Sergio e Elena

Il dolore

Tutto quanto accaduto in quegli anni, vale a dire le fonti del dolore, della gioia, dell’amore, dell’odio, della vendetta, della misericordia, del perdono ci servì perché cambiassimo di mente, perché interpretassimo, vivessimo e diventassimo figli del Padre per essere in grado di parlare del Regno che è in ognuno di noi.

Gesù nel discorso della montagna, tra le altre cose, aveva detto: “Beati gli afflitti perché saranno consolati”.

Solo in quei giorni potei comprendere il valore di questa enunciazione nella prospettiva del Regno dei Cieli (la profezia di suor Giulia si era realizzata nei quattro anni e mezzo di malattia e assistenza a Elena). Gesù non intendeva dichiarare beate in sé e per sé quelle condizioni sfavorevoli della vita terrena, ma intendeva piuttosto insegnare agli esseri umani di ogni tempo a interpretarle e a viverle.

La sofferenza, la tribolazione, il dolore non sono mai valori in se stessi, ci mancherebbe! Tuttavia, sono fatti inderogabili dell’esistenza coi quali prima o poi ci scontriamo, ma Gesù Cristo, annunciandone la beatitudine, ci dona la forza e la chiave per superarle con l’atteggiamento giusto.

Nel progetto di salvezza di Dio ogni sofferenza diventa un fatto positivo, che non opprime più, ma ci aiuta a crescere perché non è un male che dobbiamo fuggire, non potremmo neanche volendolo, ma è una condizione che bisogna trasfigurare in virtù della fede, proprio come ha fatto Elena (questo è il suo grande insegnamento).

Infatti Gesù quando proclama beati gli afflitti si riferisce alla situazione drammatica terrena, perché i motivi della sofferenza sono molteplici. Dobbiamo renderci conto, una volta per tutte, che la vita terrena è segnata dal dolore a causa del peccato originale. Ecco allora che Gesù interviene facendoci rifiutare l’atteggiamento passivo, arrabbiato, fatalista di chi si lascia andare ad una inerte rassegnazione o ad uno stoicismo che indurisce il cuore.

Ma ci sono alcune teorie che per rasserenare le menti affermano che un sasso non prova dolore e non gode dal momento che è inanimato, al contrario l’essere umano che gode sa che deve pagare questo prezzo con la sofferenza della malattia e della morte. Così la nostra società fa coincidere il progresso con lo star bene, col divertimento, quindi col godere ad ogni costo. Nondimeno la cultura dello star bene che è diventata idolatria, puntualmente delude l’esistenza al primo intoppo creando il pessimismo.

Il grossolano errore dell’essere umano sta qui, cioè nel fatto di avere assolutizzato lo star bene, capovolgendo l’ordine provvidenziale di Dio, scatenando i più sfrenati egoismi, ma anche le proprie delusioni. E’ in siffatta concezione dell’esistenza che le menti più deboli o obnubilate seguono questo genere di cultura. Il fatto che poi non riescano a realizzare quanto si sono prefissati non conta. L’importante è averci provato. Davanti agli inevitabili fallimenti, le difficoltà, le fatiche, i dolori, le sofferenze, le incompiutezze della vita, si scatenano reazioni di ribellione e di rifiuto.

Ma tutti costoro non possono definirsi gli afflitti, costoro sono i gaudenti, quelli che vogliono godere e che fanno del godere la vita il primo principio della schiavitù della carne.

Al contrario gli afflitti evangelici, invece sono coloro che, senza fare del godere né del patire un principio idolatrico, accettano in virtù della fede in Gesù Cristo la vita con fiducia e speranza, sapendo che attraverso questo itinerario provvidenziale sono in cammino verso il Regno di Dio. Quando ci si rende conto che il peccato e la provvisorietà dell’esistenza rappresentano il groviglio delle tribolazioni e delle sofferenze, ci si avvicina al Regno. E’ a questo punto che acquisiamo una visione nuova del dolore. Non veniamo più vincolati dal presente, ma andiamo oltre il presente, sia nella visione della vita, sia nei desideri e negli ideali senza depressioni per il futuro. Al contrario, coloro che apparentemente sono meno afflitti, i gaudenti, i potenti, che sono riusciti ad eliminare in buona parte alcune tribolazioni terrene, si trovano nelle condizioni psicologiche e spirituali di temere l’oscurità del futuro e sono colti da vera paura.

