Le Discepole Galilee

Luca 8,1-3

“In seguito egli se ne andava per le città e i villaggi, predicando e annunziando la buona novella del regno di Dio. C’erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria di Magdala, dalla quale erano usciti sette demoni, Giovanna, moglie di Cusa, amministratore di Erode, Susanna e molte altre, che li assistevano con i loro beni”.

Dopo gli inizi del ministero di Gesù in Galilea, ci imbattiamo in questo passaggio in cui l’evangelista rivolge uno sguardo di insieme all’attività del Maestro e a quelli che lo seguono.

Nella sua brevità e semplicità, più apparente che reale, il passaggio contiene alcuni elementi molto rilevanti, da sottolineare con attenzione e più intenzionalmente di quanto si faccia di solito.

Molto spesso accade che i commentatori siano convinti di meditare un passo della Sacra Scrittura, mentre in realtà lo filtrano attraverso i propri schemi mentali e le proprie esperienze, se non addirittura usandolo come supporto legittimante e santificante per gli stessi schemi mentali. Ecco perché la presenza di donne nella cerchia di Gesù è stata costantemente interpretata con mentalità e preoccupazioni di tipo maschile-tradizionale.

Sembra inconcepibile il solo pensiero che alcune donne potessero seguire Gesù nello stesso modo e per le stesse ragioni per cui alcuni uomini lasciarono tutto. La questione di fondo, espressa o no, per questi esegeti è sempre: Come mai si trovavano al suo seguito? Cosa ci stavano a fare?

Alla luce dell’esperienza quotidiana ed ecclesiale di cui sono portatori, rispondono ovviamente: per rendersi utili, perché in un gruppo di uomini deve pur esserci qualche donna che provveda alle necessità materiali.

Da ciò si evince che si tratta di un equivoco non disinteressato e non riguarda solo gli esegeti. Anche l’evangelista di cultura greca e ben disposto nei confronti delle donne, appare vittima di qualche pregiudizio, che si traduce in ambiguità nella presentazione dei fatti. Tuttavia se noi leggiamo il passo del vangelo senza schemi e preconcetti, risulta che le donne sono associate all’attività salvifica di Gesù allo stesso titolo dei Dodici. Inoltre appare evidente dal testo, e rende tanto più significativo il fatto che viene loro attribuito di solito un ruolo collaterale e assistenziale.

Al contrario la partecipazione non è un semplice “trovarsi lì” per caso o per dare un aiuto; è vera comunione di vita, che scaturisce da una precisa scelta di sequela.

Questo tipo di mentalità ha pervaso tutto l’A.T., il N.T., fino all’arrivo di Gesù. Ma non è bastato perché il preconcetto perdura ancora oggi.

Gesù ha posto l’accento sul tipo di incontro con le donne, evidenziando il suo comportamento “trasgressivo” e l’influsso e la coscienza della donna. Nel giudaismo del tempo conosciamo il ruolo assegnato alla donna: tenuta a distanza dalla e nella vita pubblica (anche e se rilevante nell’educazione dei figli fino ai 12 anni), promossa a rispettare solo i precetti in negativo, intellettualmente discutibile. Gesù straordinariamente capovolge un’impalcatura millenaria e insieme l’intransigenza e il riserbo giudaici, instaurando un clima di libertà autentica, di dialogo, di amicizia, di apertura, riscattando la donna dal giogo maschile e riconoscendo apertamente, di fatto, la pari dignità degli uomini e delle donne nella vita sociale, di relazione e religiosa.

Egli sfidò ogni proibizione, infatti, gli incontri di Gesù con le donne segnano importanti “passi teologici”, fra cui l’universalità della salvezza, la personalizzazione del rapporto e l’impegno della donna come dell’uomo dell’annuncio del regno di Dio.

Libro della Genesi.

La formazione della donna, è un racconto ampio e particolareggiato della sua origine, che non si trova altrove nella Bibbia né in altre letterature antiche. E già questo è espressivo per comprendere il posto della donna nella storia della salvezza secondo il pensiero biblico. Il panorama narrativo è successivo all’origine dell’uomo, ma non nella realtà. Esso è un mezzo letterario che permette all’autore sacro di porre in risalto, con un linguaggio drammatico, l’identica dignità della donna, il rapporto dei sessi e la relazione d’amore.

Gli animali sono la prima possibilità offerta all’uomo per superare la sua solitudine, la sua incompletezza, è la possibilità offerta dalla scienza, dalla tecnica, dal mondo. Ma è insufficiente. Solo la donna “può stare di fronte” all’uomo come sua perfetta controfigura, perché costituita dalla sua stessa vita. Infatti, il termine ebraico, che si traduce con “costola”, corrisponde anche foneticamente all’ideogramma numerico “TI (L)”, che ha il duplice significato di costola e di vita, Inoltre esso offre il modulo per indicare la nascita. Gli studiosi citano questo breve dialogo che si svolge tra il dio Enki, che si lamenta di un forte dolore al fianco, e la dea Ninhursag:

Fratello mio, che cosa ti fa male? –
Mi fa male la costola, – alla dea Nin-ti, “Ho dato la vita per te”.

