sottintesi: Non sono io il Cristo. *Gli domandarono: Chi allora? Sei Elia? Dice: Non lo sono. Sei il profeta? Rispose: No. *Replicarono: Chi sei? Dobbiamo pur dare una risposta a coloro che ci hanno mandato. Che cosa dici di te? *Disse: Io sono la voce di uno che grida nel deserto: raddrizzate la strada del Signore, come disse Isaia il profeta. *Gli inviati appartenevano alla setta dei farisei. *Ripresero: Perché allora battezzi, se non sei né il Cristo né Elia né il profeta? *Rispose loro Giovanni: Io battezzo con acqua, ma in mezzo a voi sta uno che voi non conoscete; *egli viene dopo di me, e io non sono degno di scioglierli neppure il legaccio dei calzari. *Questo capitò a Betania, oltre il Giordano, dove Giovanni stava a battezzare. *Il giorno dopo egli vede Gesù venire verso di lui e dice: Ecco l’Agnello di Dio, che toglie i peccati del mondo. *Questi è colui del quale vi dissi: Dopo di me viene un uomo che è passato davanti a me, perché era prima di me. *Io non lo conoscevo, ma perché fosse manifestato a Israele venni a battezzare nell’acqua. * E Giovanni testimoniò: Ho veduto lo Spirito discendere come colomba dal cielo e posarsi sopra di lui. *Io non lo conoscevo, ma colui che mi mandò a battezzare nell’acqua mi disse: L’uomo sul quale vedrai scendere e posarsi lo Spirito, quello battezzerà nello Spirito Santo. *Io l’ho veduto e ho testimoniato: è il Figlio di Dio.

Giovanni Battista testimonia su se stesso
Per quanto breve, semplice e nascosta possa essere la nostra vita, sarebbe sufficiente a darle un valore infinito, se servisse anche solo a togliere un ciottolo dalla strada per appianare la via alla venuta del Signore nel cuore di un fratello. Giovanni temprato nella solitudine del deserto alla meditazione e alla penitenza, cerca di nascondersi e quasi scomparire in colui che deve presentare al mondo. Ogni cristiano è chiamato ad essere un battistrada del Cristo, una voce che grida nel deserto del mondo, portatore del Verbo, banditore del suo vangelo.

E’ così che l’evangelista ci ha già presentato nel prologo Giovanni Battista come testimone di Cristo. Ora, in questi versetti, sviluppa questa testimonianza spiegando l’occasione in cui avviene, a chi fu rivolta, il suo contenuto. La testimonianza è data in due giorni: 1,19-28, testimonianza indiretta e negativa, nel quadro di un’inchiesta ufficiale dei giudei che chiedono a Giovanni di definirsi in rapporto all’attesa messianica, ed egli risponde negativamente per tre volte (non è né il Cristo né Elia né il profeta): è soltanto la voce che apre la strada al Messia. Al tempo di Gesù, i giudei aspettavano la venuta del messia – Prima di tutto il “battesimo” aveva una dimensione messianica perché, per mezzo di esso, si otteneva la purificazione necessaria per partecipare della salvezza messianica.

Ecco perché i giudei credevano che Giovanni Battista fosse il messia, perché la sua attività di battezzatore poteva far pensare all’arrivo degli ultimi tempi.

– Il Battista, quindi, anche se battezza, nega di essere il messia atteso, ma nega anche di essere “Elia”, il cui ritorno era previsto prima di quello del messia. Il rapimento di Elia sul carro di fuoco (2 Re 2,11) aveva dato origine ad alcune leggende sulla vita e sul ritorno del grande profeta.

– Infine, Giovanni Battista nega anche di essere il “profeta” ultimo e definitivo che Mosè aveva promesso in Deut 18, 15-18: “Il Signore tuo Dio susciterà per te, fra i tuoi fratelli, in mezzo a te, un profeta come me”.

Così, il battesimo di Giovanni, come le sue parole mirano a far sì che l’attenzione del popolo si sposti dalla sua persona a quella di Cristo. Infatti, il battesimo d’acqua, quello di Giovanni, suggerisce e annunzia quello dello Spirito, del quale parlerà espressamente più avanti. Con la sua testimonianza Giovanni mira a far conoscere lo sconosciuto, che è già presente ed è il portatore della salvezza. Nei vv.1,29-34, egli dà testimonianza diretta e corretta, rivolta ad Israele. Dunque il motivo centrale della figura del battista è la testimonianza. Egli non attira l’attenzione su un Messia assente e che verrà, ma su un Messia già in mezzo a noi ma che noi non conosciamo.

