Vangelo di Marco – Cap 4

Parabola del seminatore
Cap. 4,1-9

La parabola del seminatore

*E di nuovo cominciò a insegnare in riva al mare. Ed essendosi radunata una grande folla intorno a lui, egli entrò in una barca e se ne stava in mare, mentre la gente era a terra sulla riva. *E insegnava loro soprattutto in parabole e diceva loro nel suo insegnamento: *Ascoltate: Ecco, il seminatore uscì a seminare. *E nel seminare avvenne che parte del seme cadde lungo la strada e vennero gli uccelli e se lo beccarono. *E altro cadde sul suolo roccioso, dove non trovò molta terra e subito spuntò, non avendo fondo di terra, *ma levatosi il sole, riarse, e per mancanza di radici seccò. *E altro ancora cadde fra le spine; e le spine crebbero e lo soffocarono e non fece frutto. *E altro ancora cadde nella terra buona, e rese, crebbe e granì e produsse dove il trenta, dove il sessanta e dove il cento per uno. *E diceva: Chi ha orecchi per intendere intenda.

Nella parabola Gesù è di fronte alla folla, nell’atteggiamento del maestro che insegna stando seduto. La parabola del seminatore si apre e si chiude con l’imperativo dell’ascolto, perché ascoltare è insieme sentire e obbedire. “Chi ha orecchi per ascoltare ascolti”, la frase allude ad un ascolto attento, all’orecchio proteso per udire tutto distintamente senza perdere alcuna parola. E suggerisce l’importanza, ma anche la misteriosità di ciò che è detto. Qui “orecchio” sta per intelligenza: ciò che viene detto è, infatti, qualcosa da decifrare, e richiede l’attenzione della mente e del cuore. Disposizione che però non tutti hanno, vale a dire che esiste l’eventualità di non capire.

La parabola del seminatore è quindi importante, va decifrata, è oggetto di un discernimento: alcuni comprendono, altri no. Le parabole s’illuminano per chi è disponibile, restano oscure per chi ha il cuore indurito.

La parabola narra la storia di una semina: “Ecco, uscì il seminatore a seminare. E nel seminare…”. Una sola semina, lo stesso seminatore, lo stesso seme, gli stessi gesti, la medesima fatica, e tuttavia gli esiti sono diversi. Ad un’attenta lettura balza all’occhio che non il seminatore né il terreno sono al centro della parabola, ma il seme. Il seminatore compare all’inizio, poi non se ne parla più. E a parte il suo gesto iniziale, di lui non si dice nulla, né una parola né una reazione: sulla sua fatica, le sue speranze, le sue delusioni, la sua gioia per il raccolto abbondante. L’attenzione deve perciò concentrarsi sul seme; non sulle sue qualità, di cui nulla viene detto, bensì sulla sua sorte.

Tuttavia, sarebbe fuorviante fermare l’attenzione esclusivamente sul seme, infatti, la figura del contadino svolge una funzione assolutamente necessaria alla narrazione. Dicendo “uscì il seminatore a seminare”, la parabola fa subito intendere che le quattro scene di cui si compone non costituiscono quattro storie diverse, ma una sola: quella, appunto, di un contadino che getta il seme nello stesso campo e nello stesso giorno. Fuori metafora: le quattro vicende del seme rappresentano gli esiti doversi dell’unica seminagione fatta da Gesù.

La parabola racconta la storia del suo ministero. E’ una parabola cristologia, anche se poi le successive comunità dei discepoli vi leggeranno la propria storia. Ma ritorniamo alla struttura della parabola. I primi tre quadri sono la storia di un ripetuto fallimento; caduto sulla strada o fra i sassi o fra le spine, il seme non frutta. Soltanto nell’ultimo quadro si legge che il seme, caduto sul terreno buono, porta molto frutto. L’evidente insistenza sulla sfortuna del contadino conferma quanto abbiamo già intravisto: e cioè che la situazione in cui la parabola va collocata è quella di una fatica che pare troppo spesso inutile e di un insuccesso della Parola che sembra totale o quasi.

Tuttavia, le cose non stanno così, dice la parabola. E’ vero che ci sono gli insuccessi, anche ripetuti, ma è certo, sempre certo, che una parte del seme frutta. Quindi, fratelli e sorelle, questo è un invito alla fiducia. In questione non è precisamente la verità della Parola, bensì la sua efficacia. Ciò che fa problema non è la bontà del seme, ma la sua concreta capacità di portare frutto. Non raramente è più difficile aver fiducia nell’efficacia della Parola piuttosto che fede nella sua verità. In un certo senso, possiamo paragonare la parabola del seminatore ad una storia a lieto fine: dopo i ripetuti fallimenti, ecco il successo che ripaga della fatica. In ogni modo di fronte alla ripetuta constatazione che in molti terreni il seme non frutta, sarebbe logico chiedersi per quali ragioni questo accadesse. Domanda importante, alla quale il Vangelo risponde più avanti in 4,13-20.