In questa posizione culturale la scena un po’ misteriosa dell’origine della donna significa allora questo: la donna ha la stessa scintilla vitale che è presente nell’uomo.

Il primo canto d’amore dell’umanità vibra di questa felicità dell’incontro, di due uguali che si riconoscono, e può essere tradotto in due modi: “Costei è osso tratto dalle mie ossa e carne della mia carne”, oppure: “Costei è osso più che le mie ossa e carne più che la mia carne”.

Nel primo caso l’uomo ravvisa nella donna una parte di se stesso; nel secondo vede in lei il congiunto più stretto di qualsiasi parente. In ogni caso la donna è presentata, come “uomo” in carne ed ossa! Difatti, è chiamata “ishsha” da “ish” (uomo).

Uomo e donna sono due “cose” successivamente avvenute nel mondo, ma le due facce di questa realtà nuova nel mondo, che è la persona umana.

Vi è in tutto questo una concezione altissima del rapporto sessuale e del matrimonio, l’affermata parità assoluta dei sessi, la necessità reciproca e la comunione profonda. Il “simile” dell’uomo, in altre parole la donna, è qualcosa d’alto, di qualificato, di grande tanto quanto l’uomo, e nulla può cancellare quel rapporto profondo, intimo, interpersonale che si stabilisce tra i due, neppure i motivi tribali: “Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre…”

Il matrimonio è veramente qualche cosa che non può essere cancellato da nessun’altra imposizione sociale. Se, poi, si riprende il significato del verbo “uscire” nel suo senso biblico, bisognerebbe affermare che il matrimonio è una vocazione, come tutte le vocazioni che sono sempre un “partire”. Così la donna è proposta non solo come l’esempio fondamentale del dialogo, ma anche come la radice delle nuove comunità che si diffondono sulla terra. E sarà chiamata Eva, in altre parole “vivente”.

Come poi questa realtà abbia potuto naufragare in uno stato di sottomissione, rimane un mistero. Osserviamo a tal proposito cosa dice Gesù.

Matteo 19,3.

“Gli si avvicinarono alcuni farisei per tendergli un’insidia. Gli domandarono: E’ lecito a un uomo ripudiare la moglie per un motivo qualsiasi? Rispose: Non avete letto che in principio il Creatore li creò uomo e donna e disse: Per questo l’uomo lascerà padre e madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno un solo essere?”.

La controversia sul divorzio ( da qui lo stato di sudditanza della donna) inizia l’annotazione che alcuni farisei si avvicinarono a Gesù per tendergli un’insidia. La loro malafede è palese. Perciò non è facile determinare che cosa essi si ripromettevano. Forse, costringendolo a prendere posizione su un problema dibattuto e controverso, miravano ad alienargli un settore dell’opinione pubblica.

Il brano si articola in questi momenti: domanda degli avversari, risposta di Gesù; obiezione degli avversari e soluzione di Gesù. L’interrogativo dei farisei si comprende facilmente se situato nella società giudaica del tempo. Allora si ammetteva pacificamente il principio del divorzio, accettato in tutta la tradizione biblica dell’A.T. e codificato nella legge mosaica. Discussa era invece la questione dei motivi legittimanti la pratica divorzista.

Come possiamo notare, si fronteggiano due scuole rabbiniche, l’una rigorista, che ammetteva come unica causa l’adulterio della moglie; l’altra lassista, si limitava ad un motivo qualsiasi, anche il meno serio. In pratica la controversia verteva sull’interpretazione da dare ad un brano oscuro del Deuteronomio: “Quando un uomo ha preso una donna e ha vissuto con lei da marito, se poi avviene che essa non trovi grazia ai suoi occhi, perché egli ha trovato in lei qualche cosa di vergognoso, scriva per lei un libello di ripudio e glielo consegni in mano e la mandi via dalla casa”.

I farisei dunque non interrogavano Gesù sulla liceità del divorzio, che era scontato in linea di principio. La questione, in realtà, puntava sulle condizioni del divorzio. E’ chiaro che ci troviamo nel campo giuridico. Si tratta di definire il senso e la portata esatta della legislazione divorzista.

La risposta di Gesù, netta e precisa, si pone sullo stesso piano. E poiché per lui non vi è alcuna differenza tra uomo e donna, rende giustizia richiamando il gesto di Dio (come abbiamo visto in precedenza), che sta all’origine della distinzione dei sessi e dell’unione matrimoniale del maschio e della femmina in un solo essere. E afferma che l’uomo non può separare ciò che Dio ha unito.

