Vangelo di Matteo – Cap 5

Capitolo 5,1-12

*Vedendo la folla, Gesù salì sul monte. Si mise a sedere e i suoi discepoli gli si approssimarono. *Egli prese a parlare e li ammaestrava dicendo:
* Beati i poveri in spirito: di essi è il regno dei cieli.
* Beati gli afflitti: perché saranno consolati.
* Beati i miti:perché erediteranno la terra.
* Beati quelli che hanno sete e fame della giustizia: perché saranno saziati.
* Beati i misericordiosi: perché troveranno misericordia.
* Beati i puri di cuore: perché vedranno Dio.
* Beati gli operatori di pace: perché saranno chiamati figli di Dio.
* Beati i perseguitati per causa della giustizia: perché di essi è il regno dei cieli.
* Beati voi, quando in tutti i modi sarete insultati, perseguitati e calunniati ingiustamente per causa mia.
* Siate pieni di gioia, perché sarà per voi la ricompensa nel cielo. Così hanno perseguitato i profeti vissuti prima di voi.

Preghiera Padre Nostro - James TissotIl discorso della montagna è il primo dei cinque lunghi discorsi di Gesù nel Vangelo. E’ correlato ovviamente al discorso della pianura descritto da Luca 6,20-49, ma è tre volte più lungo. Matteo ha raccolto dei detti tradizionali e li ha foggiati come compendio dell’insegnamento di Gesù. La tesi fondamentale del discorso è espressa al versetto 20: “Se la vostra giustizia non supererà quella degli Scribi e dei farisei non entrerete nel Regno di Dio.

In poche righe Matteo riesce a darci il quadro esterno del discorso: due cerchi di ascoltatori, la folla dietro e in primo piano i discepoli; il monte da cui scende la parola; l’atteggiamento di Gesù; la qualifica di insegnamento del suo parlare. Il tutto però trascende il puro dato cronachistico. Anche noi poniamoci, seduti, in ascolto della parola di Gesù.

Gli stoici antichi avevano definito paradosso un enunciato che andava contro l’opinione comune; in questo senso il discorso della montagna è il più ampio e più radicale paradosso che sia mai stato enunciato, perché per l’uomo la beatitudine consiste nella felicità, la sazietà nella saturità, il piacere è l’effetto dell’appagamento, l’onore è prodotto dalla stima; al contrario, e fin dalle prime parole il discorso della montagna annuncia che per l’uomo la beatitudine consiste nell’infelicità, la sazietà nella famelicità, il piacere nell’inappagamento, l’onore nella disistima, il tutto nell’attesa dell’avvento del regno dei cieli.

Come possiamo ben comprendere nessun discorso recitato sulla terra fu più sconvolgente, o meglio, più capovolgente, di questo: ciò che tutti prima definivano bianco qui è chiamato non già grigio o scuro ma addirittura nero; dove prima si sublimava la vetta adesso è posta a base, e dove si sprofondava la base è collocata la vetta. In confronto col discorso della montagna, le massime teorie operate e pensate dall’uomo sulla terra sembrano un nulla. E questo capovolgimento è presentato, non già come conseguenza di lunghe investigazioni intellettuali, bensì con un tono notevolmente imperativo che trova il suo appoggio soltanto sull’autorità dell’oratore: “Così è, perché ve lo dico io Gesù!”

Ciò che meditiamo rappresenta nel suo paradosso un progetto così comune e così semplice che serve a tutta l’umanità perché esso è l’espressione autentica dell’amore divino, ed è tanto comune, ma tanto comune, che è al di fuori del comune. E’ così semplice, ma così semplice, che diventa persino difficile a realizzarsi. Infatti, a noi umani, che siamo nati dal peccato, piace tanto complicare le cose. Solo i semplici e gli umili riescono a capire e a realizzare ciò che ha insegnato Gesù, perché Egli ha colto in pieno le esigenze dell’uomo e non poteva essere altrimenti!

Un avvertimento per tutti i lettori. Alla luce di quanto detto, le beatitudini proclamate da Gesù sono da considerare come un tutt’uno, evitando di isolarle l’una dall’altra. In fondo, piuttosto che di beatitudini dovremmo parlare di beatitudine.

“Beati i poveri in spirito: perché di essi è il regno dei cieli”. – Cosa intendeva dire Gesù? Si tratta di un’espressione che esprime lo stato d’umiltà. Tuttavia è difficile pensare all’umiltà come condizione di beatitudine, ed è difficile viverla. Noi conosciamo più facilmente un’umiltà rassegnata e anche un’umiltà eroica. Ma conosciamo meno facilmente un’umiltà felice. Chi è contento di non valere nulla, di non sentirsi stimato? Chi è contento di avere l’ultimo posto? Eppure questa è la beatitudine della povertà di spirito. Ma per essere beati nell’umiltà bisogna che questa non sia quella epidermica umiltà di cui alle volte ci adorniamo. Insomma l’esperienza dell’umiltà felice non è un’esperienza facile (necessita sempre considerare gli altri più importanti).

“Beati gli afflitti: da Dio saranno consolati”. Gli afflitti sono coloro che subiscono i contraccolpi di un mondo ancora sotto l’azione delle forze del male e della morte; oppure a quella condizione terrena che non manca a nessuno. C’è chi è afflitto perché non ha salute, perché è povero, perché solo, perché è incompreso o perché sovraccarico di lavoro, perché non assecondato nelle sue aspirazioni e nelle sue capacità. I motivi di sofferenza sono molteplici. La vita terrena è segnata dal dolore. Ma questo si può vivere in tanti modi. O con l’atteggiamento passivo di chi si lascia andare ad una inerte rassegnazione, o con uno stoicismo che indurisce il cuore. Tuttavia Gesù ci dice che senza fare né del godere né del patire il primo principio dell’esistenza, accettano la realtà vita con fiducia e speranza, sapendo che attraverso questo itinerario provvidenziale si cammina verso il Regno di Dio.

