Vangelo do Luca – Cap 6, 1-5 al 6, 39-49

Carl Heinrich Bloch - il discorso della montagna

Le spighe strappate in giorno di sabato

Capitolo 6,1-5

*Un giorno di sabato, mentre passava attraverso i campi, i suoi discepoli coglievano delle spighe e, sgranandole con le mani, le mangiavano. *Alcuni farisei dissero: Perché fate ciò che non è permesso di sabato? *Rispose loro Gesù: Non avete allora letto ciò che fece Davide, quand’ebbe fame, lui e quanti erano con lui? *Che entrò nel santuario, prese e mangiò i pani consacrati, e ne dette anche ai suoi compagni, sebbene non fosse lecito mangiarli se non ai soli sacerdoti? *E diceva loro: il Figlio dell’uomo è signore anche del sabato.

Il ruolo di Gesù come interprete autorevole della legge viene esemplificato nell’episodio del capitolo 6,1-5 che riguarda il lavoro nel giorno di sabato. Attraversando un campo i discepoli di Gesù raccolgono alcune spighe per mangiarne i semi. L’azione può essere considerata come l’equivalente di una mietitura in giorno di sabato e quindi un lavoro proibito (Es.20,8-11; Dt.5,12-15). I farisei, come sappiamo, che sono i capi dell’opposizione a Gesù e ai suoi discepoli, protestano contro questo gesto illegale, e sollevano una domanda nei confronti di Gesù sull’osservanza del sabato che assume la forma di un dibattito. Il luogo del dibattito è la “loro sinagoga”, espressione che ci suggerisce una netta divisione tra Farisei e i seguaci di Gesù.

Ai Farisei che gli chiedono per quale motivo i suoi discepoli compiono un lavoro di sabato, Gesù risponde che il gesto dei discepoli è paragonato a quello di Davide e dei suoi compagni ( 1 Sam. 21,1-6). In entrambi i casi venne infranto un comandamento a causa della necessità di soddisfare la fame fisica. Quindi i discepoli del Figlio di Davide hanno un buon precedente in Davide stesso. Non dobbiamo scordare che la legge giudaica del sabato escludeva ben 39 tipi di lavoro, tra i quali anche quello di mietere, fare covoni, battere il grano, ventilare ecc. Così per i farisei vedere i discepoli di Gesù che colgono spighe passando tra i campi di grano compiono ciò che non è lecito in giorno di sabato.

Dissero i farisei: “Perché fate ciò che non è permesso di sabato?”. Rispose loro Gesù: “Non avete allora letto ciò che fece Davide, quand’ebbe fame, lui e quanti erano con lui? Che entrò nel santuario, prese e mangiò i pani consacrati, e ne dette anche ai suoi compagni, sebbene non fosse lecito mangiarli se non ai soli sacerdoti?”

E così disse loro: “Il Figlio dell’uomo è Signore anche del sabato”. Gesù e i suoi discepoli rappresentano una comunità itinerante, un gruppo di persone che attraversano in lungo e in largo la Palestina, in modo particolare la Galilea. In questa intensa attività itinerante non sempre capita di essere ospitati da amici e persone disposte a dare da mangiare a Gesù e ai discepoli che sono con lui. Ecco perché, in alcune occasioni, soffrendo la fame e per sfamarsi, essi ricorrono alla frutta degli alberi che incontrano lungo il cammino, oppure si mettono a spigolare nei campi di grano.

Tra l’altro, trattasi di consuetudine permessa dalla Scrittura, fuorché di sabato, che è giorno in cui non bisogna lavorare. Quindi il gesto dei discepoli di Gesù, di prendere le spighe e mangiarne i grani, è equiparato al “mietere e trebbiare”. Perciò la violazione del sabato è proibita con la minaccia della lapidazione, bisogna avvertire l’interessato di modo che si fosse certi che agisse “deliberatamente”. Tuttavia Gesù afferma la sua autorità anche circa il sabato, Prendendo le difese dei discepoli aveva detto: “Il sabato è stato fatto per l’uomo, e non l’uomo per il sabato”. Questo per far capire che la sua funzione è anzitutto il bene spirituale dell’uomo, raggiunto mediante un rapporto più intenso con Dio negli atti di culto, non solo individuali ma comunitari; e anche il suo bene materiale procurandogli un giusto riposo e permettendogli di dedicarsi ad opere di carità in favore del prossimo. Gesù, dichiarandosi “Signore del sabato”, lo libera dalla gretta interpretazione dei farisei e nello stesso tempo ammonisce i discepoli ad usarlo con giusta libertà, ma sempre conforme al suo insegnamento ed esempio.

La sentenza generale antilegalista e liberale corrisponde alla prospettiva di Luca che interpreta per la comunità l’atteggiamento di Gesù nei confronti delle istituzioni giudaiche mediante formule e principi generali che pongono l’uomo a concepire le cose in un certo modo, e a volte anche di insegnarle, possano fare apparire la religione come un complesso di verità da credere e di precetti da osservare: un concetto non molto dissimile da quello che avevano gli scribi e i farisei nei riguardi della propria religione. Ma Gesù, che pure ha affermato di essere venuto “non ad abolire la legge ma a dare compimento”, a riguardo delle prescrizioni tradizionali manifesta per sé ed esige dai suoi uno spirito “libero” che trova nelle prescrizioni non un inciampo, ma un aiuto per il libero esercizio dei propri diritti. Il cristiano conosce l’importanza ed il valore dell’assemblea liturgica nel “Giorno del Signore”, e anziché esimersene con leggerezza per affermare la propria libertà, afferma invece con forza il proprio diritto, come credente, a ritrovarsi con i propri fratelli e sorelle di fede per attuare con gioia il sacrificio di lode al Padre.

Guarigione dell’uomo dalla mano paralizzata in giorno di sabato.

Capitolo 6,6-11

*Un altro sabato egli entrò nella sinagoga e si mise a insegnare. C’era là un uomo che aveva la mano destra inaridita. *Gli scribi e i farisei l’osservavano per vedere se guarisse di sabato e così trovare un capo di accusa contro di lui. *Ma Gesù, conoscendo le loro intenzioni malvagie, disse all’uomo che aveva la mano inaridita: Alzati e mettiti nel mezzo. Quello si alzò e si mise ritto. *Poi Gesù rivolto a loro disse: Domando a voi: è lecito in giorno di sabato far del bene o far del male, salvare una vita o lasciarla rovinare? *E riguardandoli bene tutti all’intorno, disse all’uomo: Stendi la tua mano. Quello la stese e la mano ritornò in perfetto stato. *Allora essi andarono su tutte le furie e si misero a discutere tra di loro su ciò che avrebbero potuto fare a Gesù.

Questo è l’ultimo dei dibattiti tra Gesù da una parte e gli scribi e i farisei dall’altra. La scena si svolge nella cornice dell’assemblea sinagogale un sabato. Tra il pubblico si trova un uomo dalla mano “destra”, precisa Luca, atrofizzata. L’uomo non ha fatto nessuna richiesta esplicita a Gesù, ma il Maestro coglie la provocazione degli avversari che sono là per spiare i suoi movimenti.

Nella mano paralitica si può intravedere il simbolo di tutta la miseria umana che Gesù è venuto a prendere sopra di sé e a sollevare. La casistica farisaica era bene rappresentata in quella mano laboriosa che si era inaridita. Gesù affronta coraggiosamente questa paralisi con il vigore della sua carità. Egli vuole salvare l’uomo, tutto l’uomo, e restituirlo alla sua primitiva mobilità e operosità. E allora Gesù prende l’iniziativa e traduce l’insegnamento in maniera drammatica. Fa venire avanti, alla vista di tutti, l’uomo colpito dall’infermità e con una domanda, che non permette scappatoie, inchioda i suoi osservatori maligni. Gli esperti della legge, scribi, e gli osservanti delle più minute prescrizioni, farisei, conoscono bene tutta la casistica a proposito del sabato. Anche in questi versetti il punto di discussione è ancora l’interpretazione e applicazione della legge del riposo sabbatico.

