Vangelo di Luca – Cap. 10,1-20 al 10,38-42

Patini Teofilo - il buon samaritano

La missione dei settantadue discepoli.

Capitolo 10,1-20

In seguito il Signore ne scelse altri settantadue e li mandò a due a due dinanzi a sé, in ogni città e luogo dove stava per recarsi. *E disse loro: La messe è molta, ma gli operai sono pochi. Pregate dunque il padrone della messe che mandi lavoratori per la sua raccolta. *Andate: ecco io vi mando come agnelli in mezzo ai lupi. *Non portate né borsa, né bisaccia, né calzari; e non fermatevi a salutare nessuno per la via. *In qualunque casa entriate, per prima cosa dite: Pace a questa casa. *E se vi è qualcuno che cerca la pace, scenderà su di lui la vostra pace; se non ritornerà a voi. *E in quella casa rimanete mangiando e bevendo ciò che vi sarà dato, perché l’operaio ha diritto alla sua paga. Non passate di casa in casa. *E in qualunque città entriate, se vi ricevono, mangiate di quello che vi sarà servito; *guarite in essa gli infermi e dite loro: Il regno di Dio è arrivato fino a voi. *Ma se entrate in una città e non vi accolgono, uscite sulle piazze e dite: *Anche la polvere della vostra città che si è attaccata ai nostri piedi noi la scuotiamo per restituirvela; tuttavia sappiate che il regno di Dio è arrivato. *Vi assicuro che nel giorno del giudizio Sodomia sarà trattata meno duramente di quella città. *Guai a te, Corazin! Guai a te, Betsaida! perché se i miracoli avvenuti tra di voi fossero stati compiuti a Tiro e a Sidone, già da tempo si sarebbero convertiti, vestiti di sacco e seduti nella cenere. *Perciò Tiro e Sidone saranno trattate meno duramente di voi nel giudizio. *E tu, Cafarnao, sarai innalzata fino al cielo? Fino nell’abisso sarai sprofondata. *Chi ascolta voi ascolta me; chi respinge voi respinge me; e chi respinge me respinge colui che mi ha mandato. * I settantadue discepoli ritornarono pieni di gioia dicendo: Signore, anche i demoni si sono sottomessi a noi nel tuo nome. *Ma egli disse loro: Vedevo satana cadere dal cielo come un fulmine. *Ecco, io vi ho dato potere di calpestare serpenti e scorpioni e di schiacciare ogni potenza del nemico; e niente vi potrà nuocere. *Ma non vi rallegrate perché gli spiriti vi stanno sottomessi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli.

Soltanto Luca riferisce di questa missione. La designazione e l’invio nel quadro teologico dell’evangelista non costituiscono un supplemento di collaboratori ai “Dodici”, ma legittimano una missione parallela con autorità e compiti analoghi.

Caratteristica di Luca è il fatto che non sono stati inviati in missione solo gli apostoli (9,1-2), ma anche altri discepoli, come agnelli in mezzo ai lupi! La prospettiva che si apre davanti ai missionari non è molto allegra e confortante. Certamente se ne definisce in maniera inequivocabile lo stile e lo spirito. Essi non possono contare sulla forza, sul potere e la violenza. Sono disarmati, esposti alla mercé del più forte. E’ la prima povertà che diventa fondamento e segno della loro libertà e della piena dedizione all’unico compito che li strappa da tutte le remore e ritardi. Motivo di questo invio è la penuria di operai (v.2). Le consegne sono esplicite: mitezza (v.3), povertà (v.4), essere portatori di pace (vv.5-6), sapersi accontentare (v.7), interessarsi dei bisognosi e annunciare il regno (vv. 8-9), se rigettati ripetere l’annuncio (v.11). A coloro che accolgono il missionario si rammenta che l’operaio ha diritto al suo salario (v.7) e a coloro che non l’accolgono si ricorda il castigo (v. 12).