Tuttavia, l’interesse prevalente della parabola è un altro, come dicevo all’inizio. Chiedersi perché i terreni non permettano al seme di fruttificare, è questione importante, che però riguarda gli altri. La parabola mira piuttosto non alle ragioni dei molti fallimenti, ma all’atteggiamento di fiducia che l’annunciatore della Parola deve assumere quando li incontra. Sottolinenando per tre volte l’insuccesso, Gesù mostra chiaramente la situazione storica ed esistenziale in cui la parabola va letta: una situazione nella quale il lettore cristiano non ha difficoltà a scorgere l’esperienza di Gesù e la propria.

Proprio per questo Gesù sposta l’attenzione dell’ascoltatore sull’abbondanza del raccolto: e lo fa con una serie di sottili contrapposizioni. Nei primi tre quadri la sorte del seme è descritta con “gli uccelli lo beccarono, il sole lo riarse, le spine lo soffocarono”. Invece, nel quarto i verbi sono all’imperfetto: “dava frutto, rendeva il trenta ecc…”. In tal modo la parabola invita il lettore a concentrare l’attenzione sul seme che cresce e porta frutto. Non solo, la quantità di seme caduta in terreno cattivo è espressa al singolare: una parte, un’altra parte.

Diversamente, per indicare la quantità di seme caduta in terreno buono, è usato il plurale: altre parti. Sì, è vero che per tre volte il seme va sprecato, ma è ugualmente vero che la quantità non sprecata è molto grande. Ma è soprattutto l’abbondanza del raccolto che sorprende. Il trenta, il sessanta, il cento per uno è una proporzione altissima. Molto spesso si legge la parabola come se la fiducia richiesta al seminatore fosse innanzitutto rivolta al futuro. Se così fosse, il messaggio centrale della parabola sarebbe sostanzialmente ovvio. Al contrario, la fiducia richiesta riguarda il presente più che il futuro.

Questo è forse il tratto più singolare dell’intera parabola. I ripetuti fallimenti e il successo non sono disposti su una linea temporale: ora è il tempo dell’insuccesso, ma il futuro riserva ampio raccolto; oggi si sperimenta il fallimento della propria fatica, domani invece se ne vedrà il frutto abbondante. La differenza come possiamo vedere, infatti, è tra terreno e terreno, non fra tempo e tempo. Vale a dire che nella stessa semina e nello stesso tempo fallimenti e successo sono la sorte del seme.

Di fronte alla medesima Parola c’è contemporaneamente chi l’accoglie e chi la rifiuta. L’importante per chi facesse sua questa fiducia non pretenda che il seme crescesse sempre e ovunque. Piuttosto, la certezza che da qualche parte, già ora, esso dia frutto, offre la possibilità di accorgersene, non soltanto la pazienza di attendere. Comunque sia, non c’è ragione di scoraggiarsi, tanto meno di dubitare della presenza del Regno. La fiducia del contadino insegna a guardare di là dei fallimenti, per accorgersi che la Parola del Regno è qui, fra smentite e successi, già ora efficace. Vorrei rammentare a tale proposito una frase di Gesù in Giovanni 4,15: “Levate i vostri cuori e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura”.

Fin qui il racconto parabolico: ciò che succede all’azione del contadino, succede all’azione di Dio. Ma perché mai la semina di Dio deve assomigliare a quella di un contadino? Non stupisce lo spreco di un contadino palestinese (questo era proprio il modo di seminare degli antichi palestinesi), ma quello di Dio sì. Il contadino eviterebbe lo sperpero, se potesse. Dio non dovrebbe evitarlo, proprio perché Dio? Così la domanda cruciale si ripropone, costringendoci a rileggere la parabola per accorgerci che essa non darebbe nessuna risposta, se non fosse collocata nell’evento di Gesù. E’ qui che si chiarisce. Nessuna parabola può essere letta diversamente.