La casistica degli esperti giudaici prevedeva la possibilità d’interventi curativi in giorno di sabato solo nel caso di grave necessità o pericolo di vita. Ecco perché il paralitico alla mano rappresenta un test per verificare l’ortodossia di Gesù nei confronti della legge del sabato. La presenza del malato e di quelli che osservano Gesù è una tacita ma chiara domanda. Gesù, conoscendo i loro pensieri e il loro modo di agire, risponde con una controdomanda lineare e acuta. Egli dapprima pone il problema sul piano generale dei valori: è lecito in giorno di sabato fare del bene o fare del male?

Come notiamo, non esiste una posizione neutrale. Infatti, Gesù non esita, proprio di sabato, guarire l’uomo “che aveva una mano secca”. E lo fa nonostante l’atteggiamento malevolo dei farisei per dimostrare loro che non solo è lecito fare il bene in giorno di sabato, ma che le opere buone a sollievo dei fratelli sofferenti devono completare la santificazione del giorno del Signore.

I farisei non ragionano più, il loro spirito è come bloccato da un’idea fissa: Gesù deve morire. La ragione? Si tratta di un profeta scomodo, uno che non lascia tranquilli, uno che non dà tregua all’iniquità, alla doppiezza, alla falsità. Quasi nemmeno odono La domanda che Gesù ha posto, con l’intento di farli riflettere. Soprattutto nemmeno si accorgono della tristezza che il loro atteggiamento suscita in Gesù. Dei vangeli sinottici, soltanto Marco accenna allo sdegno di Gesù e al suo sconforto a causa della chiusura e ottusità dei farisei. Tutto ciò prepara la conclusione della fine violenta di Gesù. La decisione di uccidere Gesù da parte dei responsabili religiosi, farisei, politici, erodiani, obbedisce alla logica di un sistema che cerca di autoconservarsi.

La guarigione del malato, in sintesi, è un’evidente provocazione nei confronti del sistema. Un atteggiamento di rottura che condurrà alla croce. Se rileggiamo gli ultimi due capitoli, ci accorgiamo di trovarci di fronte ad un mini vangelo, nel quale è concentrato tutto il dramma che matura attorno alla persona di Gesù, colui che ha preteso di prender il posto di Dio nel perdono dei peccati, la presa di posizione di fronte alle stratificazioni socio -religiose, alla pratica del digiuno e all’istituzione del sabato. Gesù non ha proposto una riforma da discutere, ma se stesso. L’ultimo confronto tragico con gli avversari sarà anche l’ultima e definitiva risposta di Gesù e la rivelazione piena della sua identità.

Anche oggigiorno ci sono uomini che s’interrogano circa questo o quel punto della fede cristiana. Non riescono ad ammettere, non si sentono di accettare, ma cercano con cuore sincero. La verità, che è Gesù Cristo, si farà certamente trovare, anche se è scritto nei disegni di Dio che la strada debba essere lunga. Anche perché Gesù conosce il cuore dell’uomo e i suoi pensieri; egli interpella, mette in crisi. Qui sta il segreto dell’autorità con cui egli insegna: non solo insegna ma libera; non conosce solo la legge, come gli altri rabbi, ma conosce gli uomini, nella loro cattiveria e nella loro bontà; non mette tutte le prescrizioni della legge sullo stesso piano, ma pone la solidarietà e la fraternità, il “salvare una vita”, al di sopra delle osservanze esteriori del culto. E mentre lui salva, gli altri tramano per perderlo. Ciò che avviene anche oggi nelle nostre società.

La scelta dei dodici.

Capitolo 6,12-19

*In quei giorni andò sulla montagna a pregare e vi passò tutta la notte in orazione. *Quando fu giorno chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali dette il nome di apostoli: *Simone, che chiamò Pietro, e Andrea suo fratello, Giacomo, Giovanni, Filippo, Bartolomeo, *Matteo, Tommaso, Giacomo di Alfeo, Simone detto Zelota, *Giuda, fratello di Giacomo, e Giuda Iscariota, che poi lo tradì.*Disceso con loro, si fermò in un luogo pianeggiante, tra la folla dei discepoli e una grande moltitudine di gente accorsa da tutta la Giudea, da Gerusalemme, dal litorale di Tiro e Sidone. *Venuta per ascoltarlo e per essere guariti dalle loro malattie. Anche quelli che erano tormentati da spiriti immondi venivano guariti. *E tutti cercavano di toccarlo, perché da lui promanava una forza che li guariva.

Prima del grande discorso aperto alle beatitudini Luca ci tiene a presentare l’uditorio. Attorno a Gesù si dispongono in cerchi concentrici tre gruppi: la massa del popolo, venuta da tutta la Palestina, poi la folla dei discepoli e, più vicini, i discepoli qualificati, i “dodici” apostoli. L’elezione degli apostoli è una della decisione più importante compiute da Gesù. Solo Luca però dice che Gesù l’ha fatta sulla montagna dopo aver passato la notte in preghiera. Essi costituiscono il nucleo della convocazione di tutto Israele, fondato sulle dodici tribù. Per questo il numero simbolico dei dodici deve essere ricostituito dopo la defezione di Giuda.

Come abbiamo notato, alla scelta dei “dodici” Gesù si prepara con la preghiera come per i momenti più importanti della sua missione. Essi dovranno assicurare l’avvenire: sono gli “inviati”, i fondamentali “missionari” di Cristo, l’apostolo per antonomasia (Ebr.3,1), il grande 2inviato” del Padre (Gv.3,17.34). Essi formano un gruppo come i patriarchi delle dodici tribù, e saranno il fondamento (Ef.2,20) del nuovo popolo di Dio. A Pietro, col cambio del nome è affidata una missione propria. Ma questi non sono che gli inizi: la “vocazione” degli apostoli, come ogni vocazione, ha sviluppi successivi, che avvengono per l’accrescersi della convivenza e familiarità con Cristo, per i suoi insegnamenti, per l’esperienza della sua Pasqua, per la discesa dello Spirito santo. Da loro noi abbiamo ricevuto tutto ciò che riguarda Gesù Cristo.

Al termine della proclamazione dei dodici, in un piccolo quadro riassuntivo Luca prepara lo scenario per il solenne discorso di Gesù. Egli discende dal monte per incontrare la folla dei discepoli e la massa della gente. Luca dice letteralmente “un popolo numeroso di discepoli”. Si tratta di una definizione che prefigura e anticipa la descrizione della chiesa. Anche la vasta panoramica, per cui fa accorrere a Gesù una massa di gente anche dai territori pagani, prefigura l’orizzonte universale della salvezza. Infatti, la salvezza di Dio si manifesta nei gesti di Gesù e nelle sue parole.

Le beatitudini: beati voi e guai a voi secondo il giudizio di Dio.

Capitolo 6,20-26

*Allora, guardando i suoi discepoli, disse: “Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio. *Beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati. Beati voi che ora piangete, perché riderete. *Beati voi quando gli uomini vi odieranno, quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e proscriveranno il vostro nome come infame a causa del Figlio dell’uomo. *Rallegratevi in quel giorno ed esultate, perché grande sarà la vostra ricompensa presso Dio; nello stesso modo infatti i loro padri trattavano i profeti.*Ma guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione. *Guai a voi, che ora siete sazi, perché patirete la fame. Guai a voi, che ora ridete, perché sarete nel lutto e piangerete. *Guai a voi quando tutti gli uomini diranno bene di voi, poiché nello stesso modo i loro padri trattavano i falsi profeti.