Luca insiste su due esigenze del discepolo: l’assenza di preoccupazioni per il suo avvenire terrestre, in una vita di povertà carica di significato profetico per la vicinanza del regno; il comportamento del discepolo con coloro che lo ospitano. Egli deve portare il saluto della pace che non si tratta solo di un semplice augurio, ma una parola efficace che dona gioia, felicità. In breve è la “pace” messianica che coincide con la salvezza. Ai discepoli, impressionati dall’efficacia dei loro poteri carismatici, Gesù rivela la dimensione profonda del progetto nel quale essi sono inseriti. Si tratta della fine del regno delle tenebre (satana), che retrocede là dove si rivela la potenza vittoriosa d Dio. Inoltre essi partecipano al potere di Gesù, a quel potere che è dato al Messia per schiacciare l’antico avversario, che tiene schiavo l’uomo con ogni forma di prepotenza. Allora i poteri carismatici donati ai discepoli non possono diventare un privilegio, un titolo di prestigio personale, ma un’occasione di riconoscenza e gratitudine per la liberalità divina, che li associa alla sua pienezza di vita e di libertà. Essi godono per puro dono di Dio della cittadinanza della nuova patria. Con il linguaggio biblico si dice: “I vostri nomi sono scritti nei cieli” (Es.32,32).

Tale comportamento deve esprimere il carattere del pellegrino sempre in viaggio verso il regno, soddisfatto dell’ospitalità ricevuta. Inoltre se meditiamo attentamente la parola di Gesù: La messe è molta, ma gli operai sono pochi”, notiamo che è rivolta a tutti i cristiani d’ogni tempo. E’ come se Gesù ci scongiurasse a rispondere volentieri, con generosità e con slancio di cuore, alla sua voce, che in quest’ora drammatica per le nostre società c’invita con maggiore insistenza ad accogliere ed operare con il vangelo dell’amore. Luca ha inserito anche alcune sentenze rivolte alle città che circondano il lago di Galilea, dove egli ha svolto la sua prima attività: Cafarnao, Corazin, Betsaida. Le parole di Gesù, in tono di lamento, vogliono essere l’ultimo accorato appello al cambiamento o conversione. A questo tendono, infatti, i gesti di Gesù e i miracoli compiuti in tali località. Ora si offre loro l’ultima possibilità salvifica, però con un’autorità e urgenza che superano di molto quella degli antichi profeti, come Isaia ed Ezechiele, che chiamarono a conversione le città pagane di Tiro e Sidone.

La beatitudine dei discepoli.

Capitolo 10,21-24

*In quello stesso momento Gesù trasalì di gioia nello Spirito Santo e disse: Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai dotti e agli scaltri e le hai rivelate ai piccoli. Sì, Padre, è così che tu hai disposto nella tua benevolenza. *Ogni cosa mi è stata data dal Padre mio; e nessuno conosce chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare. *Rivolto ai discepoli in disparte, soggiunse: Beati gli occhi che vedono ciò che vedete voi. *Io vi dico che molti profeti e re desiderarono di vedere ciò che voi vedete e non lo videro, e di udire ciò che voi udite e non lo udirono.

I discepoli erano ritornati dalla missione e nello stesso momento Gesù prega:”…trasalì di gioia nello Spirito Santo”. La preghiera del maestro, come tutta la sua attività, avviene sotto l’impulso dello Spirito Santo: “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra…” è una piccola, commossa esplosione di riconoscenza al Padre per la realizzazione del suo progetto salvifico. Un progetto che ha la sua radice nella libera e sovrana iniziativa divina. Proprio per questo i destinatari della rivelazione salvifica sono i “piccoli”, cioè coloro che sono completamente disponibili e aperti al nuovo e all’imprevedibile perché sono i poveri, sono gli esclusi. Essi vengono contrapposti ai dotti e agli scaltri o intelligenti, ai quali rimane nascosto e incomprensibile il progetto di Dio.

