Potenza e dolcezza di Dio

Lectio Divina – 34

ISAIA

Cap. 40, 10-17

“Potenza e dolcezza di Dio”

Introductio.

Lodiamo Dio Padre, nostro Signore, che ci ha chiamato ad ascoltare la sua Parola di vita. Preghiamo Maria Santissima che ci aiuti a ricevere lo Spirito Santo.

Vieni, Spirito Santo, nei nostri cuori e accendi
In essi il fuoco del tuo amore, Vieni, Spirito Santo,
e donaci per intercessione di Maria che ha saputo
contemplare, raccogliere gli eventi della vita di
Cristo e farne memoria operosa, la grazia di
Leggere e rileggere le Scritture per farne anche
In noi memoria viva e operosa.
Donaci, Spirito Santo, di lasciarci nutrire da questi
Eventi e di riesprimerli nella nostra vita.
E donaci, Ti preghiamo, una grazia ancora più
Grande: quella di cogliere l’opera di Dio nella
Chiesa visibile e operante nel mondo. Amen.

Lectio.

Non possiamo assegnare un nome e un volto al profeta cui dobbiamo i capp. 40-55 del Libro d’Isaia. Lo chiamiamo Deutero (=secondo) Isaia, ma con questo non diciamo nulla di lui. Con ogni probabilità si tratta di un discepolo del profeta stesso, proveniente dalla sua scuola. Anche nel modo di scrivere si capisce poco di lui: parrebbe un pio israelita che dà all’annuncio il tono dell’inno sacro, riprendendo un tema che è tipico del Deuteronomio: l’infedeltà genera maledizione, ma la salvezza di Dio converte la maledizione in benedizione; anzi, la benedizione e il bene sopravanzano notevolmente la maledizione e la sofferenza.

Partendo quindi dal ricordo dell’Esodo dall’Egitto e delle promesse che gli sono legate, il profeta rammenta, di fede in fede, che il Signore, superando ogni attesa nel bene, invita l’uomo a tornare dall’esilio verso di lui, senza pensare al passato: la salvezza che ora il Signore offre non ha precedenti nella storia del popolo. In tutti questi capitoli si allude più volte alla caduta di babilonia e a Ciro, re di Persia, che ne fu la causa, fanno pensare che il profeta sia vissuto alla fine dell’esilio.

In questo periodo ci sono cinque date da tenere presente: anno 598, prima ondata di deportati da parte di Nabucodonosor; anno 587, Sedecia re di Gerusalemme, è sconfitto, causando la fine del regno di Giuda, Altra deportazione con i profeti Geremia che rimane tra le rovine di Gerusalemme, mentre Ezechiele segue la sorte degli israeliani; anno 555, Ciro diventa re di Persia e inizia con successo una politica di forza, tanto che nell’anno 539 s’impadronisce di babilonia e nel 538 emana l’editto che permette agli Ebrei di tornare in patria.

Nel rapporto “Dio-popolo” visto come patto tra un re potente e il suo vassallo, stipulato per pura condiscendenza del re potente, l’inadempienza alle clausole del trattato (nel nostro caso le “Dieci Parole” di Es. 20, 1-21; Deut. 28, 1-14) conduce alla tremenda punizione, e ad un’altrettanta accoglienza amorevole. Ecco perché il profeta è così tenace nell’insistere sulla novità di quanto il Signore va facendo rispetto al passato, ed è soprattutto pronto a far coincidere due fatti in sé differenti: creazione e liberazione. Per lui, infatti, il Signore è creatore del mondo e creatore di Israele, popolo che egli sceglie e riscatta, chiamandolo alla vita nella sua realtà di creatura dipendente da Dio, proprio perché Dio lo ama, lo sceglie, lo libera e in questo lo plasma. Una lettura attenta fa cogliere anche che questa liberazione è considerata esemplare dal profeta, non solo nel senso che supera ogni atto salvifico di Dio nel passato, ma anche nel senso che essa è come il prototipo di ogni intervento in futuro. Vale a dire che creazione ed elezione sono poste sullo stesso piano: il popolo la cui storia pareva finita con l’esecuzione della minaccia dell’esilio, è ora segno della novità che il Signore porta nella storia e che, oltre ad essere segno dell’amore fedele del Signore per il suo popolo, è segno di novità per tutti i popoli attraverso Israele stesso.

Leggiamo il Canto, tutti insieme, attentamente.

Meditatio.