Il solenne annuncio di Gesù, chiamato il discorso del piano, detto così perché Gesù scende dalla montagna, fa eco alla prima proclamazione programmatica nella sinagoga di Nazareth. Anche qui viene data la “buona notizia” ai poveri: il regno di Dio, cioè la sua giustizia e fedeltà, sta dalla parte dei poveri. A questo annuncio o promessa salvifica per i poveri viene ora contrapposta, come rovescio di una medaglia, la proclamazione della rovina per i ricchi. Il discorso è rivolto ai discepoli. Essi saranno beati quando saranno perseguitati a causa sua: avranno così la certezza di essere sulla via giusta; saranno invece maledetti quando tutti diranno bene di loro. In questa luce i poveri, gli affamati, i piangenti sono quelli che hanno perso tutto per essere fedeli a Cristo e i ricchi sono coloro che lo hanno rinnegato scegliendo i beni del mondo, compresa la vita.

I destinatari dell’annuncio o promessa salvifica nel vangelo di Luca sono i “poveri”. Si tratta di categorie e situazioni concrete: affamati, afflitti, perseguitati. Tutti questi sono i poveri, in altre parole le persone che stanno sotto, che dipendono da altri, secondo il significato originario del termine biblico ‘anawìm, vale a dire quelli che sono privi di sicurezza materiale e sociale.

Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio:
Gesù ha iniziato la predicazione del regno annunciando le disposizioni spirituali necessarie per conseguirlo. Il Signore, nella sinagoga di Cafarnao, aveva già letto e applicato a sé la profezia d’Isaia: “Lo Spirito del Signore è sopra di me;…mi ha mandato ad annunciare ai poveri la buona novella” (Lc.4,18). Per comprendere il senso di questa beatitudine, come delle seguenti, non possiamo dimenticare, ripetiamocelo ancora, che sono state annunciate da Gesù nella prospettiva del Regno. Gesù, dunque, non intende dichiarare beate in sé e per sé delle condizioni sfavorevoli della vita terrena, quasi indulgendo ad una visione pessimistica o alla rassegnazione. Intende piuttosto insegnare agli uomini ad interpretarle e a viverle dal punto di vista e nella luce del Regno. Egli non ha detto, tanto per intenderci, beati i poveri perché sono poveri, ma perché di loro è il Regno dei cieli.

La sofferenza, la tribolazione, il dolore non sono valori in se stessi. Sono fatti inderogabili della vita, che Gesù, annunciandone la beatitudine, ci aiuta ad interpretare e a vivere con l’atteggiamento giusto. Tuttavia, è difficile pensare all’umiltà come condizione di beatitudine, ed è difficile viverla. Noi conosciamo più facilmente un’umiltà rassegnata e anche un’umiltà eroica. Ma conosciamo meno facilmente un’umiltà felice. Chi è contento di non valere nulla, di non sentirsi stimato? Chi è contento di avere l’ultimo posto? Eppure questa è la beatitudine della povertà in spirito. Ma per essere beati nell’umiltà bisogna che questa non sia quella epidermica umiltà di cui alle volte ci adorniamo. Insomma, l’esperienza dell’umiltà felice non è un’esperienza facile (necessità sempre in ogni modo considerare gli altri più importanti).

Pensiamo invece per un istante con molta serietà alle nostre scelte d’anime consacrate al Signore Gesù. Quando abbiamo intrapreso il sentiero che conduce alla sequela di Gesù, ci siamo tagliati alle spalle molti ponti. O, almeno, ce li saremmo dovuti tagliare. Non li possiamo, poi, clandestinamente ricostruire attraverso la parola che si chiama “realizzazione di sé”.

Al contrario, i poveri sui quali Dio si china con amore e che Gesù proclama beati, sono coloro che non solo accettano la loro condizione, ma ne fanno un mezzo per avvicinarsi al Signore con fiducia, attendendo unicamente da lui ogni bene. Maria, la madre di Gesù, appartiene alla loro schiera, anzi, come dice il Concilio, “essa primeggia fra gli umili e i poveri del Signore, i quali attendono con fiducia e ricevono da lui ogni salvezza”.

Questa semplice condizione materiale non costituisce quella disposizione interiore che Gesù vuol vedere nei suoi discepoli. Chi essendo povero, non finisce mai di lamentarsi, detesta il suo stato e forse cova odio e invidia verso i più abbienti, non è povero nello spirito. Il Signore vuole la povertà umile e contenta, come quella che san Francesco ha scelto per i suoi discepoli, e che papa Giovanni XXXIII° ha praticato con tanta semplicità durante il suo pontificato.

La povertà materiale è preziosa davanti agli occhi di Dio poiché ha la funzione di richiamo e di mezzo di distacco dai beni terreni, perché diventa riconoscimento della propria indigenza non solo materiale ma anche spirituale perciò sgombra il cuore dalla presunzione, dalla boria, dall’orgoglio. Allora l’umile povertà diventa disponibilità a Dio, apre a lui il cuore dell’uomo, e per riscontro Dio apre all’uomo il suo Regno. Gli umili poveri che Gesù loda, non sono i fannulloni, gli inetti, i pigri, ma quelli che lavorando per migliorare in modo lecito la loro condizione, non sono però avidi di guadagno e di ricchezze al punto di riporre in esse il loro tesoro, dimenticando che beni più alti li attendono. D’altra parte, quando Gesù, quasi capovolgendo le beatitudini, ha detto: “Guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione” (Lc.6,24), non ha condannato i beni materiali, ma il possesso e l’uso ingiusto e sregolato che fanno naufragare il cuore dell’uomo nell’unica ansia dei beni terreni, chiudendo al desiderio di Dio e alla carità verso i bisognosi. E’ la triste storia del ricco Epulone che, dato ai piaceri della mensa, non aveva un pensiero per il povero e umile Lazzaro, mendicante alla sua porta (Lc.16,19-31).

Gesù chiede a tutti i suoi discepoli, abbiano poco o molto, d’essere “poveri nello spirito” in modo che la preoccupazione per la penuria di mezzi o l’attaccamento alle ricchezze non diventi mai un ostacolo alla ricerca di Dio, non ritardi l’amicizia con lui, non appesantisca il cuore con cure eccessive per il benessere materiale. Ma Gesù chiede a tutti anche una povertà più alta che è distacco dai beni morali e perfino spirituali. Chi ha pretese circa la stima e la considerazione della gente, chi è attaccato alla propria volontà, alle proprie idee o è troppo amante della propria indipendenza, chi cerca gusti e consolazioni spirituali, non è povero nello spirito, ma ricco possessore di se stesso. Il tutto non è niente di più di quanto ha chiesto il Signore: “Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mt.16,24).

Beati voi, che ora piangete, perché riderete:
Quando Gesù proclama beati gli afflitti, beati coloro che piangono, a chi si riferisce? Si riferisce a quella condizione della vita terrena che non manca a nessuno. C’è chi è afflitto perché non ha salute, c’è chi è afflitto perché è povero, c’è chi è afflitto perché è solo, c’è chi è afflitto perché è incompreso o perché sovraccarico di lavoro, o perché non è assecondato nelle sue aspirazioni e nelle sue capacità. I motivi di sofferenza sono molteplici. La vita terrena è segnata dal dolore. Ma questo si può vivere in tanti modi. O con l’atteggiamento passivo di chi si lascia andare ad un’inerte rassegnazione, o con uno stoicismo che indurisce il cuore. Oggi c’è tutta una filosofia la quale erige a supremo principio del vivere la fuga da ogni afflizione e la ricerca di godimenti.

Gli afflitti di cui parla Gesù sono coloro che, senza fare né del godere né del patire il primo principio dell’esistenza, accettano la realtà della vita con fiducia e speranza, sapendo che attraverso quest’itinerario provvidenziale vanno verso il Regno.

E questo è il segno inconfondibile della salvezza promessa da Dio al suo popolo e annunciata dai profeti: il Messia si china su tutte le miserie umane per salvarle, per dare sollievo e gioia agli afflitti, per consolare chi piange. Tuttavia, gli afflitti, come per i poveri, non mancheranno mai nel mondo. Le guarigioni miracolose operate dal Signore, “…ciechi riacquistano la vista, zoppi camminano, lebbrosi vengono mondati, sordi odono” (Lc.7,22), non sono che il simbolo di una salvezza più profonda ed essenziale. L’opera di Gesù non si ferma ai corpi, ma va più a fondo: tocca i cuori e li sana dal più grande dei mali, il peccato. Le afflizioni fisiche e morali, le malattie, i lutti, le oppressioni, gli affanni della vita ecc., diventano il veicolo attraverso il quale l’opera della salvezza raggiunge più facilmente l’uomo.