E ciò non significa che i piccoli diventino dotti, Dio non crea una nuova classe, ma li associa alla libertà e fiducia del Figlio, al quale è dato ogni potere e autorità. Infatti la novità della rivelazione evangelica, che mette sottosopra le gerarchie socio-culturali, è che l’incontro salvifico con Dio non passa più attraverso una dottrina o una morale, di cui gli esperti sono i depositari e i controllori. Il volto di Dio si rivela nel volto di Gesù, e l’incontro con Dio avviene nell’incontro con Gesù di Nazareth, solidale con i piccoli. I discepoli raccolti attorno a Gesù appartengono, sia culturalmente sia per estrazione sociale, alla categoria dei “piccoli”. Essi allora entrano in una nuova relazione con Dio, partecipano alla condizione di Gesù, alla sua “conoscenza” del Padre. Sono davvero beati.

L’amore del prossimo: il buon samaritano.

Capitolo 10,25-37

*Ecco, un esperto della legge si alzò e gli chiese per metterlo alla prova: Maestro, che devo fare per ottenere la vita eterna? *Gli rispose: Nella legge che cosa sta scritto? Che cosa vi leggi? *E quello: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore e con tutta l’anima e con tutta la forza e con tutta l’intelligenza e il prossimo tuo come te stesso. *Gli disse: hai risposto bene. Fa’ questo e vivrai. *Ma quello, volendo giustificare la sua domanda, disse a Gesù: Ma chi è il mio prossimo? *Allora Gesù riprese: Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e s’imbatté nei briganti, i quali, avendolo spogliato e percosso, se ne andarono lasciandolo mezzo morto. *Per caso un sacerdote scendeva per quella strada; quando vide l’uomo, passò oltre, dall’altra parte. *Anche un levita che passava per quel luogo vide e passò oltre. *Un samaritano, che era in viaggio, gli passò vicino e, vedendolo, ne ebbe compassione: *s’accostò, fasciò le ferite versandovi sopra olio e vino, poi, caricatolo sulla propria cavalcatura, lo condusse a una locanda e si prese cura di lui. *Il giorno dopo tirò fuori due denari e li dette al locandiere dicendo: Abbi cura di lui, e quanto spenderai in più al mio ritorno te lo rimborserò. *Chi di questi ti sembra sia stato il prossimo per l’uomo che s’era imbattuto nei briganti? *Quello rispose: Colui che ha dato prova di pietà verso di lui. Gli disse Gesù: Va’ e anche tu fa’ allo stesso modo.

Sulla strada di Gerusalemme Gesù propone ai discepoli l’insegnamento circa il modo pratico di attuare la volontà di Dio. Dio chiede all’uomo un amore totale, che in pratica è l’aiuto generoso al compagno di viaggio che si trova in necessità. Per commentare la parabola dobbiamo tenere presente una verità inconfutabile e cioè che perfino il nostro mondo di credenti può diventare così contorto e aggrovigliato da farsi incomprensibile a noi stessi. A volte viviamo di frammenti cristiani, di approssimazione confuse, di nostre invenzioni religiose. Mai come in questi tempi nei quali c’è l’esplosione di sette esoteriche e sataniche abbisogniamo di chiarezza. Eppure i comandi e i decreti di Dio sono chiari, comprensibili. Non sono troppo lontani e alti. Solo la nostra meschinità intellettuale e morale riesce a oscurare la chiarezza e la bellezza della sua legge dell’amore. Il fatto è che per capirla, al di là delle varie spiegazioni e insegnamenti, e accoglierla bisogna con molta umiltà interiore sempre convertirci “con tutto il cuore e con tutta l’anima”.