Commento.

Cari fratelli e sorelle, quale fu la causa per cui le donne erano oppresse in seno al popolo ebraico con castighi vari, mentre la legge usava indulgenza all’uomo, lasciandolo indenne da pene? Se una donna avesse pensato di disonorare il talamo matrimoniale, sarebbe stata costretta ad espiare il suo adulterio, essendo punita dalla legge con durissime pene, fino alla lapidazione; come mai invece, l’uomo che avesse violato con il tradimento la fedeltà promessa alla sposa, non subiva alcuna condanna?

Non si può accettare la legge né tanto meno quanto tradizione. Perché coloro che istituirono la legge erano uomini, perciò essa fu concepita contro le donne; e poiché sottoponevano i figli alla patria potestà, lasciavano la donna nell’ignoranza e nell’abbandono.

La legge divina, non era così. Essa era equa, poiché uno è il Creatore dell’uomo e della donna, l’uno e l’altra sono la stessa polvere, una stessa immagine; unica è la legge, unica la morte, unica la risurrezione. Tutti siamo stati procreati ugualmente da un uomo e da una donna: un solo e identico dovere hanno i figli verso i genitori.

E allora con quale coraggio, si esigeva un’onestà che non in grado di mantenere gli uomini? Come potevano osare pretendere ciò che non si dava? Come potevano stabilire leggi diverse per una persona degna come loro di rispetto? Se riandiamo alla colpa originale, peccò Eva, ma anche Adamo ha ugualmente peccato: il serpente ingannò entrambi, spingendoli al peccato. Non erano l’una più debole dell’altro, l’altro più forte (vedi sezione meditazioni: “La salvezza”).

Gesù ha salvato entrambi con la sua passione, morte e resurrezione. Si è Incarnato sia per l’uomo sia per la donna. Ha subito la croce sia per l’uomo sia per la donna, e a tutti ha offerto la salvezza. Qualcuno osserverà che egli è discendente di Davide per questo conclude che gli uomini devono avere la precedenza in ogni cosa. A questi rispondo che Egli è nato da Maria Vergine, e ciò che vale per l’uomo vale per la donna. Perciò Gesù disse ai suoi ascoltatori: “I due saranno una carne sola” (Mt.19,5); per conseguenza la carne, che è una sola, deve avere uguale onore, diritto, giustizia.

Appare evidente per quanto scritto e analizzato, rendendolo tanto più espressivo, come indice di mentalità, il fatto che alle donne era loro attribuito solitamente un ruolo collaterale e di soccorso.

Sulle donne Galilee della cerchia di Gesù l’evangelo fornisce i nomi e le informazioni espressive, come ho rammentato all’inizio della riflessione. Si coglie la netta impressione che le succitate seguaci di Gesù siano piuttosto abbienti e, fatti più sorprendenti, che dei loro beni possano disporre. Nell’insieme sembrano avere una certa libertà di determinare la propria vita, cosa questa diverso per le ebree del tempo.

Ad ogni modo il particolare del sostegno economico, apparentemente secondario, assume la rilevanza alla loro definizione di discepole: nella tradizione ebraica era presente l’obbligo per i discepoli di provvedere al sostentamento materiale del maestro, e questo rientrava tra i doveri religiosi, ed era un onore per il discepolo più che una previdenza o beneficenza a favore del maestro. Quindi la naturalezza con cui è rammentata il fatto che le seguaci di Gesù provvedevano economicamente al sostegno del gruppo costituisce un indizio a favore che esse erano alla sequela di Gesù come discepole.

Fra le donne che seguivano Gesù, Maria di Magdala è nominata al primo posto. Nella Sacra Scrittura le precedenze non sono mai casuali o irrilevanti.

Oltre a lei sono citate per nome altre due donne: Giovanna che sarà nominata nel cap. 24,10, e Susanna, di cui non si dice più niente a meno che non si debba identificarla, come a volte si è ipotizzato, con una donna citata altrove in modo diverso. Si aggiunge poi, più genericamente, che ve n’erano “molte altre”.

A questo punto dobbiamo chiederci quale ruolo hanno avuto queste donne nel gruppo alla sequela di Gesù. Ce la dobbiamo porre questa domanda, perché nella tradizione esegetica è stata posta, rilevando che il fatto stesso di avanzarla evidenzia un atteggiamento discriminante, giacché sottintende che la loro presenza è in qualche modo anomalo e ha necessità di spiegazione.

