Sergio e Elena

Parte terza

La notte precedente l’appuntamento, con l’uomo che potrebbe essere esistito, stentavo ad addormentarmi, comunque un poco alla volta mi appisolai reprimendo i sentimenti maligni che vorticavano nella mia mente. Tenevo stretta, tra le mie una mano di Elena che, forse rassicurata dal contatto, si era addormentata. Con quei pensieri, lentamente, pur con qualche sforzo sprofondai nelle braccia di Morfeo.. Sognai: io e la mia famiglia correvamo, in una splendida giornata luminosa, sulla superficie ondulata di un immenso prato. Eravamo sorridenti, allegri, felici di essere giovani, pieni di vita e voglia di vivere. Nondimeno, il cricchiare ritmico di un albero mormorava e sospirava nel mio cervello come se il sogno stesse trapassando nella realtà e poi…Mi destai bruscamente, e di colpo compresi cosa aveva turbato la mia visione.

La punta di un ramo dell’albero situato nel giardino pubblico sotto casa, graffiava il vetro della finestra sospinto dalla furia del vento. Controllai l’ora. L’orologio da polso segnava le sette del mattino. Un temporale aveva investito la città scatenandosi con la ferocia di un animale ferito ed impazzito. La pioggia scrosciava a torrenti lungo i vetri mentre i fulmini scoppiavano in boati violenti, in un crescendo sempre più furibondo. Mi precipitai in bagno e quando più tardi raggiunsi Elena in cucina riuscii a conservare una sembianza di calma esteriore che tranquillizzò anche lei, nonostante il turbamento meteorologico e l’approssimarsi dell’appuntamento con lo sconosciuto.

La portafinestra che si affacciava sul balcone lasciava intravedere i lampi lacerare il nuovo giorno e il colore d’ebano del cielo mentre i vetri scintillavano in una miriade di gocce d’acqua sospinte dal vento. Pareva non dovesse smettere ed io pensai, cogliendo anche il pensiero di Elena, che anche il tempo era inclemente con noi e quella sensazione di impotenza, aggiunta all’agonia della nostra sofferenza, deflagrò interiormente in una rabbia maggiore nei confronti del mondo. Non cessavo di domandarmi la causa di quanto ci stava accadendo senza riuscire a trovare una risposta.

E’ con questi stati d’animo che iniziammo la giornata. Elena all’ufficio e io un poco più tardi venni introdotto nell’abitazione di Clelia, una signora dai modi gentili che riuscì istantaneamente a mettermi a mio agio con quella sua maniera logorroica di conversare mentre mi conduceva nel soggiorno. Notai all’istante che era occupato da una decina di persone che chiacchieravano cordialmente e sembravano tutte amiche. Tra esse riconobbi Tecla la quale mi avvicinò e mi salutò con affetto abbracciandomi. Ero in uno stato incapace di riflettere. Un vulcano di sensazioni mi gravava nell’animo finché udii un uomo che stentoreamente disse: Avanti! Poco dopo stavamo seduti uno di fronte all’altro nella stanza da letto di Clelia.

Osservavo quell’uomo chiedendomi in quale modo potesse aiutarmi e in quei drammatici istanti mi accorsi delle sue mani fasciate. L’aspetto era robusto, la voce lievemente baritonale, ma nonostante ciò emanava dolcezza, bontà. Riuscì a chetarmi in men che non si dica, ancora prima di proferire una sillaba, era stata sufficiente la sua presenza. Volle vedere le foto di Elena e di Michele, poi parlò della malattia tiroidea di mia moglie (in seguito guarita in un incontro di preghiera carismatico), del mio disturbo al cuore di nostro figlio. Quindi mi chiese di esporgli l’intera faccenda con sincerità. Ero sgomento, tuttavia non mi posi nessun quesito nei confronti di quell’omone. Anzi, acconsentii alla richiesta senza alcuna reticenza, qualcosa o qualcuno mi suggerì di nutrire una cieca fiducia. Iniziai a narrargli l’intera storia, con relativa responsabilità dei funzionari piangendo.

