Vangelo di Luca – Cap. 13,1-9 al 13,31-35

Carl Heinrich Bloch - il discorso della montagna

Invito alla conversione.

Capitolo 13,1-9

*In quello stesso momento si presentarono alcuni a riferirgli il fatto dei galilei che Pilato aveva fatto uccidere mescolando il loro sangue con quello dei loro sacrifici. *Egli rispose loro: Credete voi che quei galilei fossero più peccatori di tutti i galilei per avere subito una tale sorte? *No, vi dico, ma se non vi ravvedete, tutti perirete allo stesso modo. * E quei diciotto sui quali cadde la torre di Siloe e li uccise, credete voi che fossero più colpevoli di tutti gli altri abitanti di Gerusalemme? *No, vi dico, ma se non vi ravvedete, perirete tutti allo stesso modo. *Raccontò poi questa parabola: Un uomo aveva un fico piantato nella sua vigna; e venne a cercarvi frutto, ma non ne trovò. *Allora disse al vignaiolo: Ecco, da tre anni vengo a cercar frutto da questo fico e non ne trovo. Taglialo: perché deve sfruttare il terreno? *Ma il vignaiolo rispose: Padrone, lascialo ancora quest’anno finché gli zappi intorno e vi metta del concime; *forse farà frutto in avvenire; se no lo taglierai.

Il lungo discorso di Gesù (capp.12,22-13,9), che si è aperto con l’imperativo della vigilanza e della responsabilità, si conclude con un pressante invito alla conversione. Mentre Gesù sta parlando, qualcuno lo informa della strage che il procuratore romano Ponzio Pilato ha compiuto a danno di Galilei mentre offrivano sacrifici nel Tempio. Strage che aveva suscitato orrore e sdegno negli abitanti di Gerusalemme. Si trattava di simpatizzanti del movimento Zelota, sorto precisamente in Galilea nell’anno 6 d.C., il quale propugnava la lotta armata contro l’occupazione romana. Coloro che riportano l’accaduto a Gesù vogliono senz’altro provocare un suo giudizio e una presa di posizione. Che cosa intende fare contro la brutalità e il cinismo delle forze d’occupazione? Gesù allora, riferendosi alla vecchia opinione ebraica secondo cui il male materiale era sempre una punizione di un male morale, rispose: Credete voi forse che quei Galilei rimasti uccisi fossero peccatori più di tutti gli altri Galilei, essendo capitata loro questa sorte? Tutt’altro; vi dico, infatti, che “se non vi ravvedete, tutti perirete allo stesso modo”.

Tra l’altro era ancora viva nel ricordo di tutti un’altra disgrazia: diciotto operai che lavoravano nelle vicinanze del Tempio, nel quartiere di Siloe, erano rimasti uccisi nel crollo di una torre. Ebbene, fece notare, Gesù: “…credete voi che fossero più colpevoli di tutti gli altri abitanti di Gerusalemme? No, vi dico, ma se non vi ravvedete, perirete tutti allo stesso modo”. A questo punto Gesù contesta il sistema farisaico e il conseguente pregiudizio religioso popolare che stabiliva una perfetta equazione tra peccato e castigo. La minaccia di una fine violenta è senz’altro evitabile, basta a tale scopo ricorrere al “cambiamento di mente”. Le parole di Gesù sono nettissime nel loro dilemma: o convertirsi o perire. Il fatto è che Gesù cerca di far comprendere alla folla che l’uomo non può inquadrare l’azione di Dio nei suoi schemi precostituiti per il proprio privilegio e prestigio, e trasformarsi in contabile di Dio. Questa pretesa genera il peggior imperialismo che può servirsi anche della violenza programmata per instaurarsi e conservarsi. In sostanza era questo lo sbocco dello zelotismo e del movimento farisaico nelle sue deformazioni: la supremazia religiosa e politica in nome di Dio. Gesù fa saltare alla radice questo tentativo invitando tutti, farisei, zeloti, galilei, giudei e abitanti di Gerusalemme, al cambiamento, alla conversione.