L’evangelista Giovanni attraverso le parole del Battista ci presenta Gesù come colui che “toglie”, o meglio, che “prende su di sé” il peccato del mondo. La traduzione italiana “togliere” suggerisce l’idea di “eliminare”, mentre il verbo greco “arein” significa letteralmente “prendere su di sé”. Gesù agli inizi della sua missione, incomincia il suo cammino fra i peccatori e in solidarietà con loro, “prendendo su di sé i loro peccati”.

Gesù, dice ancora l’evangelista, è “l’agnello” di Dio. Questa immagine biblica rievoca quella del servo sofferente di Jhawè che, come agnello mansueto, viene condotto al macello e porta su di sé i peccati del popolo (Isaia 53, 4-7.11-12). Ma l’immagine richiama anche l’agnello pasquale di Esodo (12,46) che l’evangelista accosterà più tardi alla morte innocente di Gesù in croce: “Non gli sarà spezzato alcun osso” (Gv. 19,36).

Entrambi questi riferimenti portano a vedere nella figura di Gesù il mediatore tra Dio e gli uomini, che accetta di prendere su di sé le conseguenze del male del mondo con un estremo atto d’amore e d’offerta di sé a Dio, in solidarietà con tutti gli esseri viventi, facendosi, per così dire, come gli agnelli sacrificati nel tempio, “olocausto perenne per tutte le generazioni” (cfr. Es 29,42).

La testimonianza del Battista termina con la proclamazione di Gesù “Figlio di Dio”. Tale riconoscimento non è frutto di conoscenza umana, ma è conseguenza del dono dello Spirito. Infatti, Giovanni dichiara di non aver conosciuto la persona di Gesù nella profondità del suo mistero di Figlio di Dio, se non dopo aver visto “lo Spirito scendere come una colomba dal cielo e posarsi su di lui” (Gv 1,32; cfr. Is 11,2; 61,1). Riconoscere in Gesù “il Figlio di Dio” non è un atto di fede che nasce da noi, ma un dono dello Spirito Santo. Prima il Battista non conosceva Gesù, pur essendo suo parente secondo la carne, ma Dio gli ha aperto gli occhi, gli ha fatto riconoscere la sua presenza, gli ha concesso non solo di ascoltare la sua parola, ma di “vedere”.

La visione” dello Spirito, vale a dire la profonda esperienza di fede che fa entrare più a fondo nel mistero di Dio, spinge alla testimonianza. Il vangelo e le lettere di Giovanni insistono molto sulla fede come esperienza, donata dallo Spirito, che coinvolge tutta la persona. E spinge a rendere testimonianza: “Ho visto e ho reso testimonianza” dice il Battista.

Alcuni discepoli di Giovanni Battista vanno a Gesù

Capitolo 1, 35-51

*Il giorno dopo Giovanni stava di nuovo in quel luogo e con lui c’erano due suoi discepoli. *Egli vide passare Gesù e disse: Ecco l’Agnello di Dio. Lo udirono i suoi discepoli e seguirono Gesù. *Gesù si volse e vide che lo seguivano. Chiese: Che cosa cercate? Risposero: Rabbi – che si traduce maestro – dove dimori? *Rispose loro: Venite e vedrete. Andarono e videro dove dimorava. Rimasero con lui per quel giorno, dalle quattro del pomeriggio. *Andrea, fratello di Simon Pietro, era uno dei due che avevano udito Giovanni e avevano seguito Gesù. *Egli incontra per primo suo fratello Simone e gli dice: Abbiamo trovato il Messia (che si traduce Cristo). *Lo condusse da Gesù. Gesù, fissatolo, disse: Tu sei Simone, il figlio di Giovanni, tu sarai chiamato Cefa. *Il giorno dopo Gesù decise di partire per la Galilea. Trova Filippo e gli dice: Seguimi. *Filippo era di Betsaida, la città di Andrea e Pietro. *Filippo trova Natanaele e gli dice: Abbiamo trovato colui del quale scrissero Mosè nella legge e i profeti: è Gesù, il figlio di Giuseppe, di Nazareth. *Gli rispose Natanaele: Può forse venire qualcosa di buono da Nazareth? E Filippo: Vieni e vedi. *Gesù, vedendolo venire, disse di lui: Ecco un vero israelita senza ipocrisia. *Come fai a conoscermi? Gli chiese Natanaele. Rispose Gesù: Prima che Filippo ti chiamasse ti ho veduto mentre stavi sotto il fico. *Natanaele esclamò: Rabbi, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d’Israele. E Gesù: Perché ho detto di averti veduto sotto il fico tu credi? Vedrai cose ben più grandi di queste. * E continuò: In verità vi dico, vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell’uomo.

