Chi è per noi

Del pastore si parla diverse volte nel NT e vale la pena collezionare i vari testi e rileggerli (vedi anche “Gesù il buon pastore”):

Mt.9,36; Mc.6,34; Mt.10,16; Lc.10,3; Mt.18,12-14; Lc.15,3-7; Mt.25,31-46; Mt.26,30-32; Mc.14,26-31; Gv.16,32; Gv.10,1-18; Gv.21,15-17; Eb.13,20-21; 1^Pt.2,25 e 5,1-4.

Ne emerge, fratelli e sorelle, un rapporto molto chiaro: Gesù-pastore e noi-gregge del suo pascolo.

Ora, questa immagine del pastore ci parla senz’altro di affezione, di cura premurosa e diligente, di sollecitudine; ma per gli ascoltatori di Gesù al suo tempo essa era carica di due connotazioni di segno diametralmente opposto. La prima era senza dubbio positiva, perché l’AT parla di Dio come del buon pastore d’Israele innumerevoli volte, e questo era parte essenziale della memoria dei contemporanei di Gesù, significando proprio cura affettuosa e sollecita e, soprattutto, un legane di reciproca appartenenza (Ez.34,1-31, Is.40,11; sal.23;)

Del resto, non aveva forse fatto Israele esperienza di un re-pastore, David, tolto da dietro le pecore per guidare il popolo secondo il cuore di Dio? (sal.78,70-72).

E non era in attesa dell’Unto del Signore, figlio di David, che lo conducesse come un gregge ordinato, verso una liberazione definitiva?.

La seconda connotazione, però, era negativa, perché al tempo di Gesù i pastori costituivano una categoria sociale disprezzata ed emarginata: esercitavano infatti un mestiere considerato impuro dal punto di vista della purità legale che rendeva atti al culto, per il loro continuo contatto col bestiame, e spesso commettevano reati di furto o di pascolo abusivo. Rientravano quindi tra quella gente per male con cui Gesù si mescolava volentieri, allo stesso modo dei pubblicani e delle prostitute, ma che era tenuta a distanza dalle persone d’ordine.

Con l’immagine del pastore quindi Gesù applica a sé un simbolo positivo e negativo contemporaneamente, capace di svelarlo e di coprirlo nello stesso tempo, e tale da esporlo al rischio del rifiuto da parte dei suoi uditori.

Secondo Luca, per di più, Gesù è nato tra i pastori (Lc.2,8-20), in ambiente cioè socialmente equivoco (da subito si è messo dalla parte sbagliata e sgradita, identificandosi non con l’aristocrazia intellettuale e religiosa del suo tempo, ma con coloro che per definizione non erano in grado di obbedire alla Legge e quindi vivevano ai margini della società ebraica).

Il Cristo è quindi un pastore sollecito che però non si attende di essere accolto, un liberatore la cui identità profonda è velata da un’apparenza dimessa e riprovevole, un messia regalmente povero e disarmato, già pronto all’insuccesso.

Ma il pastore ha le sue pecore. Il rapporto, visto dalla parte di questo, è di appartenenza, di affidamento totale, di sequela, tanto nell’esperienza quotidiana descritta da Gv.10, quanto nella dimensione della storia nel suo sbocco ultimo fino a Mt.25, compresi i momenti di stanchezza e di smarrimento (Lc.15,3-7).

Gesù dice che la reciproca appartenenza tra pecore e pastore è così stretta da giungere alla condivisione del medesimo destino ed è proprio a questo punto che si rende chiara l’identità cristiana oggi tanto dibattuta.

Il rapporto con Cristo, se consideriamo il modello pastore-gregge, è un rapporto dinamico, che si decide giorno per giorno e momento per momento. Il pastore guida il gregge che ne segue le orme, ma, appunto, si tratta di rinnovare continuamente una decisione di appartenenza, battendo le orme di un pastore che conosce la strada di cui noi sappiamo ben poco.