Apocalisse: Prologo 2

cavalieri dell'apocalisse - Viktor Vasnetsov

I Cavalieri dell’Apocalisse, opera di Viktor Vasnetsov

Capitolo 1, 9-20

*Io, Giovanni, vostro fratello e solidale con voi nella tribolazione, nel Regno e nella costanza in Gesù, mi trovavo esiliato nell’isola di Patmos, a causa della Parola di Dio e della testimonianza di Gesù. *Rapito in estasi nel giorno del Signore, udii alle mie spalle una voce possente, come di tromba, che diceva: *Ciò che vedrai scrivilo in un libro e invialo alle sette chiese: a Efeso, a Smirne, a Pergamo, a Tiatira, a Sardi, a Filadelfia, a Laodicea”.

*Mi voltai per vedere chi fosse colui che riparlava. Voltatomi, vidi sette candelabri d’oro *e in mezzo ad essi uno simile a figlio di uomo. Indossava una tunica lunga fino ai piedi ed era cinto all’altezza del petto con una fascia dorata. *I capelli della sua testa erano candidi, simili a lana bianca come la neve. I suoi occhi erano come fiamma ardente. *I suoi piedi avevano l’aspetto del bronzo splendente, quando è stato purificato nel crogiolo. La sua voce era possente come lo scroscio di molte acque. *Nella sua mano destra teneva sette stelle, mentre dalla bocca usciva una spada affilata a doppio taglio. Il suo aspetto uguagliava il fulgore del sole in pieno meriggio. *Al vederlo caddi ai suoi piedi come morto. Ma egli, posando la sua mano sopra di me, mi tranquillizzò: “Non temere! Io sono il Primo e l’ultimo, *il Vivente. Fui morto, ma ora eccomi vivo per i secoli dei secoli. Nelle mie mani sono le chiavi della morte e dell’ade. *Metti in iscritto le cose che vedrai, sia quelle riguardanti il presente come quelle riguardanti il futuro.

*Quanto al significato delle sette stelle, che vedi nella mia mano e dei sette candelabri d’oro: le sette stelle simboleggiano gli angeli delle sette chiese e i sette candelabri le sette chiese.

Giovanni inizia la sua narrazione (costruzione) situandosi in rapporto alla comunità: è un fratello e vive solidale con l’intera comunità l’esilio e la persecuzione. Vale a dire la tribolazione, la persecuzione, la partecipazione al conflitto escatologico (fine ultimo dell’uomo) inaugurato sulla croce; per il regno, cioè all’associazione della sovranità di Cristo, vincitore della morte e delle Potenze; la costanza in pratica la fedeltà in mezzo alla prova e alla tentazione che caratterizzano i tempi escatologici. Si tratta di una riflessione sulla persecuzione, ed è un messaggio di speranza rivolto ad una comunità perseguitata.

Due sono i fondamentali atteggiamenti: la costanza ( che trova il suo nutrimento in Gesù, non nelle misere forze dell’uomo) e la testimonianza.

Quest’ultima è una parola chiave dell’intero libro, e ognuno di noi farà bene a leggere di seguito i passi che ne parlano: 1,9; 6,9; 12,17; 19,10.

La parola testimonianza evoca sempre, esplicitamente o implicitamente, l’atmosfera di un processo, e di un pubblico dibattito: da una parte il mondo e i suoi idoli, dall’altra il Cristo. Si testimonia un fatto accaduto e una realtà vissuta personalmente. Non è valida una testimonianza per sentito dire. Ed è, infine, legata alla sofferenza, al pagare di persona: testimonianza vuol dire martirio. I credenti decidendo di mettersi dalla parte di Cristo, il testimone, e devono sapere che saranno inesorabilmente coinvolti nel suo rifiuto. Questo è l’aspetto che il libro sottolinea maggiormente.

Ogni profeta, ogni credente vive di quest’esperienza, unica e decisiva, che è la sua vocazione: un incontro personale con Dio che diventa il punto di riferimento di tutta la sua vita e del suo messaggio. Possiamo affermare che nella vocazione di ogni uomo e ogni donna sono già visibili, in germe, le linee maestre della fede e della sua missione.

Giovanni ha avuto una visione (più precisamente un’esperienza fatta di visione e di ascolto), che lui costruisce per dare fondamento e autorità alla sua profezia. Ciò che dice non è suo, ma viene da Dio. Giovanni sta svolgendo la missione che Cristo gli ha affidato. L’incarico è ripetuto due volte (vv. 11.19); annunciare e scrivere “le cose presenti e future”!. C’è dunque un presente da leggere, e che soltanto a partire da una rivelazione di Dio si fa chiaro.

Ma che cosa vede Giovanni? La sua visione è descritta mediante simboli, dei quali sono importanti il movimento e i colori. Non simboli da fissare, ma da leggere nel loro movimento: E’ dominante lo splendore, e l’impressione è quella di una grande maestà, di una gloria indicibile. Dio viene sperimentato in forma possente, e tuttavia rimane indescrivibile nella sua trascendenza. Se ne ode la voce, e si resta abbagliati dallo splendore che irradia, ma il volto di Dio resta invisibile. Importante è il “come” continuamente ripetuto. Suoni, colori e similitudini restano fondamentalmente inadeguati. Il divino resta irraggiungibile, e più ci si avvicina e più si comprende che non lo si può descrivere. E’ sempre e soltanto un “come”.

Come accade a ogni profeta, a ogni credente, anche Giovanni prova timore di fronte alla maestà di Dio: “Al vederlo caddi ai suoi piedi come morto” (v.17). Tuttavia Dio è consolazione e sicurezza proprio perché Dio è il “Primo e l’Ultimo”, il signore e padrone della vita e della morte, l’uomo ha il diritto di sentirsi al sicuro. Niente può strapparci dall’amore di Dio e niente può svuotare la promessa che gli è stata fatta (la salvezza). Si tratta come possiamo notare, della “radice della consolazione”, il punto base da cui tutta la riflessione di Giovanni è iniziata. Colui che è morto e risorto (il divino che abbaglia Giovanni ha il volto di Gesù Cristo e ricorda la Croce), tiene saldamente nelle sue mani le “sette stelle e i sette candelabri”, in altre parole la chiesa di Dio: una chiesa perseguitata e lacerata, in lotta col male e col peccato, ma che ha – ugualmente – il diritto di essere lieta e vittoriosa, perché è nelle mani di Colui che ha già vinto il male.

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