Senza dubbio alcuno il “cambiamento di mente”, rappresenta lo scopo ultimo della missione di Gesù; la missione è presentata come ultima dilazione offerta da Dio al popolo prediletto affinché si converta, in caso negativo, le minacce si eseguiranno. Parole dure, persino minacciose, e tuttavia pronunciate per salvare più che per punire, come suggerisce la parabola del fico sterile a commento e rincalzo di quest’invito rivolto a tutti. Pur nella sua semplicità, la parabola riesce a dire molte cose. Il fico sterile rappresenta il popolo di Dio. La sterilità del popolo è ostinata: sono tre anni che il padrone viene a cercare i fichi senza trovarne (i tre anni circa della predicazione di Gesù). E il giudizio rimane all’orizzonte in tutta la sua serietà: due volte ricorre nella parabola il verbo “tagliare”. Ma questo tempo è ancora tempo di misericordia. Gli equivoci possibili sono due. C’è chi pensa: ormai è troppo tardi, la situazione è irreversibile, la pazienza di Dio si è esaurita. E c’è chi pensa: Dio è paziente, c’è sempre tempo. La parabola insegna un altro atteggiamento: il cambiamento è ancora possibile.

Ma non si può programmare la pazienza di Dio né approfittarne. Il giudizio sarà tanto severo e, perciò, la conversione tanto importante che Dio concede un’ultima opportunità. Il tempo della misericordia si allunga per rendere possibile il cambiamento, non per rimandarlo. Il centro (o il non ovvio) della parabola non sta nella ricerca dei frutti (ogni contadino si aspetta che un albero produca frutti) né nella volontà di tagliarlo dopo aver constatato per tre anni che non dà frutti (ogni contadino lo farebbe) né nella decisione irrevocabile di tagliarlo se non dovesse dare frutti neppure dopo un ultimo anno d’attesa (ci mancherebbe!). La novità sta nel fatto che ad un fico così sterile sia ancora concessa una possibilità. Perché? Bisogna leggere e meditare la parabola tenendo presente che il “padrone” è Dio, che il “fico” è il popolo eletto, e che il “contadino” è Gesù. Nell’eccidio del tempio e nella disgrazia della torre, Gesù legge i segni dei tempi: la morte può giungere improvvisa. Altrettanto la chiamata e il giudizio di Dio possono arrivare quando meno ce lo aspettiamo. Di qui la lezione chiara: convertirsi e fare penitenza per non essere sorpresi da avvenimenti decisivi. Anche la parabola del fico sterile è un preciso invito a non trascorrere un’esistenza vuota, ma a fruttificare e arricchirsi per il giorno della chiamata del Signore. La pazienza di Dio che sa aspettare perché l’uomo si converta e porti frutto, c’impegna valorizzare il dono della vita. La realtà della morte sempre incombente non è uno spauracchio, ma il segno dei tempi più impellente e più sicuro che ogni uomo deve saper interpretare. Pensando alla morte troviamo la forza di esistere al male e di operare il bene.

Guarigione di una donna in giorno di sabato.

Capitolo 13,10-17

*Gesù stava insegnando in una sinagoga in giorno di sabato. *C’era là una donna che da diciotto anni aveva uno spirito che la rendeva inferma; era tutta curva e non poteva drizzarsi in nessun modo. *Vedutala, Gesù le rivolse la parola e le disse: Donna eccoti libera dalla tua infermità. *Le impose le mani, e quella subito si raddrizzò e si mise a glorificare Dio. *Allora il presidente della sinagoga, sdegnato perché Gesù l’aveva guarita di sabato, prese a dire alla gente: Ci sono sei giorni in cui si deve lavorare; in quelli dunque venite a farvi guarire e non in giorno di sabato. *Gli rispose il Signore: Ipocriti! Chi di voi il sabato non scioglie il suo bue e l’asino dalla mangiatoia e non lo conduce ad abbeverare? *E questa figlia di Abramo che satana ha tenuto legata da diciotto anni non doveva essere sciolta da questo legame in giorno di sabato? *A tali parole tutti i suoi avversari rimasero confusi, mentre la folla si rallegrava delle cose meravigliose da lui compiute.