Ho già accennato che Luca, pur essendo nell’insieme il più aperto alle presenze femminili, rivela in proposito un’ambiguità molto maschile. Da un lato pare voler affermare o lasciare intendere che le donne sono discepole di Gesù e che il loro discepolato è uguale a quello dei Dodici; nello stesso tempo, tuttavia, la sua mentalità e la sua cultura, lo spingono a restringere il ruolo e a renderlo accettabile ai lettori, ricacciandole alle tradizionali funzioni accessorie, in altre parole facendo delle donne alla sequela del Maestro delle addette alla sopravvivenza.

I miracoli evangelici non si possono mai ridurre ad una sola dimensione: non si possono leggere solo come segni o come accreditamenti messianici o come gesti di misericordia, anche se ogni evangelista ha anche a questo proposito la sua prospettiva privilegiata. Certo, però, nel Vangelo di Luca le guarigioni di Gesù non sono soltanto dimostrazioni di potenza o segni del regno di Dio in atto, ma sono anche segni reali d’attenzione alla sofferenza umana, alle situazioni di precarietà, di giustizia, d’oppressione.

È basilare che il senso evangelico di “curare” sia affine a quello di “servire”. Infatti, nel vangelo il servizio ha senso totale, salvifico. Gesù dice di se stesso: “Io sono in mezzo a voi come colui che serve”. Una distanza abissale intercorre tra servizio e servitù.

Il servizio è liberante per chi lo fa e per chi lo riceve, la servitù invece lega e opprime. La servitù si basa sul timore, il servizio sull’amore. La servitù deve essere puntellata da leggi, da costrizioni, da interessi materiali, il servizio ha bisogno dell’interiorità animata dallo Spirito. La servitù genera conformismo, appoggiandosi su ruoli prestabiliti e tende a perpetuarli, il servizio è profondamente creativo.

Ecco perché una guarigione da una malattia, soprattutto se si tratta di una malattia psicosomatica grave fino al punto di condizionare l’intera esistenza, la dobbiamo interpretare in termini biblici come liberazione da uno stato di servitù.

Notiamo anche che il sostantivo “infermità”, indica non tanto una ben definita malattia quanto un più diffuso malessere: sofferenza, debolezza, incapacità di agire, disagio interiore, angoscia, depressione, povertà e non solo quella di tipo economico.

In un certo senso l’infermità, al tempo di Gesù, era d’ogni donna poiché donna. E tutti i miracoli che Gesù opera nei vangeli a favore di una donna sembrano in rapporto anche con una dignità personale e una pienezza di vita prima conculcate, attraverso lui riconosciute e reintegrate.

Gesù per primo ha curato-servito le donne; non saprei bene che cosa sia avvenuto sul piano fisiologico, ma certo è che ha prestato attenzione ad un loro stato di sofferenza o di non-libertà. Ora, guarite, esse a loro volta rendono servizio, sempre nel senso evangelico. In questo si esprime la loro piena libertà di figlie di Dio, rendendo manifesto che la libertà è insieme un dono e una conquista personale.

Tra Gesù e le donne alla sua sequela hanno luogo un vicendevole “servire” che diventa quasi il modello o il punto di partenza storico e spirituale di una successione di servizio, di uno stile di vita fondato sul reciproco servire. Tale servizio tende ad allargarsi sul piano storico, universale, cosmico; tuttavia rimane sempre infinitamente personale, implica anche la vicinanza, la presenza risanatrice.

Ecco che lo “star male” tende a travalicare l’ambito di un organo malato o l’ambito del corpo stesso, per coinvolgere l’intera esistenza, e la guarigione diventa salvezza integrale, libertà, conversione e apertura di vita creativa al nuovo, vale a dire al totalmente Altro.

Sanate non soltanto dell’infermità fisica, ma nel loro spirito, le discepole di Gesù rispondono con il dono del proprio essere alla vita nuova di cui hanno fatto esperienza. I vangeli non ci trasmettono notizia alcuna d’uomini che agiscono nello stesso modo, nel senso che “curati” da Gesù, siano poi diventati suoi discepoli.

Infatti, la presenza delle discepole sotto la croce e presso il sepolcro è l’ultimo atto del loro servizio, il più totale.

Il discepolato tende a configurarsi come la categoria cristiana fondamentale. In pratica esprimendo la pienezza dell’accoglienza nel proprio cuore di Gesù come Salvatore. La lieta novella portata da Gesù non è in primo luogo un fatto di parole o di dottrine esteriorizzate, ma di vita: vale a dire che coincidono con un’esistenza donata come ha fatto Gesù.

Nei Vangeli la realtà del discepolato femminile è presente, ma il termine “discepola” non lo è ancora.

