Sergio e Elena

Parte ottava – La consapevolezza

Amare Gesù Cristo, parlare di Gesù Cristo, vivere Gesù Cristo, queste sono le cose importanti che si impressero nelle nostre anime, nei nostri cuori e nelle nostre menti.

Questa considerazione naturalmente demolì qualsiasi tentativo di spiegazione naturalistica delle nostre conversioni; infatti, le leggi della psicologia, come tutte le leggi, seguono una loro logica interna e coerente, ed è appunto per questo che si possono studiare e controllare. Invece, le conversioni, in tutta umiltà ed abbandono nelle mani di Dio, sono come un fragoroso naufragio ai piedi di una invisibile montagna che nessun segnale di avvistamento può indicare: a noi poveri naufraghi non rimane altra scelta di salvezza che aggrapparsi alla nuova terraferma, così come Paolo di Tarso si ancorò, sulla via di Damasco, e da quel momento la sua esistenza fu il Cristo ed ebbe a dire e a scrivere: “Per me il vivere è Gesù Cristo e il morire un guadagno” fil.1,21.

Comprendemmo che essere cristiani e definirsi tali senza avere alcuna familiarità con Gesù si corre il rischio di essere solo persone che hanno fede nella fede di altri e che conoscono Dio Onnipotente solo per sentito dire. Per questa ragione siamo chiamati ad essere custodi amorosi della Parola ricevuta trattenendola nella nostra mente, nel nostro cuore e nella nostra anima, scoprendone il peso, il valore e il senso soprattutto nella comunità così che diventa concreta come fatto, più reale della realtà, lasciando che la Parola, abitando in noi, divenga nostra carne e nostro sangue trasformandoci l’esistenza.

Dovemmo operare in profondità nelle coscienze con prudenza, umiltà e l’esempio. Ma come potevamo essere credibili? E’ vero che vivevamo e pensavamo per Gesù, ma è anche vero che dovevamo depurarci, correggerci di tutti i difetti umani. Ci analizzammo spietatamente, facendoci carico di molte cose. Innanzitutto la superbia. Che ci serviva sapere e discutere profondamente di Gesù e dell’apostolo Paolo, se non eravamo umili? Non era la profonda dissertazione del Divino che ci serviva, ma la vita virtuosa presa ad esempio: era preferibile che recepissimo la compunzione del cuore che saperla descrivere. Bisognava che comprendessimo che senza l’amore per Dio e senza la sua grazia, non ci avrebbe giovato la conoscenza letterale delle Sacre Scritture. Ah, vanità delle vanità, tutto è superbia!

E così, pur con tutti problemi che ci assillavano, cessammo di ricercare la ricchezza, destinata a finire, e riporre in essa le nostre speranze: rinunciammo persino alla proposta editoriale che mi era stata inviata (a quel tempo scrivevo romanzi). Scordammo di ambire agli onori e di montare in alta considerazione. Dimenticammo di seguire desideri carnali e di aspirare a cose, per le quali avremmo dovuto poi essere gravemente puniti. Cessammo di aspirare di vivere a lungo, dandoci lo scopo di vivere bene. Non dovemmo più occuparci soltanto della vita presente ma agire per l’altra vita. Smettemmo di desiderare e amare ciò che passava con tutta rapidità affrettandoci là dove dura eterna gioia. Non solo, eliminammo l’ipocrisia, se ci fossimo consacrati al digiuno, non dovevamo per questo pensare di avere edificato la nostra fede sulla roccia, pur non assumendo cibo, se poi nei nostri cuori covava il rancore. E lo stesso discorso riguardava la sobrietà, cioè la rinuncia a gustare i piaceri della tavola, se poi non avevamo alcuno scrupolo maldicendo, calunniando e mormorando. Oppure inorgoglirci spiritualmente pensando di avere raggiunto il traguardo perché magari biascicavamo tutto il giorno una serie interminabile di preghiere, senza dar peso alle parole cattive, arroganti e ingiuriose che la nostra bocca poteva rifilare per il resto della giornata. E mettere a tacere la coscienza mettendo mano al portafoglio per fare elemosina al mendicante di turno, senza provare un briciolo di dolcezza, di amore, di misericordia sincera. Fare finta di avere acquisito la costanza del perdono, ma in realtà giudicare e condannare senza appello pur sapendo che noi stessi eravamo colpevoli della stessa colpa.

In definitiva dovevamo riuscire ad operare senza spirito di rivalità o per vanagloria, ma al contrario, in tutta umiltà, dovevamo comprendere e trasmettere ad ogni fratello o sorella di considerare gli altri superiori a se stessi se non volevamo essere dei fantocci, dei fantasmi nebulosi della fede.

Nelle nostre riflessioni comprendemmo, noi per primi, che tanti fratelli e sorelle rifiutano di pensare alle grazie che Dio ha donato personalmente ad ognuno, perché temono di cadere nella superbia e nel vuoto compiacimento. San Tommaso d’Aquino disse che il mezzo per giungere all’amore di Dio è il pensiero dei suoi benefici, meglio li conosciamo più amiamo Dio. Niente può umiliarci di fronte alla misericordia di Dio quanto i suoi benefici e niente può umiliarci di fronte alla sua giustizia quanto i nostri peccati. Dobbiamo sempre tenere vivo quanto Lui ha fatto per noi e quello che noi facciamo contro di Lui. Perciò non dobbiamo temere che il conoscere i doni che ha posto in noi ci gratifichino; è sufficiente che abbiamo sempre presente questa verità, ciò che di buono c’è in noi non viene da noi. Non vale neanche la pena insuperbirci, anzi deve essere il contrario: una seria riflessione sui doni ricevuti ci rende umili, poiché la conoscenza genera riconoscenza.

Ma se tuttavia, coscienti di questi doni, ci lasciassimo sollecitare da Satana, pensiamo all’ingratitudine nostra: rammentiamo sinceramente i guai prodotti quando eravamo senza Dio, quando pensavamo di essere il centro attorno al quale tutto gravitava, scopriremmo all’istante che quanto di buono riusciamo a imbastire è a Lui dovuto in virtù della Sua grazia. Allora proveremmo gioia grande, felicità entusiasmante, perché l’amore che c’è in noi è solo per Suo merito, perché Lui ne è l’ispiratore. L’umiltà vera non finge di essere umile, è uno stato del cuore e dell’anima, a fatica dice parole di umiltà; perché suo intendimento è non solo nascondere le altre virtù, ma soprattutto vorrebbe riuscire a nascondere se stessa, se le fosse lecito mentire. Arrivammo alla conclusione, in quei giorni, che è meglio evitare di esprimere parole di umiltà, oppure se decidessimo di proferirle, le avremmo dette con profonda convinzione, sentitamente rispondenti al cuore, senza abbassare gli occhi, senza umiliare l’anima, e non giocare a fare gli ultimi se non intendessimo esserlo veramente.

Siamo riusciti nell’intento che ci eravamo proposti? Non sapremmo rispondere. Possiamo affermare che avere veramente fede, cioè l’essere devoti ed umili, esige l’amore di Dio, anzi non è altro che un vero amore di Dio; non un amore genericamente inteso.

Questo amore si chiama grazia in quanto abbellisce l’anima e porta la pace nel cuore modificandoci in esseri umani miti; ma richiama anche carità, poiché ci dona l’energia per agire bene, quando poi giunge a un certo livello di perfezione, allora ci dona la forza di procedere nel cammino e a operare con cura, e si tramuta chiamandosi fede totale e abbandono a Gesù Cristo: cioè lasciarsi trasformare dall’Amore.