Noi siamo come il dottore della legge che è pieno di domande su Dio e sul prossimo. Gesù al quesito che gli viene posto “Maestro, che devo fare per ottenere la vita eterna?”, risponde che il centro della legge ha due facce indisgiungibili: l’amore di Dio e l’amore al prossimo. Allo stesso tempo, però, fa notare che l’amore di Dio viene prima ed è totale (il prossimo è da amare e da servire. Non da adorare, come invece Dio); e che, infine, tutto ciò non costituisce il alcun modo una novità, essendo già presente nelle Scritture che lo stesso dottore della legge conosce. Pare di capire che il dottore della legge non sia soddisfatto della risposta di Gesù. Il problema è più complesso: chi è il prossimo? Lui come noi del resto chiediamo: chi è il prossimo da amare? Il vicino? Il correligionario? Il sofferente? Il giusto? La persona che frequenta la Chiesa e la comunità? Il simpatico? I parenti? ecc. Il dottore della legge vuol sentire in proposito l’opinione di Gesù, che gli risponde proprio con il prosieguo della parabola. Gesù non formula una casistica, non allunga la serie delle opinione teologiche nel merito della questione. Racconta un esempio. Propone, infatti, un comportamento da imitare, e non va trasportato da un piano all’altro, da quello figurato a quello religioso, poiché è già esso stesso sul piano spirituale. Ma occorre ancora fare un’osservazione generale prima di addentrarci nella rinarrazione della parabola. Il dialogo fra il dottore della legge e Gesù è costruito su uno schema molto significativo: domanda del dottore della legge e seconda controdomanda di Gesù. Questo schema rende evidente una costante dei dibattiti di Gesù e, più profondamente una caratteristica della stessa rivelazione: le risposte di Gesù esigono che l’ascoltare cambi innanzitutto la direzione della sua domanda. Gli interrogativi dell’uomo sono troppo limitati per le risposte di Dio. Anche l’analisi di questa parabola mostra che Gesù non risponde direttamente alle domande del dottore della legge. Quando mai Gesù risponde “soltanto” alle domande che gli vengono poste? Le sue risposte sono “oltre” e “più ampie”.

Il sacerdote e il levita. Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico: tra le due città ci sono mille metri di dislivello e circa trenta chilometri di strada attraverso l’arido e spopolato deserto di Giuda: un luogo ideale per le imboscate. Il viandante viene assalito, depredato e abbandonato mezzo morto. Un sacerdote e un levita (tornavano dal loro servizio al tempio, con ogni probabilità) giungono sul posto e, scorto il ferito, lo evitano passando oltre, dal lato opposto. Insensibilità? O piuttosto desiderio di mantenere la propria purezza cultuale? Non dobbiamo scordare che era prescritto (sempre le innumerevoli norme dei farisei) ai sacerdoti che prestavano servizio al tempio di mantenersi puri,e il sangue contaminava.

Ma perché Gesù sceglie, quali figure negative, proprio un sacerdote e un levita? Impossibile non ravvisare in questa scelta un’intenzione polemica: l’osservanza cultuale non deve distrarre dall’essenziale, cioè dall’amore per il prossimo, e la purezza che Dio vuole è la purezza dal peccato, dall’ingiustizia, non dal sangue di un ferito. Il dottore della legge che stava ad ascoltare la narrazione, ha probabilmente pensato: i due hanno fatto quanto dovevano fare, è giusto anche se doloroso! Gesù, invece, è di parere opposto: e questo mostra che la sua polemica non è indirizzata contro una classe religiosa, ma contro una prospettiva religiosa universalmente condivisa.

Il samaritano. Passa un samaritano, si ferma, si prende cura del ferito. Il samaritano è presentato come un modello, e lo stupore del dottore della legge, a questo punto, certamente dovette essere grande (lo stupore dell’ascoltatore è sempre, o quasi, un segnale che la narrazione sta toccando un punto su cui occorre soffermarsi). I samaritani venivano considerati impuri, gente da evitare alla stregua dei pagani. Nonostante questo (anzi proprio per questo), Gesù sceglie come personaggio-modello della parabola un samaritano, non un fariseo osservante. Si tratta di una seconda intenzione polemica: la bontà non ha confini, afferma Gesù, e gli esempi da imitare si trovano anche là dove non ce lo si aspetta, perché Gesù è libero da ogni pregiudizio. Il bene non è tutto da una parte e il male dall’altra. Gesù riprende questo concetto successivamente nel capi.17,11-19. Egli risana dieci lebbrosi, ma uno solo torna indietro a ringraziarlo: “Era un samaritano”. E Gesù osserva: “Non si è trovato chi tornasse a render gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?” Il samaritano è chiamato straniero “di altra razza”, dice il testo alla lettera, ma la differenza era anche di tipo religioso. Ebbene, proprio questo straniero, di altra razza e di altra fede, è l’unico dei dieci che si ricorda di dar gloria a Dio: un privilegio, questo, che i giudei pensavano spettasse soltanto al loro popolo.