“Guai a voi che ora ridete, perché sarete afflitti e piangerete”, ha detto Gesù (Lc.6,24). Chi vive nel godimento, chi ha tutto ciò che vuole e non manca di nulla, corre un rischio tremendo. Soddisfatto di sé e della vita terrena, non avverte la precarietà della sua situazione, non sente il bisogno di essere salvato, non apre il cuore alla speranza delle cose celesti. Al contrario, l’afflitto, impotente a liberarsi dalle sue tribolazioni, si rende conto che Dio solo può aiutarlo, solo da lui può essere salvato per il tempo e per l’eternità. Gli afflitti che, come i poveri, accettano dalle mani di Dio la loro sorte, che si sottomettono a lui con umiltà, e pur soffrendo non cessano di credere al suo amore di Padre e alla sua Provvidenza infinita, sono proclamati beati da Gesù “perché saranno consolati” (Mt.5,4). E se la consolazione piena sarà soltanto nella vita eterna, qui in terra, in mezzo alle loro angustie, non saranno privi del conforto di sentirsi più vicini a Cristo che porta con loro e per loro la croce.

Quando i mali fisici o morali tormentano l’uomo e sembrano inchiodarlo in situazioni irrimediabili, non è facile credere alla beatitudine proclamata dal Signore. Eppure il dolore nasconde sempre un mistero di vita e di salvezza. Occorre aspettare e sperare la propria consolazione solo da Dio. Bisogna attendere lui, l’unico che salva e cambia il pianto in gioia vera. Occorre avere il coraggio di abbracciare la croce non solo con rassegnazione, ma con amore, con volontà decisa di seguire Gesù sofferente fino al Calvario, fino al Sepolcro, perché soltanto dalla morte può fiorire la resurrezione. Allora si capisce perché san Paolo ha potuto dire: “Sono ricolmo di consolazione, pervaso di gioia nonostante ogni nostra tribolazione” (2^ Cor.7,4). E’ la beatitudine della sofferenza che incomincia ad avverarsi quaggiù per chi sa patire con Cristo per la salvezza del mondo. Si tratta di una consolazione oggettiva che trasfigura la vita umana attraverso l’avvento del Regno e della redenzione. Quindi la beatitudine dell’afflizione ha valore messianico: il Signore annunzia che verrà. E cerca di far capire il significato della sua venuta in questo mondo.

Ma per coloro che amano Dio ci sono altri motivi di pianto. Ci sono le lacrime della Maddalena penitente e di Pietro che piange per il rinnegamento. Ci sono le lacrime di chi, pur amando sinceramente Dio, deve ogni giorno rimproverarsi qualche debolezza, qualche infedeltà; lacrime sante di compunzione, dono dello Spirito Santo. E lacrime ancora per tutto il male che, dilagando nel mondo, fa tante vittime, travolge tanti innocenti, fa deviare dalla fede, travaglia la Chiesa, offende Dio.

In termini molto concreti, questa beatitudine del Signore si deve tradurre così: voi che finora siete stati tribolati, accogliete me che sono mandato ad essere il vostro consolatore. Gesù che annuncia le beatitudini annuncia se stesso. Annuncia che lui è la consolazione dell’afflitto, che disseta l’assetato, che sfama l’affamato, che ristabilisce la giustizia, che rende immacolati gli uomini perché lui è il Consolatore.

Sappiamo bene qual è la storia dei consolatori: quando non ci servono ne abbiamo a decine; quando ci servono, non ne troviamo neppure uno. Al contrario, Gesù è sempre presente, perché la consolazione che ci porta non è semplicemente d’ordine emotivo e sentimentale, ma è più profonda e più radicale: è un dono interiore che fa traboccare nel cuore dell’uomo la beatitudine di Dio. Nessuno al mondo è autenticamente beato se non attraverso una partecipazione della beatitudine di Dio, di cui Gesù è l’annuncio e insieme il sacramento. Come possiamo notare, ci troviamo ancora una volta di fronte ad un’esigenza radicale nell’esperienza cristiana: l’uomo ha bisogno di incontrare il Signore. Nella misura in cui lo scopre e lo incontra, nella stessa misura accoglie la salvezza e diventa beato. E questa beatitudine fa contrasto alle esperienze della vita senza Dio.

Beati voi, che ora avete fame, perché sarete saziati:
La Bibbia parla sovente degli ansiosi di fare la volontà di Dio. E non soltanto con riferimento all’esperienza fisica della fame e della sete. L’immagine della fame e della sete è assunta per significare il bisogno dell’uomo nei confronti di Dio. I profeti parlano della fame e della sete come di un’esperienza misteriosa dell’uomo. “O voi tutti che siete assetati, venite nelle acque, e voi che non avete denaro venite ugualmente, comprate e mangiate” (Is.55,1). “Attingerete acqua con gioia alle sorgenti della salvezza” (Is.12,3). Anche i Salmi parlano della fame e della sete di Dio, che il pio israelita sperimenta in sé: “Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio. L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente” (Sal. 41,2-3). In genere sotto l’immagine della fame e della sete è espresso l’atteggiamento dell’uomo che ha bisogno, che va cercando, ed è tormentato da tanti desideri e aspirazioni. E’ difficile che l’uomo sia sazio. L’uomo d’ogni tempo, anche del nostro tempo, ha fame e sete. Anche nella civiltà del consumismo nella quale viviamo circondati da ogni genere di cose, c’è ancora fame e sete. Non soltanto perché i beni della terra sono distribuiti male e ingiustamente, ma anche perché l’uomo più ha e più vorrebbe avere.

C’è dentro in lui una specie d’insaziabilità. La fame e la sete dell’uomo in questo senso figurato non hanno, però, una direzione univoca. C’è chi ha sete di denaro e c’è chi ha sete di potere, c’è chi ha sete d’amore e c’è chi ha sete d’esperienze, di virtù o di vizio. Questo dinamismo dell’uomo che si apre e vuole essere colmato da qualche cosa che è sopra di lui, almeno idealmente, e al di fuori di lui, è un’esperienza radicale. Da questa fame e sete costituzionali dell’uomo deriva lo sviluppo della storia, della scienza, della civiltà, della tecnica. Se gli uomini non avessero desideri e aspirazioni, tutto si fermerebbe. L’uomo invece è una realtà aperta, che tende sempre, magari inconsciamente, verso orizzonti che sono il superamento di se stesso. Proprio i maggiori cultori e assolutizzatori del valore dell’uomo hanno coniato il termine “super uomo”, in altre parole “realtà sopra l’uomo”.

Ci possiamo domandare, senza perderci in un discorso filosofico, ma rimanendo nei limiti della nostra fede, che significa questo. Sant’Agostino diceva, con un’espressione tanto espressiva: “Signore, tu ci hai fatto per te e il nostro cuore è inquieto fino a che non riposa in te” (Confessioni). L’uomo nella sua esperienza può mettere al posto di Dio tutti gli idoli che vuole. Ma ce li mette in questa prospettiva. Se non è orientato verso il Signore passa da un idolo ad un altro. E l’inquietudine continua. La beatitudine evangelica che stiamo meditando ( coloro in pratica che vogliono fare la volontà del Signore) è in quest’ordine d’idee.

Ecco perché l’enunciato di Gesù s’inserisce nel perenne discorso biblico dove la fame e la sete vengono assunte a similitudine di un’esperienza interiore. Senza autentico spirito di povertà, senza amore per la croce, senza mitezza, come senza fame e sete, nessun cristiano può vivere con pienezza le istanze del suo battesimo e diffondere intorno a sé lo spirito evangelo. Eppure non sono molti i cristiani così affamati e assetati di fare la volontà di Dio perciò nella loro vita la ricerca del regno di Dio e della sua giustizia è sempre in prima linea. Infatti, nel credente sono sempre vive la fame e la sete delle cose terrene, la cui intensità fa deviare il cuore in cerca di soddisfazioni umane chiudendo alla fame di quelle celesti. Ecco perché bisogna pregare e ascoltare la Parola per conseguire la grazia di una vera povertà di spirito che libera il cuore dall’impaccio di tanti legami terreni e lo dispone ad un’unica fame, ad un’unica sete, quelle lodate dal Signore.