E’ il secondo episodio di guarigione in giorno di sabato riferito da Luca. La novità in questo racconto è l’iniziativa di Gesù a favore di un povera disgraziata doppiamente esclusa, perché donna e perché colpita da malattia cronica. Come in altri casi, la malattia viene fatta risalire ad uno spirito di malattia, perciò l’intervento di Gesù non è soltanto una guarigione, ma un gesto di liberazione dal potere di satana che tiene legata la donna. E’ interessante notare il gesto di Gesù che prende la donna sotto la sua protezione e la parola che dà significato all’avvenimento. La donna riconosce con fede spontanea che la guarigione è un dono di Dio per la salvezza.

Gesù, durante la sua peregrinazione nella Giudea, si era recato di sabato in una sinagoga mettendosi ad insegnare. Tra i presenti c’era una donna ammalata da diciotto anni, rattrappita che non poteva in nessun modo alzare la testa e guardare in alto, “…era tutta curva e non poteva raddrizzarsi in nessun modo” (forse a causa di artrite o di paralisi). Gesù la notò, la chiamò e le disse: “Donna eccoti libera dalla tua infermità”; e le impose le mani. La povera donna, raddrizzatasi all’istante, si mise a ringraziare e glorificare Dio. A questo punto il capo sinagoga che presiedeva l’adunanza s’indignò per la guarigione effettuata in giorno di sabato; tuttavia, non osando riprendere direttamente Gesù, mostrò e scaricò tutto il suo livore verso la gente: “Ci sono sei giorni in cui si deve lavorare; in quelli dunque venite a farvi guarire e non in giorno di sabato”. Per lo zelante capo sinagoga, la guarigione della donna non significava nulla, il sabato invece ( che del resto non era stato violato) rappresentava tutto. Gesù allora rispose a lui e ai presenti con la stessa mentalità: “Ipocriti! Chi di voi il sabato non scioglie il suo bue e l’asino dalla mangiatoia e non lo conduce ad abbeverare”. Il fatto è che sciogliere o stringere un nodo di fune era compreso in quei 39 gruppi d’azioni che erano proibite di sabato; ma nella pratica, trattandosi di bestie domestiche, si provvedeva in una maniera o nell’altra al loro sostentamento. Chiarito ciò, Gesù aggiunge ancora: “E questa figlia di Abramo che satana ha tenuto legata da diciotto anni non doveva essere sciolta da questo legame in giorno di sabato?”. Se dunque c’era un giorno più opportuno di tutti per dimostrare la vittoria di Dio su satana, cioè del Bene sul Male, era appunto il sabato, il giorno consacrato a Dio: quindi Gesù, meglio d’ogni altro, era penetrato nello spirito del sabato, operando appunto in esso la vittoria di Dio su satana.

Al ragionamento di Gesù la folla assentì cordialmente; quanto ai suoi avversari “rimasero confusi”. Anche stavolta la polemica sul giorno del sabato non è tanto contro le forme, quanto sul contenuto, le idee che le sostengono. Contro una falsa gerarchia di valori che per “salvare” Dio (quasi ne avesse bisogno!) tende a metterlo in conflitto con l’uomo. Contro tutto una mentalità installata che canonizza la ripetizione. Contro una religiosità senza immaginazione. Eppure dal Creatore non può venire se non una pedagogia della creatività. I santi hanno avuto una buona dose di fantasia. Certo l’estremo opposto sarebbe crederci tutti degli Agostino, incompresi e bloccati dalle strutture. Ma ognuno di noi ha ricevuto da Dio una sua dose di creatività perché la metta a frutto anche nel campo della religiosità. La creatività non funziona senza motivazioni, senza idee. Se abbiamo in testa una caricatura di Dio useremo l’immaginazione riproduttiva per cercare sotterfugi e legalismi per “salvarci”, assegnando a Dio solo qualche devozione. Se invece Dio è amore, obbediremo ad un continuo impulso ad inventare, ad essere sempre nuovi verso di lui e i fratelli. In sostanza la sclerosi del formalismo religioso impedisce non solo di cogliere la genuina volontà di Dio, ma rende anche ottusi di fronte alla manifestazione palese del suo amore liberante.