Ma ritorniamo al nostro racconto. Indirettamente la parabola lascia intendere che il prossimo da aiutare è qualsiasi bisognoso che si incontri. Potrebbe essere questa la risposta diretta alla precisa domanda al dottore della legge: “Chi è il mio prossimo?”

Tuttavia l’attenzione di Gesù è però rivolta altrove. Dell’uomo bisognoso dice soltanto che giaceva sulla strada derubato, ferito e mezzo morto. Che altro è necessario sapere? La narrazione indugia piuttosto sulla figura del samaritano.- E si sofferma nel descrivere non chi egli sia, bensì che cosa abbia fatto. Quando una narrazione, prima scattante, a un certo punto rallenta dilatandosi, è perché s è giunti alla scena più importante, che va considerata senza fretta. Infatti, l’attenzione cade sul comportamento del samaritano: vede il ferito, sente compassione, si avvicina, fascia le ferite, lo carica sulla sua cavalcatura, lo porta a una locanda, si prende cura di lui, paga l’albergatore. Praticamente è come se a Gesù poco importasse la domanda del dottore della legge (chi è il mio prossimo?), e rispondesse invece a un’altra:come devo comportarmi nei confronti del prossimo? Che significa amare il prossimo? L’attenzione di Gesù è concentrata sul grande comandamento – amare Dio e il prossimo -, non sulla curiosità teologica del dottore della legge. Il samaritano non si è chiesto chi era il ferito, e il suo aiuto è stato disinteressato, generoso, concreto. Ecco che cosa significa amare il prossimo. Non a parole, ma gesti concreti. Amare il prossimo vuol dire prendersi interamente a carico la sua condizione. Che a Gesù stia a cuore il “che cosa fare” è indicato anche dalle due risposte date al dottore della legge: “Hai risposto bene, fa questo e vivrai”; “va e anche tu fa lo stesso”. Il dottore della legge tentava di spostare la domanda dal fare alla teoria, Gesù lo riporta al fare.

Chi dei tre si è fatto prossimo? Si direbbe che, a questo punto, il discorso s8ia chiuso. E’ stata posta una domanda (chi è il prossimo?) ed è stata data la risposta (il bisognoso che si incontra). Invece, giunto alla conclusione, Gesù pone inaspettatamente un’altra domanda , che racchiude un ultimo insegnamento, forse il più importante. E’ una domanda formulata in modo diverso da come l’ascoltatore si aspetterebbe. Non: “chi dei tre ha saputo vedere nel ferito il prossimo da amare?, bensì: “chi di questi tre ti sembra si sia fatto prossimo a colui che è incappato nei briganti?”. In questo modo la domanda del dottore della legge viene ulteriormente spostata: prima dalla teoria alla pratica, ora dall’esterno (chi è l’altro?) all’interno (chi sono io?). Per Gesù chiedersi chi sia il prossimo è in definitiva un falso problema: il prossimo c’è, vicino, visibile, però occorrono occhi capaci di scorgerlo. Il vero problema è che noi dobbiamo farci prossimo di chiunque, abbattere le barriere e le differenze che abbiamo dentro di noi e che costruiamo fuori di noi. Dobbiamo comportarci come il samaritano che si è sentito prossimo, coinvolto, fratello nei confronti di uno sconosciuto. Il dottore della legge, che aveva una curiosità teologica da soddisfare, si è visto invitato a convertire se stesso. Questo significa anche ritornare alla chiarezza della legge di Dio. Non chiediamoci quanto gli altri possono darci, ma quanto noi stessi possiamo dare agli altri. Se la società in cui viviamo ci sembra ostile forse dovremmo seriamente chiederci quanto noi siamo duri con chi ha bisogno di noi.