Perché altro è l’azione di un contadino, altro quella di Dio. Ed è soltanto la storia di Gesù che permette di cogliere le ragioni della somiglianza. La storia di Gesù, gesti e parole, croce e risurrezione, è la parabola che illumina tutte le parabole. Le parabole svelano pienamente il loro senso solo dopo la Pasqua. Se la semina di Dio non è diversa da quella del contadino, è perché all’origine dell’agire di Dio c’è una sovrabbondanza d’amore che sembra spreco e noncuranza, e che soltanto la croce di Gesù riesce a svelare nel vero senso: non sperpero o inefficace debolezza, bensì gratuità e luminosa rivelazione di chi è Dio. A questo punto la figura del contadino muta fisionomia: i suoi gesti non sono più quelli semplici e abituali di un contadino della Palestina, ma i gesti rivelatori della generosità divina, tanto disinteressata e traboccante da rasentare l’incuria e lo spreco; ciò è tipico dell’amore che non calcola.

Spiegazione della parabola del seminatore
Cap. 4,13-20

*Poi disse loro: Voi non intendete questa parabola; come comprenderete tutte le parabole? *Il seminatore semina la parola. *Alcuni sono come i semi lungo a via, dove è seminata la parola; ricevono la parola, ma subito viene satana e porta via la parola seminata in loro. *Allo stesso modo quelli che ricevono il seme sul suolo roccioso sono coloro che, quando ascoltano la parola, subito con gioia l’accolgono, * ma non avendo in sé radici, sono incostanti, e quando, a causa della parola, viene l’avversità o la persecuzione, subito vengono meno. *Altri sono come il seme caduto tra le spine: ascoltano la parola, *ma quando sopraggiungono le preoccupazioni del vivere e l’inganno della ricchezza e le altre cupidigie soffocano la parola che rimane senza frutto. *Infine quelli che ricevono il seme nella terra buona sono coloro che ascoltano e accolgono la parola e portano frutto, chi il trenta, chi il sessanta, chi il cento per uno.

Dopo avere accuratamente analizzato la parabola del seminatore, se leggiamo la spiegazione, si ha subito l’impressione di trovarsi in un mondo diverso. Essa assume quasi i connotati di trasformazione allegorica, nella quale ciascun tratto ha il suo corrispondente: il seme è la Parola, i quattro terreni sono i differenti tipi d’ascoltatori, gli uccelli sono l’immagine di satana, il terreno sassoso è l’uomo facile all’entusiasmo e volubile, le spine e le molte passioni che soffocano il cuore dell’uomo. Ma stranamente nulla si dice del seminatore, che in tal modo conserva la sua ricca ambiguità, al tempo stesso figura di Dio Padre, di Gesù e degli evangelizzatori che ne continuano l’annuncio.

Colpisce ancora di più lo spostamento dell’attenzione, dal seme ai terreni, e non soltanto, come nella parabola, si costata che ci sono terreni buoni e cattivi, ma ci si premura indicarne le ragioni. A differenza della parabola che è essenzialmente una risposta ad una domanda teologica, la spiegazione ha un’intenzione morale, invita all’impegno. E non è indirizzata ai missionari della Parola, ma ai molti ascoltatori che, dopo averla ascoltata, rischiano di mortificarla. Il problema se la Parola è efficace diventa il problema di come renderla efficace. L’attenzione si sposta dalla Parola alla sua accoglienza, da Dio all’uomo.

L’incoraggiamento si trasforma in avvertimento. Al primo tipo d’ascoltatori appartengono gli uomini nei quali la parola seminata resta del tutto inerte, non riesce nemmeno a mettere le radici. La parola sparisce non lasciando traccia. Che esistano degli ascoltatori è un dato di fatto, ma individuare le ragioni di tale impermeabilità non è facile. E così il testo dice sbrigativamente che è stana a portare via da loro la Parola, omettendo alcun tentativo di spiegazione psicologica. Si afferma però con chiarezza che la colpa non è della semina, significativamente menzionata due volte, ma del terreno. Al secondo tipo appartengono gli ascoltatori entusiasti, che in fretta gioiscono e altrettanto in fretta si abbattono. Ciò che li caratterizza è l’avverbio “subito”, come nel primo tipo: là era usato per esprimere la superficialità dell’ascolto, qui per rilevare la fragilità del carattere

L’analisi di questo genere di credenti ( si tratta di credenti, infatti, perché non solo ascoltano la Parola, ma l’accolgono gioiosamente) è molto precisa. Sono uomini che comprendono e si entusiasmano, ma sono privi della solidità necessaria per perseverare. Al sopraggiungere della tribolazione e della persecuzione, la loro fede subito vacilla. La parabola allude alla fede, non soltanto alla coerenza morale: tale è, infatti, il senso biblico del verbo scandalizzarsi. Tribolazione è un termine che può significare qualsiasi afflizione. Ma qui si precisa che si tratta di un’afflizione a motivo della Parola: certo si allude alle persecuzioni.