Il seme di senapa e il lievito.

Capitolo 13,18-21

*Diceva dunque: A che cosa è simile il regno di Dio e a che cosa si può paragonare? *E’ simile a un chicco di senapa che un uomo prese e gettò nel suo orto. E crebbe e divenne un albero e gli uccelli vennero a posarsi tra i suoi rami. *E di nuovo disse: A che cosa paragonerò il regno di Dio? *E’ simile al lievito che una donna prese e mescolò con tre staia di farina finché tutta ne fu lievitata.

Esistono cose nella vita, cui non si dà importanza: una sola goccia di profumo riempie tutta la stanza di un’aria gradevolissima; un pizzico di fermento fa lievitare tutta la pasta del pane; qualche goccia di quaglio è sufficiente per far coagulare molti litri di latte; l’esplosione di un solo atomo distrugge un’intera città; un chicco di granoturco produce una pannocchia piena di chicchi; un piccolo errore nel calcolo fa crollare edifici e cavalcavia ecc…Sono piccole cose, che generano grandi effetti: Così avviene nella natura, così succede pure nella vita. Così è oggi, così era al tempo di Gesù. Chi disprezza il seme, perché tanto piccolo, non arriverà mai a vedere i frutti, che potrebbero saziare la fame. Ci sono tanti piccoli semi nella nostra vita, di cui neppure ci accorgiamo. Per cui corriamo il rischio di perdere il futuro che andrà a vantaggio dei nostri figli o nipoti. Come sempre è Gesù che ci viene in aiuto, per chiarire il problema.

Le due brevi parabole sono un invito alla speranza e alla fiducia che si fondano non sui calcoli delle probabilità o sulle revisioni della futurologia, ma sulla fedeltà e potenza di Dio che si è manifestata nella storia. Nonostante gli umili inizi dell’azione di Dio per rendere manifesta e operante la sua giustizia e il trionfo della libertà della persona e nell’opera di Gesù, la sua manifestazione finale condurrà tutta la storia umana nella piena giustizia e libertà. Nel breve racconto compaiono tre personaggi: un uomo (il seminatore sottinteso), il seme, gli uccelli. Tutta l’attenzione cade però sul seme. Va precisato che il regno di Dio non è paragonato al seme in questo contesto, ma alla storia del seme. Essa, ovviamente, non può che svolgersi in tre tempi: la semina, la crescita, l’albero fatto

Nella parabola si parla di tutti e tre i momenti, ma l’attenzione è richiamata soltanto sul primo e sull’ultimo: sulla proverbiale piccolezza del seme e sulla straordinaria grandezza dell’albero. L’essenziale è racchiuso nell’opposizione “il più piccolo-il più grande”. Nulla viene detto del processo intermedio., che, al contrario, non è semplicemente una fase con l’unico scopo di rilevare la continuità fra il seme e l’albero, fra l’inizio del regno e il suo compimento. Si tratta, invece, di un tempo di crescita, con un proprio significato. Esso non è ancora il tempo del compimento, ma non è neppure quello dell’inizio. E’ il tempo in cui la Parola già corre nel mondo, il Vangelo si diffonde, i pagani e i peccatori si convertono. Lo scopo della parabola non è di consolare i credenti che vivono in un oggi senza senso, deludente e scoraggiante, assicurando loro un avvenire grandioso che li ripagherà d’ogni fatica. Lo sguardo verso il futuro è volto a spiegare il senso corretto, ma nascosto, dell’oggi. Certamente non si comprende l’oggi se non si guarda al futuro, come non si comprende la qualità del seme se non si conosce l’albero. Tuttavia, non è l’albero che dà forza al seme, ma viceversa. L’albero fa semplicemente capire la forza che il seme già possiede in se stesso.