E’ soltanto da Giovanni che veniamo a sapere che i primi discepoli che hanno seguito Gesù erano stati originariamente discepoli del Battista. I sinottici, invece, ci parlano della chiamata dei primi discepoli (Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni) durante la pesca ” mentre gettavano le reti in mare. Infatti, erano pescatori (Mc. 1,16). Giovanni vedendo avvicinarsi di nuovo Gesù griderà: “Ecco l’Agnello di Dio”. Due discepoli di Giovanni guardano a Gesù e ne sentono attratti. Gesù fissa i discepoli e chiede: “Cosa desiderate?”. Uno dei due discepoli del Battista era quel Giovanni che diventerà l’evangelista che come aquila fisserà il sole della verità di Cristo, e inizierà il vangelo con l’inno: “In principio era il Verbo…”

L’evangelista fu colpito dalle parole del Battista: “Ecco l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”, dette due volte. Egli era un discepolo “puro” del Battista e poi del Cristo, sul cui petto meritò di posare il capo. L’adesione a Gesù non è solamente il risultato dell’iniziativa di Giovanni Battista, ma è preceduta dalla scelta libera e dalla chiamata dei discepoli da parte di Gesù, Giovanni è solo un intermediario.

I primi due discepoli rimangono con lui dalle quattro del pomeriggio. Non vengono precisati né le ragioni, né il luogo, e questa descrizione contribuisce a dare al racconto una dimensione misteriosa e aperta: ogni credente è invitato a fare lo stesso cammino. Credere passa spesso attraverso mediazioni umane, ma l’essenziale consiste nella chiamata del Signore e nella risposta a Lui. Quali che siano le circostanze (Andrea intermediario per Pietro, Filippo per Natanaele; chiamata diretta per Filippo), è sempre Gesù che conserva l’iniziativa con la profondità del suo sguardo e la sua parola incisiva che chiama i discepoli. L’evangelista non ci dice nulla dell’accoglienza di Simon Pietro, ma s’interessa soprattutto all’annuncio di Gesù riguardo al nome nuovo che un giorno riceverà “Cefa”, cioè Pietro. Giovanni risponde così ad un duplice scopo: in primo luogo sottolineare l’autorità di Gesù che si comporta qui come il rivelatore; e poi porre Pietro fin dall’inizio in posizione di preminenza, lui sarà il portavoce dei Dodici (6,67) e il pastore del gregge (c. 21).

Filippo è, dopo Andrea e Simon Pietro, il terzo discepolo che viene chiamato con il suo nome: tutti e tre vengono da Betsaida, città di pescatori situata in riva al lago di Tiberiade. Nei sinottici il suo nome è menzionato soltanto nella lista dei Dodici (Mc 3,18). La sua chiamata riprende una formula frequente nei sinottici: “Seguimi!”. Ma è soprattutto l’incontro con Natanaele[ che interessa il narratore. Il suo scetticismo, dopo aver conosciuto l’origine di Gesù, è spiegabile: il Messia non poteva venire da una città insignificante come Nazareth. Questo contrasto tra il Messia glorioso atteso e l’origine umile di Gesù è lo scandalo dell’incarnazione. La fede deve vincere l’ostacolo della carne e riconoscere nell’uomo Gesù l’inviato di Dio. Come ha fatto per Pietro, Gesù manifesta un sapere inaspettato anche per Natanaele: “Ti ho visto sotto il fico. Nel vangelo di Giovanni, Gesù dà spesso prova di una conoscenza superiore degli avvenimenti e delle persone (2,25; 6,61; 13,1), e d’essere padrone d’ogni situazione che gli si presenta.

Alla fine del brano troviamo il titolo “Figlio dell’uomo” che a differenza dei sinottici che fanno riferimento a Dan. 7,13 Giovanni s’ispira alla scala di Giacobbe (Gn 28,10-17). Come in quell’episodio della Genesi, il riferimento agli angeli significava l’incontro e la comunicazione di Dio con gli uomini, così qui Gesù, poiché Figlio dell’uomo, è diventato il luogo d’incontro tra Dio e l’uomo, tra il cielo e la terra.

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