Elena pregava ogni giorno il salmo 62. Ogni volta che esclamava “O Dio, tu sei il mio Dio“, si prefigurava colui con il quale iniziava una relazione personale, l’impegno cioè di un’intimità profonda. Le prime volte, inizialmente, l’espressione citata pareva qualcosa di vago, ma nel momento in cui la preghiera la interiorizzava, s’intensificava il senso d’appartenenza e d’alleanza a Dio. Ciò ha comportato, come conseguenza, l’acquisizione di un sentimento di sicurezza e di fiducia, nella consapevolezza di essere amata personalmente dal Signore. Ed è a questo punto che l’esigenza iniziale di Elena è riconosciuta come l’ardente desiderio di stare unita a Dio. A Elena piaceva chiamarlo “A te si stringe l’anima mia“; perché tutto ciò che è dell’uomo, anima, spirito e corpo, è assetato del Signore. Per Elena si è trattato di una affermazione visiva, intima, a metà del canto d’Osanna, della supplica di chi confida nell’unione amorevole col Signore che è vera fonte di felicità, pur tra le vicende di lotte e dei mali della vita terrena. Al contrario, al solo pensiero di essere privata dell’unione divina, rimaneva sconsolata, avvertendo un senso di vuoto e d’intollerabile tristezza.

E’ doverosa una grande grazia poter affermare con sincerità che è Dio, e Dio soltanto, che si desidera. Questo dimostra che la vita è fermamente orientata verso il suo autentico e ultimo fine.
Nei primi due versetti lei vi trovava la supplica individuale; nei seguenti quattro, esprimeva fiducia ed azione di grazie, proprio come negli stadi della preghiera di lode (adorazione, lode e azione di grazie). Infine gli ultimi due rappresentavano la risposta del Signore, anche se a dichiararlo era lei stessa…In questa preghiera, un monologo in pratica, Elena vi scopriva speranza, fiducia, grazia espressi affettuosamente al Signore, proprio come fa un bambino col padre o la madre. Per lei ogni giorno rappresentava un momento di gioia perché, come il pio israelita, provava grande felicità nello stare presso il Tabernacolo ed era sotto la potente e soave protezione del Signore, similmente quale e quanta dovrebbe essere quella del cristiano che vive vicino alla sua chiesa , dove Gesù è presente sotto i veli Eucaristici. Quali e quanti istanti d’intimità e di felicità, provava mentre parlava col Signore, ed era colma dalla sua presenza. Cioè dalla presa di coscienza del bisogno di salvezza, la consapevolezza che Gesù era sempre con lei come aveva detto, raggiungendo la comunione con Dio, senza scordare che era sempre opera sua, nel senso che colui che prega si limita a bussare alla sua porta. Non solo, Elena “soffriva di una vera fame” del Signore, perché la sua presenza era diventata una necessità fisiologica, dal momento che lei aveva piena e totale fiducia di vedere esaudita la preghiera di supplica. Quante volte nel silenzio della notte, nel segreto della meditazione, Elena parlava unita a Dio come se si trovasse ammessa alla parte più sacra del suo essere, avvolta dalla presenza di Dio che sembrava farle ardere il cuore di una gioia indescrivibile che, nonostante la sofferenza della malattia, avrebbe desiderato gridare al mondo intero.

Solo i mistici e coloro che tutto confidano in Dio sanno unire gioia e sofferenza, tribolazione e pace, perché il centro della loro esistenza si trova in Dio. Da lui attingono felicità, pace e la forza di fronteggiare la sofferenza (la beatitudine). La pena più profonda dell’anima umana è il desiderio ardente di Dio, dell’infinito, della fonte ultima della vita e dell’amore. Il dolore intenso e profondo è avvertito da ognuno, più o meno consapevolmente; e la vita di chiunque è indirizzata verso il bene o il male secondo come reagiscono alla sofferenza (sono le due scelte di cui parlava Papa Giovanni XXIII). Da Elena ho imparato che purtroppo oggi, nella società del consumismo, molte, troppe persone, anche tra coloro che si professano cristiani, non la identificano e anzi soffocano la sete d’infinito, adeguandosi ai piaceri materiali o alla ricerca del successo, del potere, o alla degenerazione di sensazioni insolite che conducono inevitabilmente alla violenza; tuttavia, nulla di tutto ciò soddisfa e riempie il vuoto interiore, quella sete del trascendente che l’uomo non sa placare.
Al contrario, quando l’orante, come ha fatto Elena, si abbandona a Dio in preghiera, lasciamo Dio libero di manifestare in modo personale il suo amore, la sua attenzione, la sua protezione e,allora, inizia a spegnersi quella sete comprendendo che la vita può essere donata in cambio di un unico istante di quel puro e santo amore.