Nell’ambito del regno di Dio i criteri della grandezza e dell’apparenza non servono per valutare ciò che conta o ciò che non conta, ciò che ha un futuro e ciò che non lo ha. I discepoli, d’ogni tempo, non devono fare propri i criteri del mondo, inseguendo sogni di grandezza e confondendo la forza del regno con il fascino del potere o del numero o del prestigio. La parabola è un richiamo al valore decisivo delle occasioni normali, umili e quotidiane, che formano il tessuto abituale della vita. La su apparente banalità non deve diventare motivo di trascuratezza. Il regno di Dio è qui, in questa realtà, soprattutto quale espressione visibile del mondo interiore invisibile. Il lievito, che fa fermentare la pasta, è per lo più un’immagine negativa ad una prima lettura, nel senso che basta un poco di male per rovinare una grande quantità di bene. Sorprendentemente la parabola rovescia l’immagine (capovolgere le immagini è sempre segno di genialità). Cioè, serve a sorprendere e catturare l’attenzione. E, soprattutto, serve a mostrare il senso nascosto, non ovvio, delle cose. Il significato recondito della parabola è che anche il bene è contagioso, non soltanto il male. Forse, anzi senza forse, non è un caso che Gesù abbia usato il verbo mescolare (altri testi usano il verbo nascondere) per descrivere il gesto della donna che mette il lievito dentro la pasta. La presenza del regno è mescolata, velata, come quella del lievito nella farina.

Gesù ha racchiuso l’intera parabola in una sola frase. Così la narrazione è agile, essenziale, tutta orientata al centro. Gesù non concede distrazioni. Il centro è il contrasto tra la piccola quantità di lievito e la grande massa di farina. La meraviglia nasce dal fatto che una realtà tanto piccola ne produca una tanto grande. Il punto è l’insospettata forza del lievito. Di tutto il resto si tace: neanche un accenno, per esempio, alla progressività della fermentazione o al tempo che essa richiede. Già questo basta a farci comprendere che la lievitazione di una così grande massa di farina non va sbrigativamente identificata con una progressiva, e infine totale, cristianizzazione del mondo. Il lievito trasforma, la sua forza è sorprendente, ma non si deve pretendere di osservare i progressi momento per momento. Solo se si ha la pazienza di attendere fino al mattino, ci si accorgerà che, durante la notte, il lievito ha fatto fermentare la pasta. La grande quantità di pasta fermentata svolge la stessa funzione del grande albero nella parabola precedente. Perciò, come la precedente, la parabola è teologica, rivelazione prima che avvertimento. Nell’inizio c’è già tutta la forza trasformante che si constaterà alla fine: questa è la rivelazione. L’evento di Gesù, e ancora oggi il Vangelo nel mondo, può sembrare piccola cosa (basta guardarsi in giro), ma non è così. Di qui l’avvertimento: non bisogna lasciarsi sedurre dalla grandezza, né farsi abbattere dalla piccolezza. La forza del vangelo è diversa da quella del mondo: diversa perché nascosta, mentre la potenza mondana si ostenta; e diversa perché straordinaria, al di sopra di qualsiasi possibilità che il mondo possa vantare.

La porta che introduce al festino messianico.

Capitolo 13,22-30

*Passava per città e villaggi insegnando e dirigendosi verso Gerusalemme. *Ora uno gli chiese: Signore, sono pochi quelli che si salvano? Rispose loro: *Sforzatevi di entrare dalla porta stretta, perché molti, vi dico, cercheranno di entrare e non potranno. *Quando il padrone di casa si sarà alzato e avrà chiusa la porta, e voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta dicendo: Signore, aprici, egli vi risponderà: Non so di dove siate. *Allora comincerete a dire: Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze. *Ma egli vi ripeterà: Non so di dove siate; andate via da me, voi tutti che operate l’iniquità. *Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio e voi cacciati fuori. *E verranno da oriente e da occidente da settentrione e da mezzogiorno per prendere posto al banchetto nel regno di Dio. *E così vi saranno ultimi che saranno primi e primi che saranno ultimi.