Il terzo tipo d’ascoltatori è disegnato con tratti marcati. Ciò che qualifica questi credenti non è la fragilità del carattere, l’entusiasmo e lo scoraggiamento facile, ma l’eccesso d’interessi. Nel loro animo e nella loro vita la Parola soffoca (l’immagine è molto espressiva) perché è priva di spazio e manca d’aria. Gli interessi eccessivi, o le passioni smodate, si insinuano in questi uomini con nascosta prepotenza, sconvolgendoli alla radice. Il verbo “entrare dentro” suggerisce con grande efficacia che queste passioni modificano l’essere dell’uomo, non solo il suo agire.

Il cuore distratto e appesantito diventa del tutto incapace di avvertire ciò che vale. Non soltanto non accoglie la Parola, ma ne perde il gusto. E a soffocare la Parola non sono le passioni eccezionali, ma quelle comuni, quotidiane: le preoccupazioni per gli affari, l’attrattiva del denaro, le smodate ambizioni d’ogni genere. Naturalmente questo rilievo non va letto in un quadro di rifiuto delle cose materiali perché indegne, degli impegni del mondo perché terrestri, della ricchezza perché vanità, ma nella prospettiva evangelica della Libertà e del Regno. L’insistenza particolare nel descrivere le ragioni dell’infruttuosità della Parola presso gli ascoltatori del secondo e del terzo tipo lascia intravedere che questi erano, di fatto, i veri motivi per questo molti venivano meno di fronte alle esigenze della Parola. Un panorama quanto mai abituale al giorno d’oggi.

Del quarto tipo d’ascoltatori si dice semplicemente che sono il terreno buono. Perché lo sono non è detto. Le qualità che fanno di costoro il terreno0 ideale per la Parola non interessano. Si descrive invece che cosa fanno: ascoltano, accolgono e portano frutti. Il percorso è completo.

Come ricevere l’insegnamento di Gesù
Cap. 4,21-25

*E diceva loro: Viene forse la lucerna per metterla sotto il recipiente o sotto il letto? O non piuttosto sul candelabro? *Perché nulla vi è di nascosto che non sarà manifestato, e nulla di segreto che non sarà messo in luce. *Se uno ha orecchi per intendere, intenda. *E diceva ancora: Fate attenzione a ciò che ascoltate: Nella misura con la quale misurate, sarà rimisurato a voi, e vi sarà dato anche di più. *Poiché a chi ha sarà dato, e a chi non ha anche quello che ha sarà tolto.

I versetti sono costituiti da due parabole, o meglio da due similitudini, illustrate da due proverbi e inframmezzate da parole esortative. Le spiegazioni delle similitudini che insistono sull’accoglienza perseverante della parola, sono ampliate nelle sentenze introdotte dal duplice: “E diceva loro…”, riferendosi ai discepoli, con alcuni detti per rilevare la necessità del retto ascolto.

La similitudine della lucerna mette in risalto che il mistero del regno di Dio, comunicato segretamente da Gesù ai discepoli, non resterà nascosto, ma sarà posto dalla comunità cristiana pentecostale sul candelabro perché risplenda a tutti: infatti, a lungo andare tutto viene alla luce. Quindi, tutto ciò si riferisce all’insegnamento del Maestro, poiché la rivelazione del regno tende di sua natura ad illuminare tutti, proprio come la lucerna.

L’immagine della misura pone l’accento sull’importanza delle disposizioni degli ascoltatori. La similitudine della misura, in questo contesto, indica che, proporzionalmente all’attenzione e zelo con cui si ascolta la parola, Dio ricambierà con nuove rivelazioni e grazie: dal momento che la ricchezza suole moltiplicarsi, la povertà (=indifferenza, cattive disposizione ecc.) porta alla miseria completa (=abbandono da parte di Dio). Le parole di Gesù non trattano di una teoria da annunciare o commentare, ma una forza che decide il destino definitivo dell’uomo.

Gesù Cristo-Parola ci rivela il segreto dell’amore di Dio attraverso la sua umanità. Nonostante la pesantezza e l’opacità della nostra condizione terrena, nonostante la debolezza, gli errori e i peccati, la piena rivelazione è riservata alla fine dei tempi, però sin d’ora è necessario che il messaggio dell’insegnamento del Maestro sia trasmesso con fedeltà e coraggio, tradotto nell’attualità, proclamato davanti al mondo.