Elena Clemi con Sergio, il giorno precedente il ricovero nell’hospice dell’ospedale di Vaio. La foto riflette tutto l’orrore della malattia, sopportata con fede e speranza e tanto amore. Porta la bandana perché non ha più capelli, gli occhiali scuri perché la luce non riesce a sopportarla, limitata nel linguaggio e nei movimenti, è gonfia a causa delle decine e decine di iniezioni di cortisone, delle 50 chemioterapie e delle 20 radioterapie. La sera stessa ha avuto la prima crisi, quindi nei cinque giorni successivi è stato un lento addormentarsi, fino alla mattina dell’11 giugno, alle ore 7,45, quando è spirata tra il profumo di lavanda di rosa.

Oggi Elena Clemi è in paradiso è questa è la nostra gioia anche se sentiamo tantissimo la sua mancanza fisica..

Desidero rammentare le tre parole che sono incise nell’anima mia:

-Anno 2008, dopo l’ennesimo esame invasivo e doloroso, piangendo e stringendomi una mano mi sussurrò che le dispiaceva farmi soffrire!

-Novembre 2011, dopo speranze e delusioni, nel corridoio che conduce ai laboratori del reparto di radiologia, ad un certo punto si fermò e mi disse: E’ finita!

-La terza e ultima parola, nel viale primo maggio. Ero riuscito a portarla fuori per una breve passeggiata. Ad un certo punto compresi che faceva troppa fatica. Mi fermai l’abbracciai e la baciai e le dissi: Lo sai che ti voglio bene? Lo so, – mi rispose a fatica – me lo hai dimostrato ogni giorno”. Aveva compiuto uno sforzo notevole tutto d’un fiato perché non aveva più la facoltà della parola.

A chi leggerà questi ricordi confidiamo che comprendano cosa significa amare. Come Gesù ci ama. Come Gesù rinnova tutta la vita. Da parte mia posso solo esprimere il mio grazie a Gesù per tutto quanto ci ha donato durante l’arco di 51 anni di vita in comune. Lode e gloria a te nei secoli eterni, Dio della nostra salvezza.

E a te, amore mio, il mio arrivederci, mia sposa per sempre.

Sergio.

Sono convinto che se avesse potuto parlare fino alla fine mi avrebbe sussurrato queste parole di Sant’Agostino: Sergio, amore di tutta una vita, mio sposo:

“La morte non è niente.

Sono solamente passata dall’altra parte:

è come se fossi nascosta nella stanza accanto.

Io sono sempre io e tu sei sempre tu.

Quello che eravamo prima l’una per l’altro lo siamo ancora.

…Chiamami con il nome che mi hai sempre dato, che ti è familiare;

parlami nello stesso modo affettuoso che hai sempre usato.

Non cambiare tono di voce, non assumere un’aria solenne o triste.

Continua a ridere di quello che ci faceva ridere,

di quelle piccole cose che tanto ci piacevano

quando eravamo insieme.

Prega, sorridi, pensami!

Il mio nome sia sempre la parola familiare di prima:

pronuncialo senza la minima traccia d’ombra di tristezza.

La nostra vita conserva tutto il significato che ha sempre avuto:

è la stessa di prima, c’è una continuità che non si spezza.

Perché dovrei essere fuori dai tuoi pensieri e dalla tua mente,

solo perché sono fuori dalla tua vista?

Non sono lontana, sono dall’altra parte, proprio dietro l’angolo.

Rassicurati, va tutto bene.

Ritroverai il mio cuore,

ne ritroverai la tenerezza purificata.

Asciuga le tue lacrime e non piangere, se mi ami:

il tuo sorriso è la mia pace”

Il più grande segno della misericordia di Dio è stato quello di averci chiamati, perdonati, condotti sulla Via del Regno, donandoci la sua grazia e il suo amore.

Sergio, marito di Elena.

Nell’anno 2012 è iniziata una nuova vita tra angosce, tormenti e sofferenza nella solitudine.

Ma questa è un’altra storia che non so quando sarò in grado si scrivere.