Il brano, soprattutto se messo in relazione con Matteo 8,11-12 e 25,10-12, risente chiaramente della polemica sul rigetto dei Giudei e l’ammissione dei pagani nel popolo di Dio; in ogni caso, però, Luca ha inteso anche qui attualizzare l’insegnamento di Gesù per i discepoli del suo tempo. Coloro che, in qualità di discepoli hanno familiarità con il Signore e ne ascoltano gli insegnamenti, si pongono una domanda cruciale: Noi cristiani ci salveremo? Le parole di Gesù danno una risposta. L’essere cristiani non è un mezzo magico di salvezza; essa viene dall’incontro dello sforzo umano con il dono di Dio.

La domanda che introduce le istruzioni di Gesù è nello stile di Luca: “Signore, sono pochi quelli che si salvano?” La questione posta dall’anonimo interlocutore, era dibattuta anche nei circoli religiosi giudaici. Secondo la teologia rabbinica, il popolo d’Israele nella sua totalità avrebbe preso parte al regno futuro, mentre secondo alcuni gruppi apocalittici, soltanto pochi si sarebbero salvati. Come abbiamo notato leggendo il brano, Gesù non entra in questa casistica di quantità, né dà informazioni sulla modalità della salvezza, ma rivolge un appello urgente all’impegno. In altre parole egli non intende descrivere il regno di Dio futuro, cioè la situazione salvifica definitiva come un festino, al quale si accede per una porta stretta, che ad un certo punto viene chiusa. Il linguaggio simbolico, comune ai vari contesti religiosi, serve a stimolare la riflessione e incita a prendere una decisione. Non esistono raccomandati presso Dio, né privilegiati che possono far valere davanti a lui la propria appartenenza etnica, culturale o religiosa: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze”.

La denuncia della falsa sicurezza giudaica è attuale anche per i cristiani, perché anche oggi l’unica condizione per essere riconosciuti dal Signore del festino, per far parte della comunione salvifica è questa: praticare la giustizia. L’universalità della salvezza era stata fatta intravedere dagli antichi profeti. Tuttavia con Gesù essa diventa una realtà che si attua nella chiesa missionaria. Il dolore disperato di quanti, chiamati a far parte del regno, rimangono fuori per la propria ignavia e falsa coscienza, è efficacemente espresso dall’espressione: “Pianto e stridore di denti”. La sentenza finale è una di quelle che circolano nei vari contesti evangelici assumendo di volta in volta tonalità differenti. Nel nostro caso essa finisce il primo brano di contestazione della falsa sicurezza: lo stile dell’azione di Dio sconvolge le precedenze stabilite dai criteri umani. I Giudei, che si considerano gli arrivati, i primi, saranno gli ultimi; viceversa i pagani. Tuttavia anche per gli ultimi c’è una speranza, non più come privilegiati, ma come beneficiati gratuitamente.

Tutta quanta la riflessione rappresenta un’immagine viva per noi che conosciamo la ressa della folla davanti alle porte dello stadio o della metropolitana. Non si può certo affermare che è una scena di calma. Il problema della salvezza è problema d’urgenza. Ciò suppone una stroncatura di tutte le false sicurezze. Non esiste un club della salvezza, riservato ai soci. Non basta nemmeno la convinzione dell’importanza della cosa. E nemmeno è sufficiente, per entrare, una certa familiarità col vocabolario cristiano o una frequenza ai banchetti del Signore. L’unico criterio decisivo è quello delle opere. Esse ci faranno riconoscere da Cristo. Ci viene chiesta un’opzione fondamentale rinnovata ad ogni decisione. Non hanno i documenti in regola le “brave persone che non hanno rubato, ammazzato ecc…”, ma coloro che sentono imperiosa l’urgenza della vita. Il tempo stringe; non è questione di “ammazzarlo”, ma di riempirlo a fondo.