Non come se ci appartenesse, e potessimo modificarlo a piacimento; ma con la coscienza di chi molto ha ricevuto e ha più responsabilità; con la riconoscenza per essere stati scelti e introdotti nel segreto di Dio e con il desiderio che tutti siano partecipi della nostra sorte.

Il seme che cresce da solo
Cap. 4,26-29

*E diceva loro: Avviene del regno di Dio come di un uomo che sparge il seme nel terreno: *dorma o vegli, di notte e di giorno, il seme germoglia e cresce ed egli non sa come. *La terra da sé produce: prima l’erba, poi la spiga e infine il grano gremito nella spiga. *E quando il frutto è maturo, subito vi si mette la falce, perché è venuto il momento della mietitura.

Ci sono cose nella vita che nascono e crescono, senza che ce ne rendiamo conto. Se osserviamo il contadino che va nel campo e lancia il seme, lo consegna alla terra e poi, aspetta; passano i giorni, passano le settimane e i mesi interi, uno dopo l’altro. Non si stanca di aspettare, perché sa che deve essere così. Allo stesso modo osservando una donna in casa, prende la pianta, la mette in un vaso, poi, aspetta: giorni, settimane, mesi interi. Non si stanca di aspettare, perché sa, come il contadino, che nasce una nuova vita: il seme germoglia, il granoturco cresce, la pianta fiorisce, la spiga matura, il fiore sboccia. Possiamo partire, possiamo restare lì a guardarli, possiamo anche dormire. E’ lo stesso. Gli alberi, le piante, i fiori crescono in virtù di una forza che hanno dentro e che non dipende da noi. Quando arriva l’ora, si fa la mietitura, si raccoglie la frutta, si taglia la canna da zucchero, si sgrana il granoturco, si colgono i fiori. E tutto ciò si ripete sempre, un anno dopo l’altro. E’ così naturale che non ce ne accorgiamo più, perché l’abbiamo sempre sotto gli occhi.

Gesù, prendendo lo spunto dalla natura, ha confrontato la realtà del Regno di Dio con ciò che avviene quando un contadino ha gettato il seme e poi continua la sua vita ordinaria fino alla mietitura. Si tratta di un piccolo quadro della vita agricola che però serve a chiarire un aspetto della situazione dell’uomo di fronte al Regno di Dio. Il punto di confronto è suggerito dal contrasto tra la vita tranquilla del contadino e il misterioso germogliare, crescere e maturare del seme; dal contrasto tra l’intervento iniziale del seminatore e la forza misteriosa della terra che porta il seme a maturazione. In ogni modo il punto culminante è l’arrivo della mietitura che corona l’attesa e il processo di crescita. Così avviene per il Regno di Dio! Avviato il processo con l’annuncio, esso giungerà sicuramente al compimento per la forza irresistibile e misteriosa che lo sostiene.

La breve similitudine descrive la storia in tre tempi: la semina, la crescita e la raccolta. Il primo è il momento dell’azione del contadino, come un fatto concluso. E la sua funzione è soltanto di porre la premessa per il proseguimento della narrazione. Nel secondo momento si diffonde la descrizione. Gesù vi indugia, desiderando che l’ascoltatore faccia altrettanto. E’ il tempo del seme e della terra, non del contadino. Per quest’ultimo è solo il tempo che passa (dorme e veglia, notte e giorno), durante il quale ignora ciò che sta accadendo (come egli stesso non sa). Per il seme, invece, è il tempo importante della crescita (germina e si allunga). E per la terra è il tempo in cui essa opera straordinarie trasformazioni: lo stelo, la spiga, il grano nella spiga. Nel terzo momento ricompare il contadino, che però non viene nominato: manda la falce. Proprio così, non i falciatori, ma la falce.