Allora il cristiano abbandona ogni desiderio di essere satollato dai beni terreni e diventa sempre più affamato e assetato di Dio, di comunione con lui, di dedizione, d’amore. Totalmente preso da questa fame e da questa sete, egli non può concedersi riposo; per quanto faccia per Dio gli pare sempre di fare troppo poco, e mentre non tollera in sé la minima infedeltà alla grazia, s’impegna per accendere in altri cuori la fame e la sete di cui soffre. “L’amore di Cristo ci spinge” (2^ Cor. 5,14), diceva san Paolo, e ardeva dal desiderio di prodigarsi per la gloria di Dio e per il bene delle anime. Solo Dio sazia questa fame e sete, inizialmente qui in terra e compiutamente nella vita eterna quando la sua presenza ne placherà ogni ansia.

Beati voi, quando gli uomini vi odieranno…:
Il beato per eccellenza, in questa beatitudine, è ancora una volta il Signore Gesù. In tutte le beatitudini abbiamo sempre cercato di mettere in luce come Cristo è il prototipo d’ogni beatitudine. Anche in questo caso è vero, Gesù ha sofferto la persecuzione per essere fedele alla volontà del Padre. Gesù ha conosciuto la tribolazione, la calunnia, la maldicenza, la violenza, il tradimento, per fare la volontà del Padre. Egli è venuto al mondo e non è stato accolto. E’ stato “segno di contraddizione”.

Molte volte Gesù ha predicato ai suoi discepoli che avrebbero dovuto condividere la sua sorte: “Se il mondo vi odia, sapete bene che prima di voi ha odiato me. Un servo non è più del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi. Anzi, viene l’ora che chiunque vi ucciderà crederà di rendere ossequio a Dio” (Gv.15,18-20; 16,2).

Cristo non ha illuso i suoi discepoli, non ha promesso successi e trionfi, ma ha additato con chiarezza la stessa via battuta da lui: contraddizioni, odi, persecuzioni fisiche e verbali, morte di croce. Chi si mette alla sequela di Cristo, se vuol essere nel vero, non può aspettarsi altro. Tuttavia ciò non vuol dire essere pessimisti né scoraggiarsi o vivere nella tristezza, perché mentre Gesù preannuncia ai discepoli le persecuzioni, li proclama beati. “Beati quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e diranno, mentendo, ogni sorta di male contro di voi”. Anzi è questa l’unica beatitudine ripresa e sviluppata in più versetti quasi a persuadere i discepoli di quello che all’occhio umano è un vero controsenso: ritenersi beato quando si soffre. Certo l’essere beati non consiste direttamente nella persecuzione, che è sempre reale sofferenza fisica e morale, ma nel fatto che questo patire è pegno di beatitudine eterna.

Il Signore non chiede al cristiano di chiamare gioia ciò che è dolore, non esige che diventi indifferente alle persecuzioni al punto da non soffrirne, ma gli chiede di credere, sulla sua Parola infallibile, che quando patisce per la causa di Dio, sarà certamente trasformato in gaudio di vita eterna. E’ la sovrabbondanza di questa fede che permette ai santi di gioire nelle persecuzioni sofferte per Cristo, ad imitazione degli Apostoli i quali se ne andavano “lieti di essere stati condannati all’oltraggio a motivo del nome di Gesù” (At.5,41).

Le persecuzioni “per la giustizia” sono quelle stesse sofferte, come soggiunge Gesù, “per cagion mia”, La causa della giustizia, ossia della salvezza e della santificazione degli uomini, è la causa stessa di Cristo, la causa della sua Incarnazione, passione e morte, la scusa sostenuta dal suo insegnamento e dal suo esempio. Le persecuzioni di cui parla la beatitudine sono dunque quelle che il mondo prepara a chi abbraccia fino in fondo la causa di Cristo e del suo Vangelo seminando ovunque disinteresse, mitezza, misericordia, purezza, amore, pace. Se una simile condotta induce molti al bene, è inevitabile che susciti anche la reazione del male, dell’odio, dell’invidia; e mentre il bene si compie in silenzio, il male reagisce con violenza tumultuosa, sicché in certi momenti le persecuzioni sembrano prendere il sopravvento. E’ stato così anche di Gesù, la cui vita spesa unicamente al bene è sembrata ad un tratto sommersa e vinta dalle forze del male. Ma è proprio questo il contrassegno degli autentici discepoli di Cristo: condividere la sorte del loro maestro; ed è questo il motivo profondo della loro beatitudine: trovare nelle persecuzioni la garanzia di non aver sbagliato strada. “Guai quando tutti gli uomini dicessero bene di voi – ha detto Gesù – allo stesso modo facevano i loro padri con i falsi profeti” (Lc.6,26).

Le lodi, le approvazioni del mondo, i successi continui non sono mai il distintivo dell’autentica sequela di Cristo, ma piuttosto l’eredità dei falsi profeti. Il vero profeta presto o tardi incontra sempre la contraddizione; ed è provvidenziale. Ciò lo preserva dalle lusinghe dell’orgoglio lo rende cosciente della sua pochezza, lo difende dall’illusione esaltante d’essere capace di salvare, di trasformare il mondo e quindi lo mantiene nel numero di quei poveri che, pur adoperandosi con tutte le forze per la salvezza propria e altrui, l’attendono però dall’unico Salvatore. Chi invece si lascia irretire dal plauso del mondo corre il rischio tremendo di deformare o sminuire il Vangelo per non incappare nell’impopolarità, e finisce così con lo schierarsi tra i falsi profeti.

In concreto dunque le beatitudini, mentre da una parte proclamano il rovesciamento dei valori e delle situazioni storiche, rovesciamento introdotto dall’azione salvifica di Dio anticipata ora in Gesù, dall’altra sono un invito urgente rivolto alla comunità dei discepoli, perché si confronti seriamente con l’alternativa proposta da Gesù: o coi “poveri” per il regno di Dio o con i ricchi nell’illusione fallimentare. Dopo le beatitudini non c’è più posto per una neutralità tranquilla o per una falsa coscienza cristiana di fronte ai ricchi e ai poveri.

L’amore dei nemici.

Capitolo 6,27-38

*Ma a voi che mi ascoltate io dico: Amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano; *benedite quelli che vi maledicono; pregate per quelli che vi calunniano. *A chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l’altra; a chi ti porta via il mantello, non rifiutare la tunica. *A chiunque ti chiede dà, e a chi ti toglie il tuo non lo richiedere. *Fate agli latri ciò che volete che gli altri facciano a voi. *Se amate coloro che vi amano, quale riconoscenza pretendete? Anche i peccatori amano chi li ama. *E se fate del bene a coloro che vi fanno del bene, che riconoscenza pretendete? Anche i peccatori fanno lo stesso. *E se prestate a coloro dai quali sperate il contraccambio, quale riconoscenza pensate di avere? Anche i peccatori fanno prestiti per avere in cambio l’equivalente. *Ma voi amate i vostri nemici; fate del bene e prestate senza nulla sperare; e la vostra ricompensa sarà grande, e sarete figli dell’Altissimo, che è buono verso gli ingrati e i cattivi. *Siate dunque misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso. *Non arrogatevi il ruolo di giudici e neppure voi sarete giudicati da Dio; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati. *Date e vi sarà dato: una misura buona, pigiata e scossa e traboccante vi sarà versata in grembo; perché con la stessa misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio.