Ospitalità in casa di Marta e Maria.

Capitolo 10,38-42

“Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio e una donna di nome Marta, lo accolse nella sua casa. Essa aveva una sorella di nome Maria la quale, sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua Parola; Marta invece era tutta presa dai molti servizi. Pertanto, fattasi avanti, disse: “Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti”. Ma Gesù le rispose: “Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c’è bisogno. Maria si è scelta la parte buona, che non le sarà tolta”.

Anche in quest’episodio della vita di Gesù ricordato da Luca, il panorama è sempre quello del viaggio, del cammino che condurrà Cristo a Gerusalemme. Durante quest’ideale itinerario si alternano le scene d’accoglienza e di rifiuto, d’affettuosa ospitalità e d’ambigui inviti.

Nella casa di Marta e Maria Gesù trova quell’accoglienza e ospitalità che gli è stata rifiutata all’inizio del viaggio in Samaria (9,53). Marta e Maria sono le sorelle di Lazzaro di Betania, sono conosciute e ne parla anche Giovanni. Come dicevo Luca utilizza i dati in suo possesso per ricostruire una scena ideale, in cui sono illustrati due atteggiamenti sull’accoglienza di Gesù, il servizio generoso di Marta per l’ospite gradito e di riguardo e l’ascolto attento di Maria alle parole del Signore. Marta svolge il ruolo tradizionale, ed è perfetta (Prov. Cap.30), della padrona di casa e della massaia, Maria, al contrario, inaugura un ruolo nuovo ed essenziale per una donna: stare ai piedi del Maestro come un discepolo (At.22,3).

Luca è molto attento non soltanto al servizio e all’assistenza che le donne svolgono nella comunità, ma anche al loro compito per l’edificazione e coesione della Chiesa (At.9,36; 16,14; 18,26). Ma è particolarmente interessato a quello dell’ascolto della Parola. E certamente non si tratta di un ascolto ozioso, inerte, o per un mero fatto culturale e contemplativo; è beato, infatti, chi ascolta la Parola per metterla in pratica. Fratelli e sorelle, meditiamo insieme il quadro panoramico dell’episodio. Marta accoglie in casa Gesù, sua sorella Maria si siede ai suoi piedi e ascolta la sua Parola. Marta, fattasi avanti, dice a Gesù: “Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti”. Gesù le risponde: “Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c’è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta”. Come possiamo rilevare, nel racconto si pone l’accento sulla centralità dell’ascolto; in esso l’ascolto significa ascolto di Dio e ascolto del suo Spirito. Notiamo che in Luca quest’episodio della vita di Gesù segue immediatamente quella del cosiddetto “buon samaritano”, la parabola narrata da Gesù a chi gli chiede: “Chi è il mio prossimo?” (vedere meditazione, sezione parabole). E, al termine, lo invita ad agire, a muoversi, ad operare: “Va, e fa anche tu lo stesso” (Lu.10,29-37).

Il tutto perché non sembri che il “fare” sia un “fare” qualunque bensì un “fare” che nasce dall’intimo, Luca riporta subito dopo l’episodio dell’ascolto di Maria di Betania. Posso affermare che si tratta, in pratica, di un unico insegnamento. Luca li ha volutamente collegati per permetterci di cogliere l’unità del fare e dell’ascolto. Ma ritorniamo alla nostra meditazione. Maria si siede ai piedi di Gesù, si pone pubblicamente alla sua scuola, alla sua sequela, ed è facile immaginare lo scandalo, la carica esplosiva del gesto di sedersi della donna. Per comprendere il gesto rivoluzionario non scordiamo la condizione di allora delle donne, dal retaggio preistorico che esse portavano sulle loro spalle. Pensate al mormorio della gente che l’attorniava: “Come, questa donna, invece di stare in cucina, va a scuola di teologia? Ma che cosa vuole? Che cosa crede di essere? Che cosa vuole diventare? Quali sono le sue ambizioni? Risulta chiaro che il nervosismo dell’ambiente sbocca poi nelle parole di Marta.