Ma l’azione del contadino è inquadrata da due altre, di cui egli non è il protagonista: “Appena il frutto lo consente”, e: “Il tempo della mietitura è sopraggiunto”. Sono due espressioni da analizzare con cura. Non si dice: “Appena il contadino nota che il frutto è maturo”, bensì: “Appena il frutto si concede”. L’immagine è bellissima: è il frutto stesso che si dona all’uomo. L’uomo non fa, ma accoglie. E’ il seme che in realtà fa tutto: germina, cresce, matura, si offre all’uomo per la raccolta. Il tempo nell’attesa della mietitura è un tempo lungo e tuttavia è anche un tempo da afferrare. Le azioni che vi si svolgono richiedono rapidità: appena… subito… Tempo che permane e che è urgente: il tempo compiuto. Fin qui abbiamo rinarrato la parabola, componendola nelle sue sequenze, nei protagonisti, nelle immagini e soprattutto nei tempi. Un risultato è certo: l’attenzione cade sul tempo intermedio, fra la semina e la mietitura. Tuttavia, gli angoli di osservazione sono diversi

La similitudine sembra anzitutto sottolineare un contrasto tra i due tempi: quello del contadino, un tempo brevissimo, sia per la semina sia per la mietitura; e il tempo della crescita del seme, un tempo lungo in cui tutto si svolge nel segreto della terra. La parabola indugia su questo tempo, tanto lungo da costituire per molti un problema. Perché, dopo che è caduto nella terra, il seme tarda a manifestarsi? Che significato ha questo tempo che tanto si protrae e in cui tutto pare inerte, nulla si vede e Dio sembra tacere? La parabola risponde che questo tempo intermedio è il più importante: tempo di crescita e d’impensabili trasformazioni, tempo decisivo, tempo dell’azione di Dio, non della sua assenza. E’ inattivo il contadino, non il seme: Che tutto avvenga invisibilmente, misteriosamente, non è segno del silenzio di Dio, ma del suo modo diverso di parlare. Non delusione, dunque, né turbamento né inutili impazienze, bensì attesa fiduciosa: questa è la lezione.

Si tratta in ogni caso di una fiducia non facile, perché i credenti hanno sempre la pretesa di segni per vedere, per non perdersi d’animo. Oltre al contrasto tra il tempo lungo del seme e il tempo breve dell’uomo, tra il tempo dell’azione visibile e dell’azione nascosta, ce n’è un secondo sul quale Gesù si sofferma: da una parte l’inerzia del contadino, dall’altra l’incessante lavoro del seme e della terra. Dei due lati il più importante è il secondo: la forza del seme. Qui si allude non alla forza della natura, bensì al miracolo di Dio. La terra dà frutti a causa dell’azione miracolosa di Dio: questo sembra essere il senso della parabola. Così è il Regno: un’azione di Dio incessante e prodigiosa, ma nascosta e autonoma. E’ il Regno stesso, già deposto nella storia come un seme, che viene, non sono gli uomini a farlo venire. In tal modo il discepolo viene liberato da un affanno inutile. Non sta a lui garantire il successo del Regno, perché egli deve semplicemente assicurare l’annuncio e la raccolta. A decidere il tempo della mietitura è il frutto, non il contadino.

L’atteggiamento prioritario del cristiano nel mondo è l’attesa fiduciosa e non l’impazienza degli zeloti o il calcolo degli apocalittici. Ma attenzione, la parabola non è un invito al quietismo o alla pigrizia, ma è una proposta di speranza che si fonda sulla promessa efficace di Dio. Se il seme è gettato, è garantito il raccolto. Ma è anche vero che la realtà del Regno non matura sopra o accanto o al di fuori della libertà e responsabilità dell’uomo e delle sue scelte storiche. Vale a dire che il Regno di Dio non è questione di organizzazione oppure di efficienza, ma semplicemente di accoglienza.

Il chicco di senapa
Cap. 4,30-34

* Diceva ancora: A che paragoneremo noi il regno di Dio, o con quale parabola lo raffigureremo? *A un chicco di senapa: quando si semina nel terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sopra la terra; * ma appena seminato, cresce e diventa più grande di tutti gli ortaggi e mette rami così grandi che gli uccelli del cielo possono ripararsi alla sua ombra. *E con molte di queste parabole esponeva loro la parola secondo che erano in grado di intendere.*E non parlava loro senza parabole, ma in privato spiegava ogni cosa ai suoi discepoli.

Esistono cose nella vita, a cui non si dà importanza: una sola goccia di profumo riempie tutta la stanza di un’aria gradevolissima; un pizzico di fermento fa lievitare tutta la pasta del pane; qualche goccia di quaglio è sufficiente per far coagulare molti litri di latte; l’esplosione di un solo atomo distrugge un’intera città; un chicco di granoturco produce una pannocchia piena di chicchi; un piccolo errore nel conteggio fa crollare edifici, ponti ecc..

Come possiamo notare sono piccole cose, che però generano grandi cose. Così avviene nella natura, così succede pure nella vita.