Il discorso del piano riprende il contatto con i discepoli, i destinatari dell’insegnamento di Gesù, per proporre, in una sintesi meravigliosa, l’esigenza fondamentale: l’amore totalitario e incondizionato a tutti. Il brano si presenta come parallelo a Mt.5,38-48, ma Luca ha una sua struttura e delle insistenze sue particolari. I vv.27-30 contengono quattro parallelismi che nella loro forma ritmica offrono tutte le caratteristiche di una trasmissione orale anteriore. E’ un piccolo codice morale caratterizzante il cristiano. Segue la sentenza normativa del v.31 che ricorda Mt. 7,12. Vengono poi tre condizionali che propongono un insegnamento negativo: non siate alla pari dei peccatori (vv.32-34), riassunto positivamente nel v.35a; mentre il v. 35bc indica lo scopo per cui il cristiano deve agire così. Segue un comando (v.36). Non è la perfezione del Padre che si deve imitare, ma la sua bontà e il suo atteggiamento di perdono. Si consiglia di leggere i vv.37-38 eliminando il passivo: …e in quel giorno Dio non vi giudicherà…e nel giorno del giudizio Dio non vi condannerà…vi perdonerà…”

Amore verso i propri nemici: dopo l’enunciazione dell’argomento, seguono le prime tre esemplificazioni: amare i nemici, quelli personali, vuol dire “fare del bene”, benedire e pregare per quelli che hanno sentimenti e dimostrano un atteggiamento diametralmente opposto. Vale a dire che ad un crescendo di ostilità deve corrispondere un crescendo di amore. Ciò significa non proporre soltanto un generico sentimento di benevolenza comprensiva, ma un mare pratico, operativo, che ha il suo test di sincerità nella preghiera, davanti a Dio, dove non è possibile mentire, far finta di amare.

Amore disinteressato e gratuito: Con tre brevi domande, che riprendono i temi della sezione precedente, amare, fare del bene e dare in prestito, viene ora illustrato l’amore gratuito, un amore che supera la cerchia della solidarietà umana interessata, quella che contraddistingue la logica dell’amore tra peccatori. L’amore del discepolo manifesta la “gratuità” che ha la sua fonte nell’amore fedele e creativo di Dio. La motivazione ultima di tale amore, la grande ricompensa, è la piena comunione con Dio, “sarete figli dell’Altissimo”. Perdono e generosità: L’amore umano ha la sua fonte e il suo modello nell’amore di Dio. Un amore che concretamente, di fronte alla miseria e alle deficienze umane, si traduce in misericordia, che vuol dire accoglienza, benignità, dare credito e fiducia. Questa è la caratteristica biblica dell’amore di Dio, un amore che riparte sempre da capo, che ripropone la sua fedeltà tenace, che accoglie e protegge i deboli. “Siate dunque misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso”. All’interno della comunità la misericordia, come accoglienza e perdono fraterno, trova spazio per dilatarsi. Alcune piccole sentenze definiscono questi rapporti nuovi: non giudicare vuol dire non condannare, non condannare vuol dire dare credito al fratello che sbaglia, puntare sul suo futuro e sulle sue possibilità di cambiamento o novità. La misura dell’amore verso il fratello stabilisce anche quella della propria fedeltà a Dio.

Gesù nel suo discorso sull’amore elimina non solo l’odio ma anche il nemico. Per i seguaci di Gesù non c’è più possibilità di odiare perché non deve esistere il nemico. Se il cristiano avrà dei nemici, dovrà amarli. Se incontrerà coloro che lo odiano dovrà far loro del bene. Anzi dovrà pregare per quelli che lo insultano. Gesù sulla croce dà attuazione pratica alla legge formulata in questo suo discorso pregando per i suoi stessi crocifissori (Lc.23,34). Il suo esempio sarà seguito dal primo martire cristiano (At.7,60). Ognuno di noi s’impegna a fare altrettanto.

Queste parole non hanno bisogno di essere spiegate (sono anche troppo chiare!), quanto di mostrare che sono praticabili. Il rischio maggiore, infatti, è che si ascoltino come pie esagerazioni, espressioni poetiche che stanno bene nei libri, ma che hanno poco o niente a che vedere con la vita reale. La testimonianza dei martiri odierni ( non solo quelli antichi delle persecuzioni romane), insieme a innumerevoli altre (Africa, Islam, Asia e la stessa Italia dove sacerdoti sono stati assassinati in nome della giustizia divina), ci rassicura proprio su questo punto. Il perdono dei nemici è possibile, difatti c’è chi lo pratica! Dopo questa premessa cercherò adesso di vedere più da vicino cosa chiede Gesù ai suoi discepoli. Anzitutto una precisazione. Il verbo usato per indicare l’amore dei nemici è “agapan” che indica un amore gratuito che non dipende dal merito o demerito della persona amata; un amore diverso da quello erotico (eran) e da quello d’amicizia (philein). Ma l’amore che definiamo “carità”. Ciò ci dice già che l’amore richiesto per i nemici, più che un impossibile sentimento di trasporto del cuore, è una decisione della volontà; consiste cioè nel non volere il male del nemico, ma semmai “che si converta e viva”.

Tuttavia anche con questa precisazione è umanamente possibile, mi chiedo, mettere in pratica un’esigenza come quella enunciata da Gesù Cristo? Devo rispondere senza mezzi termini: no, non è umanamente possibile! Allora Gesù ci chiede l’impossibile? Neppure. La risposta è che Gesù non ci dà solo il comandamento di amare i nemici, ma ci dà anche la grazia, in altre parole la capacità di farlo. Se egli si fosse limitato a darci solo il “precetto” di amare i nemici e non avesse fatto altro, esso sarebbe rimasto lettera morta, anzi, come dice San Paolo, “lettera che uccide”. Sì, uccide, nel senso che saremmo schiacciati da un’esigenza che non riusciamo a soddisfare. Come se uno mettesse davanti ad un bambino un peso di un quintale e gli ordinasse di sollevarlo.

Gesù, cari fratelli e sorelle, ha soddisfatto, lui per primo e per tutti, questo comandamento. E’ morto perdonando i nemici. Ma anche questo non sarebbe stato sufficiente. Se si fosse fermato qui, Gesù ci avrebbe lasciato un sublime esempio d’amore per i nemici, ma non ancora la forza e la capacità di amare, anche noi, i nemici.

Le cose cambiano quando egli, a Pentecoste e poi, per ognuno, nel battesimo e nei sacramenti, ci dona il suo Spirito. In questo modo egli ci comunica le sue stesse disposizioni, infonde in noi la sua stessa capacità d’amare tutti, anche i nemici. Gesù non solo ci ordina di fare, ma fa quello che ci ordina. Ciò che si richiede a noi tutti, è di accogliere questa grazia, di crederci e di collaborare con essa. Non si può, dicevo, domandare ad un bambino di sollevare un quintale, ma gli si può chiedere di premere col ditino un bottone che attiverà un argano capace di sollevarlo. Premere il bottone è mettere in opera la fede e la preghiera. Parafrasando ciò che Sant’Agostino diceva del precetto della castità, possiamo pregare dicendo: “Signore, tu mi comandi di amare i nemici: ebbene, dammi ciò che mi comandi e poi comandami ciò che vuoi!” I martiri d’ogni tempo non hanno attinto da se stessi la forza di perdonare chi li uccideva, ma da Gesù, il Figlio di Dio, cui tutto è possibile.

Voglio narrarvi una storia. Un giudice disse ad un amico: quel giovane ha ucciso un uomo, ha confessato il delitto nel pieno delle sue facoltà. Ho dovuto condannarlo. Tuttavia il mio cuore è triste perché sono giunto alla conoscenza dei fatti della sua vita. In tenera età ha visto assassinare suo padre, sì, proprio dall’uomo ucciso. Nell’ambiente in cui è cresciuto si parla solo di vendetta. Vedi, non ha mai udito neppure una parola di perdono e d’amore. Ecco perché, quando era ancora bambino, si convinse che da adulto doveva vendicare la morte di suo padre. Puoi comprendere con quanto odio ha covato durante questi anni, ma non desiderava che alle figlie dell’assassino di suo padre, toccasse la stessa sorte che era toccata a lui. Solo dopo che ambedue alle figlie si erano formate una famiglia, si vendicò uccidendolo. Il suo delitto è il risultato e il frutto dell’ambiente in cui era vissuto. A mio avviso è stata fatta giustizia, ma non certo una giustizia vera e totale. Le cause che hanno generato il delitto esistono ancora e produrranno altri delitti.