Luca riconosce, di fatto, il discepolato e l’apostolato, nella sua esposizione degli eventi e nelle espressioni che usa, in particolare, come si è visto, nell’uso ripetuto che fa dei verbi “seguire” e “servire”; eppure, sul piano consapevole ed esteriore, pare non volere porre in discussione il fatto che gli apostoli coincidono con i Dodici, ovviamente.

Nei Vangeli le notizie inerenti alla Maddalena e le altre due donne che seguono stabilmente Gesù sono molto povere e reticenti, anche così ambigue in certi casi, che possono avere aiutato le deformazioni interpretative.

Se Luca rammenta le donne alla sequela di Gesù fin dai tempi del ministero in Galilea, gli altri invece le nominano per la prima volta nel momento della crocifissione: ma come persone ben note, ponendo l’accento quindi che non compaiono sulla scena in quel preciso istante. Magari le citano per semplice necessità: non era possibile rifarsi alla testimonianza dei discepoli maschi ( i quali non c’erano perché all’arresto di Gesù nel Getsemani erano fuggiti), perciò diventava necessario menzionare le donne come testimoni, benché la loro testimonianza in Israele non avesse peso (ancora una volta la discriminante). Possiamo supporre che non avremmo saputo nulla della presenza delle discepole, se i discepoli non fossero precipitosamente scappati. In pratica si deve all’assenza maschile il ricordo della presenza femminile.

Conclusione.

Leggendo i Vangeli senza essere corazzati da troppe certezze di stampo maschile, è inevitabile dedurre che alcune discepole galilee ( nonostante la situazione della donna nella società del tempo), e certamente Maria di Magdala, in modo speciale, seguirono Gesù con speciale fedeltà anche nel momento del sacrificio supremo e che sono incaricate della missione prima d’ogni altro; sono investite di un ruolo apostolico nei confronti degli stessi apostoli riconosciuti, insomma degli Undici (dopo il tradimento di Giuda), e li precedono nella fede.

La precedenza non è irrilevante nemmeno in questo caso, vista l’importanza che è stata poi attribuita al fatto, sottolineato da Paolo e da Luca, che Pietro sia stato il primo fra gli undici a vedere il Risorto.

Nel primo capitolo degli Atti, 1,21-23, dove è narrata l’elezione di Mattia al posto lasciato vacante dal traditore e suicida Giuda, è fornito un duplice requisito per l’apostolicità:

  • il primo, avere seguito Gesù dai tempi del suo battesimo nel Giordano fino all’ascensione;
  • il secondo, essere stati testimoni della sua morte.

Fratelli e sorelle, secondo questi canoni, le discepole galilee, al primo posto la Maddalena, avrebbero pieno diritto al titolo d’apostolo; qualche dubbio potrebbe semmai sussistere per gli undici che, presi dal terrore, dalla delusione, non osano seguire Gesù fino alla Croce.

Maria di Magdala.

Le nostre conoscenze autentiche concernenti Maria di Magdala sono molto poche e coloro dai quali sono state trasmesse non avevano nessuna intenzione di informarci su di lei. Il poco che dai Vangeli si apprende a suo riguardo, si riferisce ai momenti in cui la sua esistenza personale incrocia in modo più ufficiale ed espressivo la vicenda della salvezza. Non possiamo sapere “come era” nell’aspetto e nel carattere, né quale fosse stata la sua vita precedente e di quale malattia specifica avesse contratto e sofferto, né in quale circostanza sia avvenuto il suo incontro con Gesù.

Possiamo supporre che abbia avuto un marito e sia ripudiata o vedova, oppure l’aveva ancora, oppure si tratta dell’adultera, chissà!,.. Il fatto è che è sempre stata rappresentata dagli artisti bella e giovane, tuttavia è possibile che in realtà si trattasse d’una donna anziana e fisicamente insignificante. Come possiamo renderci conto, sono questioni in sé del tutto senza prove, però da un punto di vista psicologico e culturale non è privo di significato che molti cristiani di mente non ordinaria sono stati indotti ad avanzarle, attraverso i secoli. Infatti, era naturale che l’immaginario religioso d’occidente vedesse Maria di Magdala giovane, bella e senza marito; ciò non si riferiva alla sua “persona”, ma alla sua funzione simbolo.

Se riflettiamo un attimo, il suo caso non è paragonabile con nessun altro. Il suo nome non evoca certo la seguace di Gesù prediletta di Gesù e prima testimone della resurrezione: evoca al contrario una prostituta pentita. Della prostituta tutti si ricordano, a differenza di altri che scordano di menzionare il pentimento. Non esiste ( come qualcuno vorrebbe far credere) alcuna reale connessione con Maria di Magdala in termini evangelici con la peccatrice Galilea e con la donna che unse Gesù. Però sul piano strettamente psicologico questi simboli di femminilità (capelli lunghi, vaso di profumo) rafforzano l’equivoco che si è determinato a suo riguardo.