La parabola narrata da Gesù, è un invito alla speranza e alla fiducia che si fonda non sui calcoli delle probabilità o sulle previsioni della futurologia, ma sulla fedeltà e potenza di Dio che si è manifestata nella storia. Nonostante gli umili inizi dell’azione di Dio per rendere manifesta e operante la sua giustizia e il trionfo della libertà della persona nell’opera di Gesù, la sua manifestazione finale condurrà tutta la storia umana nella piena giustizia e libertà.

Nel breve racconto compaiono tre personaggi: il seminatore (sottinteso), il seme, gli uccelli. Tutta l’attenzione cade però sul seme. Va precisato che il Regno non è paragonato al seme in questo contesto, ma alla storia del seme.

Essa, ovviamente, non può che svolgersi in tre tempi: la semina, la crescita, l’albero fatto. Nella parabola si parla di tutti e tre i momenti, ma l’attenzione è richiamata soltanto sul primo e sull’ultimo: sulla proverbiale piccolezza del seme e sulla straordinaria grandezza dell’albero. L’essenziale è racchiuso nell’opposizione “il più piccolo-il più grande”. Nulla è detto del processo di sviluppo. Stando a questa parabola, non c’è traccia d’evoluzione nel cammino del Regno, ma immediatezza.

Lo scopo della parabola non è di consolare i credenti che vivono in un oggi senza senso, deludente e scoraggiante, assicurando loro un avvenire grandioso che li ripagherà d’ogni fatica. Lo sguardo verso il futuro è volto a spiegare il senso corretto, ma nascosto dell’oggi. Certamente non si comprende l’oggi se non si guarda al futuro, come non si comprende la qualità del seme se non si conosce l’albero. Tuttavia non è l’albero che dà forza al seme, ma viceversa.

L’albero fa semplicemente comprender la forza che il seme già possiede in se stesso. Analogamente si deve dire dell’oggi nella storia. Fra la grandezza del futuro e la piccolezza dell’oggi c’è un nesso. Il contrasto sottolineato dalla parabola non significa rottura, tanto meno sostituzione, ma spiega la natura della connessione, la sua impensabile profondità.

Una lettura intelligente della parabola esige che insieme (e non separatamente) si guardi al contrasto e al nesso. Letta in tal modo, si comprende che la parabola non suggerisce di guardare al domani per consolarci della mancanza di senso dell’oggi, ma per scoprire il senso che già appartiene all’oggi. La parabola è rivelazione prima che avvertimento. Ma è anche avvertimento. Nell’ambito del Regno di Dio i criteri della grandezza e dell’apparenza non servono per valutare ciò che conta e ciò che non conta, ciò che ha un futuro e ciò che non lo ha.

I discepoli non devono fare propri i criteri del mondo, inseguendo sogni di grandezza e confondendo la forza del Regno con il fascino del potere o del numero o del prestigio. Al contrario, la parabola è un richiamo al valore decisivo delle occasioni normali, umili e quotidiane, che formano il tessuto abituale della vita. La sua apparente banalità non deve diventare motivo di trascuratezza. Il Regno di Dio è qui, in questa realtà, soprattutto nell’organismo visibile del mondo interiore invisibile.

La tempesta sul lago
Cap. 4,35-41

*Venuta la sera di quel giorno, disse loro: Passiamo all’altra riva. *Essi, congedata la folla, lo condussero, così com’era, nella barca. Vi erano anche altre barche intorno a lui. *E si levò un turbine impetuoso di vento che spingeva le onde nella barca e già ne era piena. *Egli a poppa, sopra un guanciale, dormiva. Lo destarono e gli dissero: Maestro, non ti importa che noi andiamo perduti? *Egli svegliatosi, comandò al vento e disse al mare: Taci! Quietati! Il vento cessò, e si fece una grande calma. *E disse loro: Perché siete così paurosi? Come mai non avete fede? *Essi, presi da timore grande, dicevano gli uni gli altri: Chi è dunque costui che perfino il vento e il mare gli ubbidiscono?

Il racconto del miracolo sul lago procede con un ritmo a contrappunto. La conclusione serena e familiare, anche se faticosa, di una giornata con i preparativi per la traversata del lago contrasta con l’improvviso scatenarsi della burrasca. E’ notevole l’insistenza sulle espressioni che descrivono l’infuriare del turbine sul lago. Tutto ciò è molto simile ai giorni in cui la vita assomiglia ad una piccola barca in balia delle onde del mare agitato. Tutto è scuro intorno, c’è tempesta. Dio pare non esserci, Gesù è assente, nessuno vicino per aiutare, incoraggiare. Si ha voglia i mollare tutto!