Ho capito più cose del fenomeno della criminalità con questa storia che da tutti i discorsi, gli articoli, i dibattiti su di essa. Ho compreso per esempio come un ragazzo può ritrovarsi criminale senza possibilità di scelta e perciò senza colpa ed accorgersi di avere sbagliato quando ormai è quasi impossibile tornare indietro. Cos’altro può diventare un ragazzo al quale tutto l’ambiente in cui cresce, a partire da quello familiare, gli esalta i valori della vendetta e del crimine, e gli fornisce ogni giustificazione sociale e religiosa dell’agire? Non c’è da stupirsi se accenderà una candela alla Madonna la sera prima di andare ad uccidere qualcuno, perché lo faccia riuscire nell’impresa…Di fronte a queste considerazioni, mi sorge spontanea una riflessione: cosa sarebbe accaduto se ci trovassimo in una nazione dove vigesse la pena di morte? Sarebbe preclusa la possibilità stessa di redenzione vera.

Parlando con alcuni giovani, uno mi chiese che sarebbe della convivenza umana se tutti mettessero in pratica il suggerimento di Gesù di porgere l’altra guancia? Non sarebbe la fine di tutto e il trionfo dell’ingiustizia? Io risposi che anzitutto, se tutti mettessero davvero in pratica l’insegnamento di Gesù, non ci sarebbe nessun bisogno di porgere l’altra guancia, per il semplice motivo che nessuno percuoterebbe più il fratello su una guancia.

Beh, battute a parte, vi rispondo: è vero, non sappiamo cosa sarebbe di una società in cui tutti (ma proprio tutti) mettessero in pratica il precetto di Gesù del perdono; in compenso però sappiamo benissimo che ne è di una società in cui esso non è posto in pratica e si continua a praticare la legge del taglione: “Occhio per occhio, dente per dente”. Sappiamo cosa ha prodotto, e cosa sta producendo, in Medio Oriente, nella terra in cui Gesù cercò di infrangere per primo questa legge…Senza andare lontano, o altrove, guardiamo in casa nostra: cosa succede in quelle regioni dove la vendetta, la faida, tra le cosche o le famiglie -la legge del taglione-è ancora considerata sacrosanta?

Osservate le statistiche delle forze di polizia, alla fine dell’anno le vittime sono centinaia, come in guerra. L’esistenza di quelle famiglie è avvelenata, sospesa ad un filo in ogni momento…vita da trincea, non vita! Lancio il mio grido di dolore e, unendomi a tutti i discepoli di Cristo, dico: Gesù Cristo, il Figlio di Dio c’è anche per voi, perdonate, perdoniamo, amate, amiamo, si può fare!

Cinque similitudini sul vero discepolo.

Capitolo 6,39-49

*Poi disse loro una parabola: Un cieco può fare da guida a un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso? *Il discepolo non è da più del suo maestro, ma ogni discepolo ben preparato sarà come il suo maestro. *E perché guardi la pagliuzza nell’occhio del tuo fratello e non t’accorgi della trave che è nel tuo? *Come puoi dire al tuo fratello: Lascia, fratello, che ti levi la pagliuzza dall’occhio, se tu stesso non vedi la trave che sta nel tuo? Ipocrita. Togli prima la trave dal tuo occhio, e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello. *Non vi è albero buono che dia frutti cattivi; né albero cattivo che dia frutti buoni. Ogni albero si riconosce dal proprio frutto; non si raccolgono fichi dai cardi, né si vendemmia uva da un rovo. *L’uomo buono dal buon deposito che ha nel suo cuore trae fuori il bene, è l’uomo cattivo da quello cattivo trae fuori il male; la bocca di ciascuno parla dalla pienezza del cuore. *Perché mi chiamate: Signore, Signore, e non fate ciò che vi dico? *Chiunque viene a me e ascolta le mie parole e le mette in pratica, vi mostrerò a chi può essere paragonato. *E’ come un uomo che costruì una casa scavando molto profondo per porre le fondamenta sulla roccia. Venuta la piena, il fiume irruppe contro quella casa, ma non riuscì a smuoverla perché era ben costruita. *Ma chi ascolta e non mette in pratica è come un uomo che costruì una casa sul suolo senza fondamento, irruppe il fiume e subito essa crollò, e la rovina di quella casa fu completa.

La prima tematica riguarda la correzione da parte di uno che ha una trave nell’occhio, paragone in origine diretto contro i farisei, le guide spirituali che sviavano il popolo. Tuttavia nell’attuale contesto di Luca esso è rivolto contro le false guide della comunità, che pretendono di essere “sopra” il maestro. Uno solo è l’autentica guida, uno solo è “maestro”, tutti gli altri sono discepoli.

La seconda tematica parla del legame intimo tra l’intenzione profonda, il centro e la radice della personalità, il “cuore” dice il vangelo, e il comportamento esterno, nell’agire come nel parlare. Ciò che importa non è tanto e solo l’agire esterno conforme ad un codice di norme, ma la verifica del “cuore”, In ultima analisi è dal cuore “buono”, dalla coscienza illuminata e pulita che un uomo può far scaturire una prassi autentica. Ciò che conta è l’attuazione della sua parola che, posta nel cuore, costituisce il deposito interiore e il fondamento di una vita solida di fede.

Come avete notato e dedotto dai vangeli si potrebbe cogliere una serie di spunti su ognuno degli organi con cui la persona umana opera e comunica con l’esterno: occhi, orecchi, voce, mani, piedi, cuore; e sul linguaggio di ognuno di questi sensi, il suo uso e abuso.

Io mi limito questa volta a raccogliere il messaggio legato agli occhi. Matteo riporta un detto di Gesù dedicato interamente all’occhio: “La lucerna del corpo è l’occhio; se dunque il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nella luce; ma se il tuo occhio è malato, tutto il tuo corpo sarà tenebroso” ( Mt.6,22). L’occhio è davvero la lucerna, o la spia, dell’anima. Le emozioni più intense, le passioni più violente, le gioie e i turbamenti più profondi, quelli che non possono essere tradotti in parole sono comunicati con gli occhi. Lungo il corso dei secoli sono cambiate tante cose, ma non è cambiato l’alfabeto degli occhi: sorriso, lacrime, paura, meraviglia, fiducia…sono uguali dovunque.

Nel mondo vivono circa sei miliardi d’esseri umani, il che significa tredici miliardi d’occhi che guardano, che interrogano, che raccontano, che esprimono. Ma quanti sono veramente gli occhi che funzionano da…occhi? Soltanto una persona psicologicamente matura sa usare bene gli occhi. Gesù è anche in ciò un modello insuperabile. Su tutte le cose egli porta uno sguardo amorevole e attento.

Attraverso i suoi occhi possiamo vedere, come assistendo ad un film, il mondo che lo circondava. Il pastore conta le pecore e corre a riprendersi quella che si è attardata; il contadino mette mano all’aratro, getta il seme, guarda il cielo; se una nuvola sorge da occidente sa che domani verrà la pioggia; se il vento soffia nel deserto sa che vi saranno giorni torridi. Gigli che crescono nel campo e uccelli che volano in cielo. La vecchietta spazza la casa per ritrovare la moneta perduta; la donna impasta il lievito con tre misure di farina e accende la lucerna per porla sul candeliere. Sulla piazza i braccianti attendono chi li assume alla giornata. I bambini, vispi, fanno il girotondo e, con voci stridule, vanno ripetendo sempre lo stesso ritornello..