Meditare su Maria di Magdala, come e più che sulle altre donne del Vangelo (ovviamente escludendo Maria, la madre di Gesù), indica anche confrontarsi con tutto il problema della donna nel cristianesimo, o anche della femminilità in rapporto alla sfera religiosa.

L’unico fra gli evangelisti che parli di Maria di Magdala prima della crocifissione è Luca, nel passo che si riferisce al passo del discepolato femminile di Gesù, e, di cui ho analizzato il problema. Tra le donne che lo seguivano, e che “erano state curate da spiriti maligni e da infermità” egli isola ed evidenzia Maria “dalla quale aveva fatto uscire sette demoni”.

Non è mio scopo ripetermi, ma al tempo di Gesù, la mentalità ricorrente ebraica attribuiva alla possessione demoniaca qualsiasi malattia dall’origine poco chiara e che non si sapeva come curare.

I demoni evocavano una realtà inquietante e caotica. Perciò secondo l’evangelista, Maria di Magdala non era stata una donna molto peccatrice, bensì molto malata. Affetta forse da una malattia psicosomatica (quale malattia non è psicosomatica?); certo da una malattia grave che pesava su tutta la sua vita, poiché i demoni erano sette, e sette è il numero della pienezza.

Non dobbiamo scordare che nel cristianesimo primitivo, i demoni erano sinonimo immediato di peccato, quanto meno la tentazione. Di qui l’idea che Maria di Magdala fosse stata di una peccaminosità travolgente, assoluta, totale.

Per noi lettori del Vangelo, Maria di Magdala pare dissolversi da tutte le supposizioni con le parole dell’annuncio pasquale : “Ho visto il Signore” (Gv.20,18).

Ecco, io la voglio ricordare in questo modo, al sepolcro.

Il primo giorno dopo il sabato, di buon mattino, Maria di Magdala (accompagnata da Giovanna e da Maria di Giacomo) si recò al luogo dove era stato sepolto Gesù. Nota con sorpresa che la tomba è vuota e rimane presso il sepolcro a piangere perché il suo amico e Maestro è morto; in quel frangente si accontenterebbe di sapere dove hanno portato il suo corpo.

MRIA DI Magdala rappresenta l’umanità sempre alla ricerca di un salvatore, ma con una speranza inibita e ristretta, che non osa. Infatti, la sua ricerca di Gesù è ancora molto umana: cerca Gesù tra i morti, dove non c’é. Molto spesso noi cerchiamo Dio dove non c’è attraverso modelli d’efficacia umana, di successo, di potere, di soddisfazioni facili.

La ricerca di Maria di Magdala, con gli occhi velati dalle lacrime che le impediscono di vedere chiaramente, è anche l’immagine di una società afflitta e smarrita, che desidererebbe almeno riflettere un poco, per comprendere le ragioni dei suoi mali, per vedere quali sono gli errori che ha commesso.

Gesù non è irritato dalla ricerca sbagliata e imperfetta della donna perché sa che in lei c’è molto amore e un profondo anelito. E, ad un tratto, Maria di Magdala vede con i suoi occhi colui che non credeva più di vedere, ascolta una voce intensa che non avrebbe mai più pensato di udire, si sente chiamare per nome: “Maria!”.

E’ espressivo che Gesù si riveli a lei non annunciandole l’evento che lo riguarda: “Sono risorto, sono vivo”, ma pronunciando il suo Nome :”Maria!”. Si tratta di una rivelazione personale, intima, esistenziale, che infonde non solo la certezza che Gesù è vivo, bensì la coscienza di essere da lui conosciuta veramente, nella pienezza e dignità. Quello di Gesù è un appello discreto di libertà, espresso con il nome che indica meglio l’interiorità.

Così Gesù vuole incontrare ogni uomo: avvicinandosi, correggendo le ricerche incerte, confuse, maldestre, rivelando il suo amore e chiamando per nome. Ciascuno di noi, come Maria, può fare l’esperienza del Risorto, scoprirne i segni pur se sente nel cuore poca speranza e se sul volto scendono le lacrime. E’ nell’interiorità che possiamo scoprire l’amore di Dio; è dentro di noi che possiamo sentirci chiamati e restituiti alla nostra identità profonda, alla nostra vocazione di figli di Dio.

Ma c’è un’altra riflessione da fare. La ricerca di Maria di Magdala è confusa e incerta, ma preziosa, è esperienza ineliminabile di una persona umana giunta ad un minimo d’autenticità e d’onestà con se stessa e con la vita.

La forza interiore e la speranza sono l’antidoto di cui abbiamo necessità contro il decadimento sociale, morale, civile e politico, un decadimento che tende a mandare in frantumi l’unità culturale e civile di un popolo, che tende a far perdere il senso delle ragioni per stare insieme e lavorare per lo stesso scopo, nella stessa direzione.