“Beati i miti: erediteranno la terra”. In sostanza questa beatitudine ripete la prima, con la sola differenza che qui in primo piano sta il rapporto col prossimo, e la differenza è enorme. Perché le cose di fronte all’uomo sono fondamentalmente passive, poiché subiscono l’azione dell’uomo, ne sono governate, dominate. Nel rapporto con l’uomo, invece, noi ci troviamo di fronte a creature attive come noi, che sono su un piano di eguaglianza con noi e hanno un’attività personale con noi. In questo tipo di rapporto bilaterale, l’interpersonalità è dimensione fondamentale. Gesù è stato un maestro di mitezza poiché egli non aggredisce, non è violento, non è presuntuoso, non è superbo, non è impaziente, non è intransigente, al contrario è comprensivo, misericordioso, è buono. La mitezza è la risultante di tante dimensioni dello spirito, prima ancora che di tanti atteggiamenti esteriori.

“Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati”. L’immagine di questa beatitudine esprime non solo il desiderio e la tensione ideale, ma l’idea di una ricerca attiva e impegnata. In quale direzione? Nel compimento della volontà di Dio. In situazione felice sono dunque dichiarati quanti concretamente tendono a fare ciò che il Padre vuole. La promessa per il futuro parla letteralmente di sazietà: saranno ricolmati della felicità escatologica.

“Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia”. Qui non s’intende un sentimento, ma una concreta operatività,gesti di perdono all’interno dei rapporti e di aiuto prestato ai bisognosi. Una perfetta corrispondenza con il presente caratterizza la promessa del futuro: Dio nel giudizio ultimo si mostrerà misericordioso a coloro che hanno vissuto un’esistenza d’amore misericordioso.

“Beati i puri di cuore perché vedranno Dio”. Qui il linguaggio della beatitudine mostra risonanze cultuali (i riti di purificazione prima di salire al Tempio). Sono dichiarati da Gesù beati coloro che hanno il cuore puro, cioè sono puri nel profondo del loro essere, al di là della facciata esterna. Vale a dire che solo quando il cuore è purificato da ogni ombra di passione, di desiderio cattivo, egoistico, disordinato, tutte le azioni dell’uomo sono splendenti di purezza e la sua vita è trasparente, senza macchia. Allora anche l’occhio è puro e la purezza del cuore è la luce della vita, luce che apre gli occhi dell’uomo sulle cose divine e lo dispone gradualmente alla visione di Dio e dei suoi misterri.

“Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio”. Con questa beatitudine Gesù si congratula con quelli che mettono pace. Infatti, il cristiano è chiamato a realizzare la pace, non rimanendo fuori, ma entrandoci dentro. E’ dal di dentro che si promuove e si serve la pace. Questa vocazione di pace che impegna tutti noi fa parte del messaggio evangelico. L’autentico pacifico non può godere pace se intorno a sé c’è guerra. Egli scende in lizza non tanto per rimproverare i contendenti o per predicare la pace, quanto per fare in pratica tutto ciò che può dipendere da lui per promuovere la pace e non retrocedere quando ciò esige il sacrificio personale. Del resto il cristiano autentico, che ha nel cuore e nel volto la pace di Dio, è di per sé un facitore di pace: il suo gesto, la sua parola hanno un’efficacia particolare per calmare gli animi, per sedare le contese, per comporre le liti. Il mondo ha più che mai bisogno di pacificatori figli di Dio, instancabili seminatori di pace. Fin da ora essi sono beati, ma lo saranno immensamente di più quando il Padre celeste, riconoscendo in loro l’immagine del suo unigenito, li chiamerà suoi figli e li accoglierà nel suo Regno.

“Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”. Molte volte Gesù ha predicato ai suoi discepoli (di ogni tempo) che avrebbero dovuto condividere la sua sorte. Non ha illuso i suoi discepoli, non ha promesso successi e trionfi, ma ha additato con chiarezza la stessa via battuta da lui: contraddizioni,odi, persecuzioni fisiche e verbali, morte di croce. Tuttavia ciò non vuol dire essere pessimisti né scoraggiarsi o vivere nella tristezza, perché mentre Gesù preannuncia ai discepoli le persecuzioni, li proclama beati.

“Voi siete il sale…”. Il ruolo dei seguaci di Gesù viene espresso attraverso le immagini del sale e della luce. Ai tempi di Gesù il sale veniva usato non solo per dare sapore ai cibi, ma anche per conservare carne e pesce. Paragonando i suoi discepoli al sale Gesù intende dire che essi migliorano la qualità dell’esistenza umana e la preservano dalla distruzione. Ai tempi di Gesù le sole lampade disponibili erano dei piccoli oggetti a forma di piatto in cui veniva bruciato l’olio. In confronto alle nostre abitudini, queste lampade non davano certo molta luce, ma in un periodo in cui l’elettricità non esisteva ancora questa luce doveva apparire molto brillante. Chiamando i suoi discepoli luce del mondo, Gesù intende dire che le loro opere devono servire come segnali di luce in un mondo buio. I discepoli sono invitati a far brillare le loro luci come testimonianza della loro fedeltà a Gesù e al Padre celeste.

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