Penso che nessuno fino allora aveva parlato a Maria della bellezza della sua vita, della fortuna della sua condizione. Ascoltando le parole di Gesù si sentiva privilegiata e percepiva che erano importanti per lei, non soltanto in se stesse, e riflettendo interiormente, pensava: “Queste parole sono vive nel mio cuore, dicono cose veramente grandi e importanti per me, cose a cui non avevo mai pensato, e mi fanno comprendere qualcosa di me stessa che è magnifico, stupefacente, splendido, semplice”. Fratelli e sorelle, la ricchezza, il valore nutritivo dell’ascolto di Gesù, che Maria di Betania sta vivendo in quegli istanti, è un ascolto che fa fremere, che coinvolge perché ci riguarda, ci spiega. Non si tratta di un ascolto passivo, un sentire annoiato di una cattedratica lezione. Maria di Betania sta realizzando in quel preciso istante la definizione dell’essere umano.

Che cosa significa essere uomini o donne? E’ scoprire il mistero di noi stessi nell’ascolto della Parola di uno, più grande di noi, che avendo fatto il nostro cuore, ce ne rivela i segreti. Maria. È immagine dell’uomo che si autocomprende, che giunge all’autenticità, alla chiarezza del possesso cognitivo di sé ponendosi con umiltà all’ascolto della Parola divina che ci rivela e, nello stesso tempo, ci riempie. A mio parere il mistero dell’ascolto di Maria di Betania è dunque una rivelazione (che siamo chiamati ad accogliere) della condizione umana. Cioè dall’essere aperti al discorso di Dio, gratuito e benevolo, noi impariamo che siamo in ascolto, dono, e ci realizziamo nella gratuità. A questo punto qualcuno potrebbe obiettare che Marta non amasse Gesù. Al contrario, lei amava il Maestro, solo che esplicava il suo affetto arrabbatandosi in cucina. In realtà lei dava più importanza all’esteriorità che non all’ascolto di cui aveva perso il senso. Conseguentemente il senso del suo affannarsi: è preoccupata, ansiosa, tesa, incerta, impaziente, pungente ecc… Marta è l’immagine di chi vive momenti di timore, di paura senza sapere più donare un sorriso e senza sapere quale sia esattamente la sua identità (o meglio, solo quella che le hanno appiccicata addosso).

Fratelli e sorelle, l’ascolto di Dio è la roccia della nostra salvezza: “Tu, o Dio, roccia della mia salvezza” (Salmo 89,27). La lieta notizia che deriva dalla meditazione consiste nel fatto che Dio ha una Parola per me, per noi, e possiamo ascoltarla, nel silenzio e nella pace, da tale ascolto siamo nutriti, cresciamo nella fede e ci realizziamo come essere umano, e cresciamo insieme a tanti altri come Chiesa in cammino: “Questa parte migliore non ti sarà mai tolta”.

Conclusione. Il discepolo (credente) che è “in cammino” con il Signore non si deve preoccupare o agitare “per molte cose”. Il tempo urge troppo perché egli si “preoccupi” di cose materiali. La presenza del regno (spesso espresso solo come parola) non può lasciarsi distrarre (portar via) da un troppo esclusivo pensiero delle realtà terrestri. L’attenzione al Maestro, l’ascolto della sua Parola è per il discepolo la “parte migliore”, che non gli sarà tolta. Ma per Luca, ascoltare la Parola non ha nulla a che fare con la contemplazione oziosa, bensì sfocia nell’azione concreta ed esigente (Lc.8,15). Se questo vale per ogni cristiano, tanto più diventa essenziale per i religiosi che “lasciando ogni cosa per amore di cristo, lo seguono come l’unica cosa necessaria (Lc.10,42, ascoltandone le parole (Lc.10,39), pieni di sollecitudine per le cose sue”.

Indice Vangelo di Luca