Per uscire dal cerchio infernale del degrado sociale e politico occorre che il cuore appesantito, come quello di Maria di Magdala che piange, sia mosso da una grande e concreta speranza, non legata a circostanze contingenti, a rimedi di corto livello sui quali siamo fin troppo portati allo scetticismo.

Gesù che appare a Maria di Magdala c’invita a cambiare modo di pensare e di vedere, ad accettare che l’amore di Dio dissolve la paura, che la grazia rimette il peccato, che l’iniziativa di Dio viene prima di ogni altro sforzo umano e ci rianima, ci rigenera interiormente. Proprio come gli apostoli ai quali è comunicato da Maria, quale primo testimone, che il Signore è Risorto, ed allora essi corrono al sepolcro.

Giovanna moglie di Cusa.

Ricordo con una certa attenzione e intenzione anche una discepola dimenticata: Giovanna.

La tradizione cristiana, nell’insieme, ha ignorato Giovanna moglie di Cusa. Chi si rammenta di lei oggi, al di fuori della cerchia degli esegeti del Vangelo? Vero è che tutto ciò che la riguarda sono soltanto due e molto brevi note, ma questo vale anche per altre figure sia maschili sia femminili del vangelo, e non può costituire l’unico motivo.

Anche in questo caso ho la netta impressione che si tratti di una ragione psicologica e forse pedagogica. Infatti, i fatti di questa altolocata signora dovevano apparire abbastanza curiosi e seccanti agli interpreti dei secoli scorsi.

Giovanna, ci narra il Vangelo di Luca, è la moglie di un uomo in vista, anzi di un membro importante della corte di Erode. Del marito si conosce il nome e il ruolo: Cusa, amministratore di Erode. Forse una sorta di ministro delle finanze. Altro non c’è dato sapere, d’interiore nessuna traccia. Ma per i lettori del vangelo scatta automaticamente far ricadere sull’ignoto Cusa qualcosa della negatività di Erode.

Giovanna lascia casa e marito e tutto il suo ambiente e la sua vita agiata, un’esistenza marginale perché femminile ma, nel suo contorno, privilegiata e certo comoda, per porsi alla sequela di Gesù, considerato un profeta (come tanti) itinerante piuttosto irregolare e malvisto. Viaggia dalla Galilea alla Giudea insieme con un gruppo d’uomini, nessuno dei quali le è unito da vincoli leali o di parentela. E questo rappresenta un problema, perché cosa succederebbe se un esempio del genere dovesse diffondersi? Così gli esegeti antichi sono soliti attribuire per certo che a quel tempo suo marito Cusa fosse già deceduto.

Ecco che a poco a poco avviene che Giovanna, donna imbarazzante e insolita anche sul piano socio-politico è trasformata in una buona vedova dedita all’assistenza materiale degli uomini di Dio, modello per tante altre buone vedove d’ogni tempo.

Al contrario forse nessuno, nella cerchia dei discepoli di Gesù, si compromette e rischia quanto Giovanna: moglie di un membro della corte d’Erode, re filo-romano sostenuto dai romani, si schiera apertamente dalla parte di un nemico di Roma, fino ad assistere in pubblico alla sua esecuzione, fra i suoi amici.

Mentre Erode solidarizza con il governatore romano Ponzio Pilato che lo condannerà a morte per crocifissione, lei solidarizza con Gesù, il Maestro, accettando il rischio di essere identificata come moglie del ministro e come ex membro della corte.

Giovanna è una figura femminile politica del N.T. che prende radicalmente sul serio la sequela di Gesù, fino alla croce in modo visibile, senza paura, senza vergogna, senza ripensamenti, ma con tanta fiducia nella Parola del Maestro.

La madre dei figli di Zebedeo.

“Allora gli si avvicinò la madre dei figli di Zebedeo con i suoi figli, e si prostò per chiedergli qualcosa. Eli le disse: Che cosa vuoi?. Gli rispose: Dì che questi miei figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno. Rispose Gesù: Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io sto per bere?. Gli dicono: Lo possiamo. Ed egli soggiunse: Il mio calice lo berrete; però non sta a me concedere che vi sediate alla mia destra o alla mia sinistra, ma è per coloro per i quali è stato preparato dal Padre mio”.

“Gli altri dieci, udito questo, si sdegnarono con i due fratelli”.

A questo breve episodio ricordato da Matteo mi sembra giusto dedicare un’attenzione un po’ intensa di quanto si fa normalmente; una riflessione, forse, anche un po’ lontana rispetto al tema essenziale del brano, che è l’ordine di precedenza secondo la logica del regno. La figura di questa madre ( o almeno il modo in cui è letto dall’evangelista, che è poi l’unico a cui noi abbiamo accesso) può far pensare anche oggi.