Gesù di fronte alla sua morte.

Capitolo 13,31-35

*In quel momento vennero alcuni farisei a dirgli: Parti di qui, allontanati, perché Erode vuole ucciderti. *Rispose loro: Andate a dire a quella volpe: Ecco, io scaccio i demoni e compio guarigioni oggi, domani, e il terzo giorno tutto è compiuto. Però bisogna che io cammini oggi, domani e il giorno seguente, perché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme. *Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi coloro che ti sono mandati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come una gallina la sua covata sotto le ali, ma non avete voluto. *Ecco, la vostra casa rimarrà abbandonata. Vi dichiaro infatti che non mi vedrete più fino a che venga il tempio in cui direte: Benedetto colui che viene nel nome del Signore.

Nel vangelo Gerusalemme è l’unico e continuo centro di riferimento in tutta la vita di Gesù. Gerusalemme viene ad essere così la città messianica per eccellenza: in lei il Figlio dell’uomo terminerà il suo cammino e la sua missione evangelizzatrice. In lei Gesù come sacerdote consumerà il sacrificio offrendo se stesso come vittima; in lei infine Gesù eleverà con la croce il suo trono di re pacifico e universale. Luca con la nota redazionale “in quel momento…”, ci avverte del nesso logico che c’è tra questo e il brano precedente. Apparentemente i farisei vogliono proteggere Gesù dalle trame di Erode Antipa, il quale, avendo eliminato il Battista per non avere fastidi con i romani, forse vuole sbarazzarsi anche di Gesù. In realtà l’ipocrisia dei farisei, dalla quale devono guardarsi i discepoli, fa sospettare delle loro buone intenzioni. Essi, veramente, fanno il gioco di Erode. Infatti, la risposta di Gesù si rivolge ai farisei come emissari di Erode. Con un epiteto duro Gesù smaschera l’astuzia politica di Erode: egli non è pericoloso e forte come un leone; è una volpe che per le sue vili macchinazioni può servirsi solo dell’astuzia. Alla motivazione addotta dai farisei nel loro subdolo consiglio, Gesù oppone un’altra motivazione in due sentenze

Egli deve proseguire la sua missione ancora per un breve tratto, poi ci sarà la svolta critica: il compimento. Per questo la missione di Gesù si attua in un cammino che lo conduce, al tempo stabilito, a Gerusalemme, l’ultima tappa del suo viaggio, ma anche la meta della sua missione storica. In altri termini non il consiglio ipocrita dei farisei, né le minacce velate di Erode possono arrestare o guidare Gesù. Con una sentenza enigmatica, velata da tragica ironia, Gesù fa comprendere che la sua fine violenta s’inserisce nel piano di Dio, poiché è l’ultimo anello di una catena d’assassini che contrassegnano le infedeltà d’Israele. Allora la parola di Gesù prende il tono e lo stile dei profeti che annunciano la rovina, il lamento conclusivo di Gesù su Gerusalemme definisce la città come assassina di profeti e avversari del Messia. Per questo Dio cesserà di abitare nel suo tempio, e Gesù, il Messia, non vi sarà visto fino al suo ritorno come giudice alla venuta del regno di Dio. Gesù parla come profeta di Dio condannando l’apostasia d’Israele, e come il Messia che deve venire nella gloria. Tuttavia, nello stesso tempo apre uno spiraglio di speranza, la fedeltà dell’ultimo profeta, che affronta con libertà e coraggio il suo destino, inaugura un futuro nuovo per tutti. Speranza che è una garanzia per quanti, prima e dopo di lui, sono vittime di repressione. Noi tutti siamo in marcia su Gerusalemme, se il viaggio della nostra vita è partecipazione a quello di Gesù, deve puntare sulla città che “uccide i profeti”. E’ un’uccisione progressiva, magari elegante, per soffocamento sotto mille diversivi, cercando di distogliere l’attenzione dalla meta.

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