Nei vv. 10-12, il profeta, con l’immaginazione, contempla la liberazione come un fatto compiuto. Israele avanza sulla via del ritorno, come un gregge di pecore strette intorno al pastore. Nei vv. 12-14, si susseguono tre domande retoriche: “Chi ha misurato con il cavo della mano le acque del mare?” – “chi ha misurato la terra con il moggio?” – “chi ha pesato le montagne con la stadera?” – In conclusione, chi è stato il consigliere di Dio? La risposta è evidente: nessuno!

L’uomo non dispone di alcun mezzo per “valutare sotto tutti gli aspetti” Dio e la sua creazione. Non esiste una stadera per le montagne, non esiste un moggio per misurare il cosmo, non esiste mano a misura d’oceano. Le esplorazioni descritte sono pretese irrealizzabili e assurde. La tecnica moderna ha fatto immensi progressi nella conoscenza dell’universo, ma con altri mezzi. In nessun caso possiamo sperare di “comprendere” Dio.

Secondo i vv. 15-16, le nazioni, in un universo miniaturizzato a misura umana, si riducono alla trascurabile quantità di una goccia d’acqua sull’orlo di un secchio, di un granello di polvere su una bilancia. Il profeta si ripete con altre immagini.

Davanti a Dio noi siamo l’imponderabile. Non contiamo assolutamente nulla…per lo meno se tentiamo di metterci con Dio in un rapporto di forze. Le cose cambiano del tutto se adottiamo il solo atteggiamento opportuno: umiltà e amore. Allora Dio cammina con noi; se è necessario ci porta sulle braccia (v.11). Ai suoi occhi abbiamo un’importanza infinita.

In breve, noi valiamo il prezzo dell’amore che egli ha per noi. Il v. 16 lo conferma. Il culto più sfarzoso che si può immaginare non riesce a costringere Dio. Non basterebbero a tal fine le foreste e gli animali di un paese intero bruciati in sacrificio.

Tra Dio e noi c’è una sola via di comunicazione, quella che egli stesso prende per venire fino a noi: “Ecco, il Signore viene con potenza” (v.10).

Contemplatio

Tu, o Dio, sei il nostro Creatore, il Creatore dell’universo; anche se noi ricerchiamo ed indaghiamo le leggi della vita e della natura, esse eccedono ogni comprensione umana. Come non avesti suggeritori nella creazione, così non conosci rivali nella storia, dove attuasti il Tuo disegno di salvezza; le stesse nazioni, se commiserate alla Tua grandezza, sono insignificanti “come il pulviscolo della bilancia”.

Eppure l’uomo, i grandi della Terra pensano di essere gli autori del proprio ed altrui destino. O mio Dio, fa che ogni essere umano prenda coscienza del proprio limite di fronte alla tua infinita grandezza e alla Tua sovrana onnipotenza. Quale abisso fra l’uomo e Te! Noi, pur essendo fragili, limitati, simili ad uno stelo di erba che rinsecchisce la sera, ci affanniamo continuamente per fare, ideare, indagare, affermare le nostre possibilità; osiamo anche interloquire con Te, chiederti conto di tanti perché.

Tu invece ci sorprendi sempre: non opprimi l’uomo con la Tua onnipotenza, ma gli dimostri il Tuo infinito amore; Tu Onnipotente hai inviato tuo Figlio fra noi: “Cristo pur essendo di natura divina…spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e diventò simile agli uomini” (Fil.2.6-7).

Quel Dio infinito ed onnipotente si è fatto piccolo e limitato e, come dice S. Girolamo, contemplandolo nella stalla di Betlemme: “Lui che in un pugno racchiude l’universo, eccotelo racchiuso in una mangiatoia”.

Conclusio.

Nei tempi antichi il Signore veniva con potenza e braccio forte; nel mistero della redenzione egli viene nell’umiltà e nella mansuetudine; Egli è il Buon Pastore, che ha dato la vita per le sue pecore, cerca la pecora smarrita sui monti e sui colli, sui quali si offrivano sacrifici agli idoli. Trovatala, se la pone sulle medesime spalle, che porteranno il legno della croce, e la riporta “alla vita dell’eternità”. (S.Gregorio N.)

Padre Santo, oceano sempre inesplorato che oltrepassa la nostra conoscenza, solo Tu puoi illuminare noi, che molto spesso facciamo affidamento più sulla intelligenza che non sull’amore.

Santissima Trinità grazie per questa ora di preghiera.

Sia lodato sempre il Tuo nome.