Meditiamo attentamente la storia della tempesta del lago calmata. Durante la riflessione, immaginiamo di stare sulla barca insieme a Gesù e ai discepoli, cerchiamo di condividere con loro ciò che accade e facciamo attenzione all’atteggiamento di Gesù ed alla reazione dei discepoli.

Nella struttura letteraria del miracolo l’infuriare della bufera contrasta con la serenità di Gesù che dorme a poppa. Alla tranquillità di Gesù fa da contrasto la paura che rende i discepoli incontrollati e aggressivi: Maestro, non ti importa che noi andiamo perduti?

Il fatto è che era stato un giorno pesante, di molto lavoro. C’era talmente tanta gente che Gesù, per non essere schiacciato dalla folla, dovette entrare in una barca per istruire con parabole. In quel periodo c’erano giorni in cui non c’era tempo nemmeno per mangiare. Terminata di narrare la parabola con cui istruiva la gente, Gesù disse ai discepoli: Passiamo all’altra riva! E così come stava lo condussero con la barca. Gesù si addormentò all’istante.

Il lago di Galilea è vicino alle alte montagne, come il nostro lago di Garda. E vi dico che quando si scatena una burrasca sul lago è cosa da far accapponare la pelle anche ai più navigati barcaioli. Il vento soffia forte e provoca tempeste e ondate dove il sole sparisce. Tutto è buio e nero. Anche quel giorno il vento soffiò forte agitando l’acqua. La barca si riempì d’acqua. I discepoli erano pescatori sperimentati, tuttavia pensavano che sarebbero affogati, e questo significava che la situazione era disperata a causa della tempesta. Gesù, dal canto suo, continuava a dormire tranquillo e sereno. A questo punto facciamo una prima considerazione. Il sonno profondo di Gesù non è solo segno di un’enorme stanchezza. E’ anche espressione della fiducia tranquilla che ha in Dio. Il contrasto tra l’atteggiamento di Gesù e i discepoli è grande!

Gesù si desta non a causa della burrasca ma per il grido disperato dei discepoli: Maestro! Signore, non ti importa che stiamo affondando? Gesù si alza. Prima si dirige verso l’acqua del lago e ordina: Taci, calmati! E il lago placa la sua furia. Poi subito si dirige verso i suoi discepoli e dice loro: Perché temete, uomini di poca fede? La mia impressione è che si poteva fare a meno di chetare la tempesta, poiché con Gesù non si corre nessun pericolo. Mi torna alla mente il salmo 22: “Anche se mi trovassi in una valle oscura non temerei alcun male, perché tu sei con me”.

I discepoli s’interrogarono dicendo: “Chi è quest’uomo?”

I discepoli alla domanda di Gesù non sanno cosa rispondere perché nonostante il lungo tempo trascorso insieme, non sanno veramente chi è. Chi è quest’uomo? Con questa domanda in testa, le comunità d’ogni tempo continuano la lettura, per approfondire e desiderare di conoscere maggiormente Gesù nella propria vita.

Ma c’è un altro aspetto da considerare. Ho parlato di comunità (infatti, quella barca rappresenta una comunità), che in realtà significa essere Chiesa (popolo di Dio), ed è nel suo aspetto umano, un’entità minacciata. E non può essere altrimenti, perché Dio non è ancora tutto in tutti. La Chiesa è di natura divina, tuttavia il corpo, vale a dire il popolo che la forma, è di natura umana, terrena, soggetta quindi alle tentazioni dell’avversario. Però il suo essere è garantito, preservato, inattaccabile, ma solo dall’alto, ossia da Dio, e non dal basso, ossia dagli uomini che ne fanno parte: La Chiesa nella misura in cui fa dipendere il suo essere da Dio nell’evento della sua Parola e del suo Spirito Santo, è sottratta alle minacce, giustificata, santificata, purificata, preservata dal maligno.

Nel suo Signore Gesù Cristo trova la sua unica garanzia; solo da lui riceve la promessa; solo guardando a lui acquista la sicurezza della sua durata. Da parte degli uomini che ne fanno parte non esiste, infatti, alcuna garanzia del genere per la Chiesa. Rimane sempre, accanto alla fede, la possibilità dell’incredulità, dell’eresia, della superstizione, come pure dell’ignoranza, dell’indifferenza, dell’odio, della disperazione, perfino dell’impotenza delle preghiere; e ciò finché durerà il tempo, finché la manifestazione finale della vittoria di Gesù Cristo non avrà dissipato anche quest’ombra.

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