Sembravo un torrente in piena, mentre l’omone annotava ogni mia parola su un quadernetto, scrivendo da destra a sinistra come le popolazioni medio orientali. Al termine dell’esposizione ero stremato ma rasserenato. Improvvisamente l’omone si alzò, si collocò alle mie spalle e mi impose quelle sue grosse mani fasciate sulla testa, recitando una nenia o una preghiera, esprimendosi in una lingua a me sconosciuta. Uno strano e quanto mai misterioso ed inspiegabile calore, accompagnato da un formicolio, attraversò ogni fibra del mio essere. Si trattò di una sensazione stupefacente. Avvertii in maniera concreta, in quegli istanti estasianti, di appartenere a una energia misteriosa, soprannaturale.

Prima di congedarmi mi disse di riportare la serenità nella mia famiglia, di mettermi nelle mani di nostro Signore Gesù Cristo e di recarmi a messa per i prossimi dieci giorni. Più tardi, nella piazzetta antistante l’abitazione in cui ero stato ospite, il mio amico mi chiese come mi sentissi. Risposi che stavo molto bene e che percepivo l’irrefrenabile desiderio di ridere, di cantare e che sentivo rinascere interiormente la fiducia sospinta da una nuova forza a me sconosciuta. Nel frattempo le cateratte del cielo avevano cessato di rovesciare acqua sulla terra. Avevo necessità di camminare e ritornai a casa a piedi. Raccontai dell’incontro a Elena. Lei non espresse nessun commento, anche se sapevo che stava soffrendo le pene dell’inferno, tuttavia Elena per non pensare e per reagire si era tuffata totalmente nel lavoro e poi anche perché col tempo era diventata refrattaria a certe fenomeni.

Il giorno seguente, nel pomeriggio, mi incamminai alla ricerca di una chiesa dove venisse celebrata una Messa. Capitai, e non per caso come credevo a quel tempo, alla chiesetta che ricorda Santa Rita. La particolarità della chiesa è quella che l’entrata è sempre aperta, dal di fuori si vede solo buio. Ero lì, volevo procedere senza esserne capace. L’entrata era come se mi interrogasse e mi sfidasse ad entrare. Entrai, allora nel tempio piuttosto timoroso e trovai posto sul fondo. Ero impacciato come un estraneo, quasi temessi di disturbare la quiete del luogo. Quattro o cinque vecchiette situate nel primo banco era tutto ciò che presentava l’interno. Nel momento in cui il sacerdote iniziò la celebrazione del rito, cominciai a sudare copiosamente. Stavo male, ero preda di una vertigine, una sensazione di malessere generale mi colse. Non coglievo nel suo significato le parole del celebrante.

In compenso però udii molto chiaramente una voce che mi intimava di abbandonare il luogo sacro, che non dovevo trattenermi lì, e che tutto ciò a cui assistevo era una frottola, una farsa per i beoti. Mi voltai a destra e a sinistra, impaurito. Accanto a me non c’era nessuno. Controllai persino il confessionale onde vedere se ci fosse qualcuno dentro. Niente, era vuoto. Allora la tentazione di dare ascolto alla voce imperiosa fu grande, ma l’immagine dell’omone che avevo conosciuto ebbe il sopravvento sulla voce tentatrice. Fugai ogni timore e restai al mio posto. Certo, non fu facile. All’elevazione chiesi aiuto a Gesù Cristo. Lo supplicai di avere pietà e misericordia di me e della mia famiglia. La malefica voce si zittì e piansi dando libero sfogo ai sentimenti. Il mio povero cuore era in tumulto. Ero scosso e ignoravo, io che dell’intelligenza avevo fatto un valore, quale ne fosse la causa. Ma non era ancora finita. Concluso il rito, guadagnai la sacrestia e chiesi al prete che desideravo confessarmi. Lui mi rispose in un modo che mi mise subito in crisi. “Ti aspettavo da tanto tempo”.