La madre di Giacomo e Giovanni chiede una sistemazione privilegiata per i suoi figli nel regno realizzato sulla terra. Secondo l’iconografia e il cerimoniale dell’antico oriente, alla destra e alla sinistra del re in trono sedevano i suoi massimi dignitari. Non si tratta certamente dell’unico caso in cui la tradizione sinottica ci pone di fronte a contese e discussioni sorte in seno al gruppo dei dodici per spirito d’arrivismo. Tutto fa pensare che ci troviamo davanti ad un quadro realistico della storia di Gesù. Il Maestro dovette fronteggiare i sogni di gloria dei discepoli e rivelare loro la sua prospettiva rovesciatrice d’ogni calcolo umano.

Sul piano dei fatti è possibile che in origine la madre non c’entrasse proprio nulla. L’iniziativa era esclusivamente di Giacomo e Giovanni (in questo senso racconta l’episodio il passo parallelo in Marco 10,35-45). La loro sostituzione con la madre, operata da Matteo, rivela il disagio sofferto dalla comunità cristiana primitiva ( che già aveva dovuto sanare la piaga di Giuda) di fronte ai progetti ambiziosi dei due apostoli, che , tra l’altro, godevano grandissima stima nella chiesa dei primi tempi.

Si tratta manifestamente di una correzione secondaria, che a suo modo conferma la storicità di un avvenimento imbarazzante ed esclude una creazione posteriore.

Ad ogni modo la donna di cui parliamo, la madre, non doveva poi essere tanto qualunque, se aveva lasciato la casa e il marito ( in questo caso non certamente deceduto, come sappiamo da un altro passo evangelico) e si era posta al seguito di Gesù. Matteo però la descrive con caratteristiche tradizionali, e questa discepola ci appare ancora prigioniera dei ruoli atavici, rigidi e superati.

La madre patriarcalmente esemplare non guarda per nulla a se stessa; davvero possiamo affermare che scorda se stessa, nella supplica; eppure la sua richiesta manca del tutto il bersaglio ottenendo un esito di una stoltezza sconcertante. La madre desidera ciò che è meglio per i suoi figli, ma dando al “meglio” un’accezione esclusivamente terrena e perciò incorrendo anche nell’egoismo, anzi nell’arrivismo.

Il Maestro rispondendo quasi la ignora denunciando in anticipo l’ignoranza dei due postulanti circa il prezzo altissimo richiesto per partecipare alla sua gloria. Si tratta di avere parte al suo destino di sofferenza e di morte, significato simbolicamente dal codice che egli si appresta a bere.

Venendo poi direttamente alla domanda Gesù predice ai due volenterosi discepoli proprio ciò a cui essi si sono dichiarati pronti, in altre parole la partecipazione al suo destino d’umiliazione e sofferenza. Si mostra invece evasivo sulla loro desiderata esaltazione. Non è compito suo ma del Padre introdurli nel regno glorioso in posizioni d’altissimo onore.

C’è un altro aspetto, non secondario, che facilmente può essere dimenticato, nel leggere il brano, e che pare invece d’importanza fondamentale. La madre dei figli di Zebedeo, in ogni modo si siano svolti gli avvenimenti nella circostanza, più tardi si affranca dalle strettoie della sua cultura. Cresce, diventa se stessa, supera se stessa; e la ritroviamo, sempre secondo Matteo (27,55), ai piedi della croce di Gesù insieme con le altre donne, quando tutti i discepoli maschi avranno dato pessima prova di sé: uno ha tradito Gesù, uno lo ha rinnegato, tutti lo hanno abbandonato, compresi Giacomo e Giovanni che aspiravano ad un posto privilegiato.

Alla destra e alla sinistra di Gesù in quel drammatico momento si trovano due ladri.

Ai piedi della croce ci sono però alcune donne. Maria sua madre, Maria di Magdala, Giovanna moglie di Cusa, Maria madre di Giacomo il minore e di Ioses, e la madre dei figli di Zebedeo. La quale certo ha compreso, finalmente, qual è, nel regno, la posizione privilegiata.

La Parola del Signore dovette avere una risonanza nuova nella comunità cristiana primitiva, che ben presto conobbe l’esperienza dolorosa delle persecuzioni. Essa appare allora una perdizione valida non solo per i due discepoli, ma anche per tutti i credenti.

E fu certo alla base della sviluppata teologia del cristianesimo primitivo, secondo la quale la strada che conduce alla glorificazione passa necessariamente per il cammino della croce.

Il caso particolare dei figli di Zebedeo è così universalizzato e divenne tipico dell’esperienza di tutta la chiesa.