Nei Vangeli sono registrati diversi sguardi di Gesù che cambiano l’esistenza delle persone. Ricordo l’episodio della conversione di Matteo (Lc.5,27-28). E’ seduto, intento a riscuotere i dazi, a contemplare rapito, le monete che i commercianti depongono sul tavolo…E’ al massimo dell’euforia quando tutto ciò che fino a quel momento ha dato significato alla sua vita perde valore, nello sguardo di Gesù. Matteo si alza, abbandona ogni cosa e segue Gesù. Non ha assistito ad alcun suo miracolo, Gesù non è ancora famoso e allora? Osserviamo un particolare del racconto: “Gesù lo osservò”. Il suo sguardo si rivela all’istante irresistibile: è penetrante, affascina…Lo sguardo di Gesù non si ferma alla superficie, ma giunge diritto al cuore. Nel suo celebre quadro Caravaggio ha colto l’importanza di due sguardi che s’incontrano e fa ruotare intorno ad essi tutta la scena. Alla luce dell’importanza che lo sguardo riveste per Gesù, possiamo comprendere meglio anche quello che nel vangelo egli dice circa alcune disfunzioni del nostro occhio. La medicina moderna è giunta a diagnosticare le malattie di una persona osservando il fondo dell’occhio; Gesù fa la stessa cosa per gli occhi del cuore.

La malattia più radicale segnalata è la cecità spirituale: “Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in una buca?” Gesù ammonisce in tal modo gli apostoli e i discepoli a non essere, come gli scribi e i farisei, “guide cieche” (Mt.23,16). La guida cieca è quella che non si lascia guidare dalla luce e dalla parola di Dio, ma solo dalla prudenza, o peggio dall’astuzia umana.

Questo avvertimento è rivolto in particolare alle guide delle varie comunità (è chiaro che Luca pensa certamente al problema dei falsi profeti nella comunità del suo tempo). Sentiamo piuttosto quello che Gesù dice di un’altra malattia della vista che riguarda tutti indistintamente.

“Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e non t’accorgi della trave che è nel tuo? Come puoi dire al tuo fratello: Permetti che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio, e tu non vedi la trave che è nel tuo? Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e allora potrai vederci bene nel togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello”.

Spiritualmente parlando, il difetto di vista più frequente non è la miopia, ma presbiopia. Miopia è vedere bene da vicino e male da lontano; presbiopia, al contrario, è vederci bene da lontano, ma male da vicino. Colui che vede la pagliuzza nell’occhio del fratello e non vede la trave nel suo, è uno che vede lontano, ma non vede vicino. E’ un presbite. Il Presbite, a volte, non riesce a leggere uno scritto anche se ha i caratteri grandi come travi e ce l’ha ad un palmo dagli occhi.

Che cosa indica la famosa pagliuzza e la famosa trave? La pagliuzza è il peccato giudicato nel fratello, qualunque esso sia, in confronto al fatto stesso di giudicare che è la trave. Gesù denuncia qui una tendenza innata dell’uomo che i moralisti antichi hanno illustrato con la favola delle due bisacce. Nella rielaborazione che ne fa La Fontaine (scrittore di favole) dice: “Quando vieni in questa valle porta ognuno sulle spalle una duplice bisaccia. Dentro a quella che sta innanzi volentieri ognun di noi i difetti altrui vi caccia, e nell’altra mette i suoi”.

Siamo strani noi umani, possediamo occhi di lince nello scorgere i difetti del prossimo e siamo talpe cieche quando si tratta dei nostri. Dovremmo semplicemente rovesciare le cose: mettere i nostri difetti sulla bisaccia che abbiamo davanti e i difetti degli altri su quella dietro. Dopo tutto, i nostri difetti sono i soli che dipende da noi modificare e correggere. Ciò che avviene per pregi e difetti avviene anche per diritti e doveri. Noi poniamo il più delle volte i nostri diritti nella bisaccia davanti e i nostri doveri in quella dietro. Viviamo, soprattutto oggi, in una società dove tutti sbandierano diritti, e nessuno sembra avere doveri. Nel momento in cui si vuole procurarsi il favore di qualche settore della società non si fa che mettergli davanti agli occhi i propri diritti, tacendogli i rispettivi doveri. Tanti conflitti sociali dipendono da qui. S’impone, anche a questo riguardo, un bel capovolgimento di bisacce: davanti i doveri, dietro i diritti, oppure, ciò che è lo stesso: davanti i diritti degli altri, dietro i diritti nostri. Tanto, anche se sono dietro, non c’è pericolo che li trascuriamo…

In conclusione, la similitudine trave-pagliuzza, è un’immagine grottesca e paradossale, tuttavia rende palese l’assurdità di colui che s’innalza a giudice del fratello. Chi giudica si autogiustifica, s’illude nella propria ipocrisia, che gli maschera la profonda sfasatura tra la convinzione interiore e il comportamento esterno. Soltanto una lucida autocritica è la condizione per aiutare, con senso di partecipazione e di misericordia, il fratello a correggersi.

I vv.43-45, s’illuminano a vicenda e propongono la verifica e la scelta del vero discepolo: l’albero e i frutti, l’uomo e il suo deposito interiore, il cuore. C’è un legame intimo tra l’intenzione profonda, il centro e la radice della personalità, il “cuore” dice il vangelo, e il comportamento esterno, nell’agire come nel parlare. Ciò che importa non è tanto e solo l’agire esterno conforme ad un codice di norme, ma la verifica del “cuore”. In ultima analisi è dal cuore “buono”, dalla coscienza illuminata e pulita che un uomo può far scaturire una prassi autentica. Neppure basta riconoscere Gesù maestro e Signore, in una professione di fede verbalmente ortodossa: chi proclama Gesù “Signore, Signore”. Ciò che conta è l’attuazione della sua parola che, posta nel cuore, costituisce il deposito interiore e il fondamento di una vita solida.

Con questi versetti si prepara la conclusione del discorso del piano: le due case, o meglio due costruzioni. Le fondamenta di una casa sono costruite sulla roccia, perciò resiste alle intemperie, al vento, alle inondazioni; l’altra è costruita appena al suolo, vale a dire sulla sabbia, quindi alle prime impetuose piene dei wadi, barcolla ed è la rovina di tutto. L’efficacia espressiva non è svigorita, anzi: accogliere le parole di Gesù vuol dire prenderle sul serio, in pratica tradurle nella vita. La figura del “cristiano vero” è delineata dall’evangelista con tre verbi: “venire”, “ascoltare”, “fare”. Il primo esprime la decisione fondamentale di porsi alla sequela di Gesù. Il secondo include certamente anche l’assenso della parola ascoltata. Tuttavia il tratto incisivo è il terzo: vale a dire trasformare la parola ascoltata in parola “fatta”, cioè in gesti concreti.

La mancanza di quest’ultimo tratto priva di valore anche i primi due. E’ la pratica che costituisce la differenza fra il cristiano vero e il cristiano mancato. Non sono direttamente in questione la fede e l’incredulità. Il cristiano mancato è pur sempre un credente che invoca il Signore, parla di lui, ascolta la sua parola e vi consente. Però non è un autentico cristiano. L?ascolto e l’adesione sono senza dubbio importanti, ma sono ancora simili a un progetto sulla carta, che diventa realtà solo quando viene eseguito. Cosa occorre fare di preciso, se non basta ascoltare? E che significa “fare”? Se non rispondiamo a queste domande, la parabola resta del tutto formale e generica. La parabola da sola non può rispondere a tali interrogativi.

Non resta che analizzare il contesto, al quale non solo è possibile, ma necessario ricorrere; infatti, la parabola è stata intenzionalmente posta da Luca a conclusione dell’intero discorso della pianura. Da questa parola attuata dipende, infatti, la salvezza (casa edificata sulla roccia) o la rovina (la casa costruita sulla sabbia). Le parole di Gesù non sono quelle di un Rabbi qualsiasi, ma hanno l’autorità della parola di Dio. Luca con questa conclusione ci comunica che la parola di Gesù prende il posto dell’antica rivelazione e diventa il vero fondamento della nuova comunità dei discepoli.

Indice Vangelo di Luca