Il samaritano

Rammento di aver letto di un giovane che trovò una donna dentro una carcassa di automobile, in una delle tante bidonville alla periferia delle grandi città. Stava là dentro da oltre trenta giorni, malata, senza nessuno che l’aiutasse, in una sporcizia inimmaginabile. Il giovane cercò di aiutarla. Bussò alla porta di alcuni istituti di assistenza ma non trovò nessuno che l’aiutasse. Gli rispondevano:”Giovanotto, mi dispiace, ma non posso far niente per te”. Oppure:”Anche se lo volessi, ragazzo mio, non potrei proprio aiutarti. Di notte noi qui non riceviamo nessun malato; a eccezione dei casi della mutua”.

Alla fine, aiutato da un passante occasionale, mise la poveretta nella sua macchina e la portò lui stesso all’ospedale. Venne ricevuto da una suora che gli rispose: “Anni fa, quando eravamo noi a occuparci dell’ospedale, avrei potuto aiutarti, ma adesso, non posso fare assolutamente nulla”.

La portò allora al pronto soccorso, e il medico di guardia disse:” Se mi metto ad aiutare questa donna, rischio di perdere il posto! Ma –pensò un po’, si grattò la testa, e decise –correrò il rischio!” Aiutò la poveretta, prestandole le prime cure: Quindi nei giorni seguenti riuscì a farla ricoverare in un istituto di accoglienza.

Un fatto della vita del tempo della Bibbia.

Gesù domandò al paralitico: “Vuoi essere guarito?”

Quello rispose: “Signore, non c’è nessuno che mi porti fino alla piscina, quando l’acqua incomincia a muoversi. Quando io arrivo laggiù, un altro è già entrato prima di me”.

Il paralitico stava lì da 38 anni, aspettando sempre una mano amica che lo aiutasse a entrare nella piscina, per essere guarito dall’agitarsi delle acque. Aspettò 38 anni e nessuno venne ad aiutarlo. Gesù lo aiutò nell’ora giusta: “Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina con le tue gambe!”(Gv.5,1-9).

Approfondiamo il fatto della vita

Due casi simili: quella donna aspettò trenta giorni, sola, morente, in una automobile sfasciata, nella più lurida periferia; il paralitico aspettò 38 anni, tra gli altri ammalati, vicino alla piscina. Come può succedere una cosa simile?

Ascoltiamo cosa ha detto Gesù alla gente del suo tempo su questo problema

Molte persone sono solite mettere in pace la loro coscienza e, di fronte alla miseria della gente, trovano sempre una scusa giusta e ragionevole per esimersi dalla colpa. Facevano così anche i farisei. Dicevano di dover amare solo il prossimo e non gli altri. Il loro maggior problema era quello di sapere: chi era il prossimo?

Leggiamo cosa dice Gesù in Luca 10,25-37

Commento

Per commentare questa parabola dobbiamo tenere presente una verità inconfutabile e cioè che perfino il nostro mondo di credenti può diventare così contorto e aggrovigliato da farsi incomprensibile a noi stessi. A volte viviamo di frammenti cristiani, di approssimazione confuse, di nostre invenzioni religiose. Mai come in questi tempi nei quali c’è l’esplosione di sette esoteriche e sataniche abbisogniamo di chiarezza. Eppure i comandi e i decreti di Dio sono chiari, comprensibili. Non sono troppo lontani e alti. Solo la nostra meschinità intellettuale e morale riesce a oscurare la chiarezza e la bellezza della sua legge dell’amore. Il fatto è che per capirla, al di là delle varie spiegazioni e insegnamenti, e accoglierla bisogna con molta umiltà interiore sempre convertirci “con tutto il cuore e con tutta l’anima”.

Noi siamo come il dottore della legge che è pieno di domande su Dio e sul prossimo. Gesù al quesito che gli viene posto (Lc.10,25-29) risponde che il centro della legge ha due facce indisgiungibili: l’amore di Dio e l’amore al prossimo.

Allo stesso tempo, però, fa notare che l’amore di Dio viene prima ed è totale (il prossimo è da mare e da servire. Non da adorare, come invece Dio); e che, infine, tutto ciò non costituisce in alcun modo una novità, essendo già presente nelle Scritture che lo stesso dottore della legge conosce.

Pare di capire che il dottore della legge non sia soddisfatto della risposta di Gesù. Il problema è più complesso: chi è il prossimo? Lui come noi del resto chiediamo: chi è il prossimo da amare? Il vicino? Il correligionario? Il sofferente? Il giusto? La persona che frequenta il cenacolo e la comunità? Il simpatico? I parenti? Ecc..

Il dottore della legge vuol sentire in proposito l’opinione di Gesù, che gli risponde proprio con il prosieguo della parabola (Lc.10,30-35).

Gesù non formula una casistica, non allunga la serie delle opinioni teologiche nel merito della questione. Racconta un esempio. Propone, infatti, un comportamento da imitare, e non va trasportato da un piano all’altro, da quello figurato a quello religioso, poiché è già esso stesso sul piano spirituale.

Ma occorre ancora fare un’osservazione generale prima di addentrarci nella rinarrazione della parabola. Il dialogo fra il dottore della legge e Gesù è costruito su uno schema molto significativo: domanda del dottore della legge (10,25) e controdomanda di Gesù (10,26), seconda domanda del dottore della legge (10,29) e seconda controdomanda di Gesù (10,36). Questo schema rende evidente una costante dei dibattiti di Gesù e, più profondamente una caratteristica della stessa rivelazione: le risposte di Gesù esigono che l’ascoltare cambi innanzitutto la direzione della sua domanda. Gli interrogativi dell’uomo sono troppo limitati per le risposte di Dio. Anche l’analisi di questa parabola mostra che Gesù non risponde direttamente alle domande del dottore della legge.

Quando mai Gesù risponde “soltanto” alle domande che gli vengono poste? Le sue risposte sono “oltre” e “più ampie”.

Il sacerdote e il levita

Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico: tra le due città ci sono mille metri di dislivello e circa trenta chilometri di strada attraverso l’arido e spopolato deserto di Giuda: un luogo ideale per le imboscate. Il viandante viene assalito, depredato e abbandonato mezzo morto.

Un sacerdote e un levita (tornavano dal loro servizio al tempio, con ogni probabilità) giungono sul posto e,scorto il ferito, lo evitano passando oltre, dal lato opposto. Insensibilità? O piuttosto desiderio di mantenere la propria purezza cultuale? Sappiate, infatti, che era prescritto (sempre le innumerevoli norme dei farisei) ai sacerdoti che prestavano servizio al tempio di mantenersi puri, e il sangue contaminava.

Ma perché Gesù sceglie, quali figure negative, proprio un sacerdote e un levita? Impossibile non ravvisare in questa scelta un’intenzione polemica: l’osservanza cultuale non deve distrarre dall’essenziale, cioè dall’amore per il prossimo, e la purezza che Dio vuole è la purezza dal peccato, dall’ingiustizia, non dal sangue di un ferito.

Il dottore della legge che stava ad ascoltare la narrazione, ha probabilmente pensato: i due hanno fatto quanto dovevano fare, è giusto anche se doloroso!

Gesù, invece, è di parere opposto: E questo mostra che la sua polemica non è indirizzata contro una classe religiosa, ma contro una prospettiva religiosa universalmente condivisa.

Il samaritano

Passa un samaritano, si ferma, si prende cura del ferito. Il samaritano è presentato come un modello, e lo stupore del dottore della legge, a questo punto, certamente dovette essere grande ( lo stupore dell’ascoltatore è sempre, o quasi, un segnale che la narrazione sta toccando un punto su cui occorre soffermarsi). I samaritani venivano considerati impuri, gente da evitare alla stregua del pagani. Nonostante questo (anzi proprio per questo), Gesù sceglie come personaggio-modello della parabola un samaritano, non un fariseo osservante. Si tratta di una seconda intenzione polemica: la bontà non ha confini, afferma Gesù, e gli esempi da imitare si trovano anche là dove non ce lo si aspetta, perché Gesù è libero da ogni pregiudizio. Il bene non è tutto da una parte e il male dall’altra. Gesù riprende questo concetto successivamente in Luca 17,11-19. Egli risana dieci lebbrosi, ma uno solo torna indietro a ringraziarlo: “Era un samaritano” E Gesù osserva: “Non si è trovato chi tornasse a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?”

Il samaritano è chiamato straniero “di altra razza”, dice il testo alla lettera, ma la differenza era anche di tipo religioso. Ebbene, proprio questo straniero, di altra razza e di altra fede, è l’unico dei dieci che si ricorda di dar gloria a Dio: un privilegio, questo, che i giudei pensavano spettasse soltanto al loro popolo.

Ma ritorniamo al nostro racconto. Indirettamente la parabola lascia intendere che il prossimo da aiutare è qualsiasi bisognoso che si incontri. Potrebbe essere questa la risposta diretta alla precisa domanda al dottore della legge: “Chi è il mio prossimo?”.

L’attenzione di Gesù è però rivolta altrove. Dell’uomo bisognoso dice soltanto che giaceva sulla strada derubato, ferito e mezzo morto. Che altro è necessario sapere? La narrazione indugia piuttosto sulla figura del samaritano. E si sofferma nel descrivere non chi egli sia, bensì che cosa abbia fatto. Quando una narrazione, prima scattante, a un certo punto rallenta dilatandosi, è perché si è giunti alla scena più importante, che va considerata senza fretta. Infatti, l’attenzione cade sul comportamento del samaritano: vede il ferito, sente compassione, si avvicina, fascia le ferite, lo carica sulla sua cavalcatura, lo porta a una locanda, si prende cura di lui, paga l’albergatore.

Praticamente è come se a Gesù poco importasse la domanda del dottore della legge (“chi è il mio prossimo”), e rispondesse invece a un’altra: come devo comportarmi nei confronti del prossimo? Che significa amare il prossimo? L’attenzione di Gesù è concentrata sul grande comandamento –amare Dio e il prossimo–, non sulla curiosità teologica del dottore della legge.

Vedete, il samaritano non si è chiesto chi era il ferito, e il suo aiuto è stato disinteressato, generoso e concreto. Ecco che cosa significa amare il prossimo. Non a parole, ma gesti concreti. Amare il prossimo vuol dire prendersi interamente a carico la sua condizione.

Che a Gesù stia a cuore il “che cosa fare” è indicato anche dalle due risposte date al dottore della legge: “Hai risposto bene, fa questo e vivrai” (10,28); “va e anche tu fa lo stesso” (10,37). Il dottore della legge tentava di spostare la domanda dal fare alla teoria, Gesù lo riporta al fare.

Chi dei tre si è fatto prossimo?

Si direbbe che, a questo punto, il discorso sia chiuso. E’ stata fatta una domanda (chi è il prossimo?) ed è stata data la risposta (il bisognoso che si incontra). Invece, giunto alla conclusione (10,36), Gesù pone inaspettatamente un’altra domanda, che racchiude un ultimo insegnamento, forse il più importante. E’ una domanda formulata in modo diverso da come l’ascoltatore si aspetterebbe. Non: “chi dei tre ha saputo vedere nel ferito il prossimo da amare?, bensì: “Chi di questi tre ti sembra si sia fatto prossimo a colui che è incappato nei briganti?”.

In questo modo la domanda del dottore della legge viene ulteriormente spostata: prima dalla teoria alla pratica, ora dall’esterno (chi è l’altro?) all’interno (chi sono io?).

Per Gesù chiedersi chi sia il prossimo è in definitiva un falso problema: il prossimo c’è, vicino, visibile, però occorrono occhi capaci di scorgerlo.

Il vero problema è che noi dobbiamo farci prossimo di chiunque, abbattere le barriere e le differenze che abbiamo dentro di noi e che costruiamo fuori di noi. Dobbiamo comportarci come il samaritano che si è sentito prossimo, coinvolto, fratello nei confronti di uno sconosciuto. Il dottore della legge, che aveva una curiosità teologica da soddisfare, si è visto invitato a convertire se stesso.

Questo significa anche ritornare alla chiarezza della legge di Dio.

Non chiediamoci quanto gli altri possono darci, ma quanto noi stessi possiamo dare agli altri. Se la società in cui viviamo ci sembra ostile forse dovremmo seriamente chiederci quanto noi siamo duri con chi ha bisogno di noi.

Amen,alleluia,amen.