Lo Spirito del Signore è su di me

Lectio Divina – 32

ISAIA

“Lo spirito del Signore è su di me”

61, 1-11

Introductio.

Lodiamo Dio Padre, nostro Signore, che ci ha chiamato ad ascoltare nuovamente la sua Parola di vita. Preghiamo Maria santissima che ci aiuti a ricevere lo Spirito Santo.

Vieni, Spirito Santo, nei nostri cuori e accendi
In essi il fuoco del tuo amore. Vieni, Spirito Santo,
e donaci per intercessione di Maria che ha saputo
contemplare, raccogliere gli eventi della vita di
Cristo e farne memoria operosa, la grazia di
Leggere e rileggere le Scritture per farne anche
In noi memoria viva e operosa.
Donaci, Spirito Santo, di lasciarci nutrire da questi
Eventi e di riesprimerli nella nostra vita.
E donaci, Ti preghiamo, una grazia ancora più
Grande: quella di cogliere l’opera di Dio nella
Chiesa visibile e operante nel mondo.

Lectio.

I capitoli 56-66 del Libro di Isaia sono per noi ancora oggi un gran mistero per quanto riguarda il loro autore e la data di composizione. Ci troviamo di fronte, infatti, ad una serie di testi di tempi diversi che difficilmente si possono attribuire ad una sola persona, ma piuttosto provengono da allievi del DeuteroIsaia attivi fino al tempo di Zaccaria.

Senza affrontare un’analisi particolareggiata, vediamo che cosa succede alla fine dell’esilio, in pratica al rientro in patria degli esuli.

Abbiamo visto che nel 538 era uscito l’editto di Ciro. Con ogni probabilità il movimento di ritorno non ebbe inizio immediato; ad ogni modo i Libri di Esdra e Neemia ci aiutano a ricostruire le complesse vicende del rientro e della ricostruzione.

Dal 520 al 515 il popolo è impegnato nella ricostruzione del Tempio. Aggeo e Zaccaria ci descrivono come questa opera procedesse tra diversi contrasti e come fosse un po’ il banco di prova della fede del popolo stesso.

Questi sono i limiti cronologici nei quali si può far entrare il TritoIsaia, almeno per il nucleo centrale dei pochi capitoli che vanno sotto il suo nome.

Non è difficile intravedere che si rivolge ad una comunità insicura, che ha bisogno, di volta in volta, di essere consolata o richiamata alla giustizia e alla fedeltà attraverso il giudizio, unendo insieme temi propri della profezia preesilica, del ritorno e del tempo della restaurazione.

La descrizione della struttura resta abbastanza difficile e rischia di essere frammentata. Ci limitiamo perciò ad indicare il cantico e a meditarlo.

Leggiamo il cantico, tutti insieme, con attenzione.

Meditatio.

Il cantico del capitolo 61 occupa una posizione centrale nell’economia del TritoIsaia: sia perché racconta la vocazione del profeta, sia perché contiene tutte le parole chiave del suo messaggio, dislocate nei capp.56-66.

Possiamo individuare i seguenti momenti:

vv. 1-3 vocazione del profeta e primo annuncio: consolare gli afflitti;

vv. 3b-9 secondo annuncio del profeta: restaurazione ed alleanza eterna;

vv. 10-11 risposta di Gerusalemme.

I vv. 1-3 hanno il tono dell’autobiografia. Il profeta si presenta come i suoi predecessori e maestri, offrendo le sue credenziali in un modo però originale.

Se ripensiamo per un istante agli altri grandi racconti di vocazione, vi si afferma che la parola del Signore si è fatta incontro a qualcuno. Qui invece si parla di spirito che sta sopra il profeta come per il Messia di Is. 11,2 e d’unzione.

Nell’A.T. l’unzione è tuttavia associata al re e al sacerdote, non al carisma “messianico”, legato cioè all’unzione, a differenza di quello profetico, ha carattere permanente.

Il TritoIsaia si presenta dunque con un volto diverso da quello degli altri profeti, perché investito di un’aureola che tocca, in prima istanza, tutto Israele, popolo di re e sacerdoti (v.6), e mediato nei suoi confronti dalla figura del “servo” del Signore. In coerenza con questo, non pronuncia giudizi e/0 condanne, ma reca un annuncio di salvezza e consolazione.

I vv. 1b-2 proclamano, infatti, una “lieta notizia”. Il termine ebraico besora ricorre anche in altre situazioni, riferito all’annuncio di una vittoria militare; qui diventa un termine tecnico per indicare la liberazione finale di Gerusalemme e la consolazione definitiva del popolo.

Del resto al v.3: “Per dare agli afflitti di Sion, per dare ad essi una corona al posto di cenere; un olio di letizia a posto dell’afflizione, una lode al posto di uno spirito mesto…” . Compare qui l’aggettivo “mesto” che in Isaia 42,3 individua lo stoppino “debole”: siamo allora di fronte ad un totale rovesciamento di situazione che ci aiuta a capire come mai questi versetti siano posti in bocca a Gesù nella sinagoga di Nazareth e, in certo modo, siano anche la filigrana al Magnificat. Il rovesciamento che il profeta prospetta è quello che starà al centro dell’annuncio neotestamentario.

Ma in che cosa consiste concretamente? Gerusalemme non sarà più giudicata né corretta, ma confortata: non tornerà soltanto la condizione prospera precedente l’esilio, restaurando le rovine di un tempo (v. 4), ma riavrà il doppio di quanto possedeva. Qui ci scontriamo con la difficoltà di tradurre il v. 7, grammaticalmente abbastanza intricato. Penso che il v. 8, ce ne dia la soluzione: Dio aggiungerà una doppia ricompensa, in altre parole un’alleanza nuova e inviolabile. Il risarcimento sarà pienamente maggiorato, non solo perché doppio per la quantità, ma soprattutto perché senza limiti quanto a durata.

“In luogo di vergogna e rossore, essi avranno una doppia porzione; possederanno il doppio del paese e godranno di gioia eterna”.

L’anno di misericordia annunciato al v.2, diventa un tempo eterno, che Gesù assume, nella sinagoga di Nazareth, saltando un passaggio interessante: l’anno di misericordia, infatti, era anche il “giorno della vendetta” degli oppressori di Israele. Il profeta si era già preoccupato di attenuare questo aspetto di resa dei conti con lo scarto tra “anno” e “giorno”. Gesù invece non lo cita addirittura, l’accento lo pone sull’anno di misericordia nel quale tutto e tutti sono riaccolti.

Al v.8 non parla più il profeta, ma il Signore in prima persona, che si autopresenta con quei titoli che garantiscono e avvalorano le promesse appena annunciate. Egli parla esplicitamente di un’alleanza perenne, ossia un nuovo sistema di rapporti, sigillato dallo Spirito, e capace di rinnovare le relazioni con le nazioni (v.9).

“Io gioisco, gioisco nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio perché mi ha rivestito di vesti di salvezza, in un manto di giustizia mi ha avvolto; come uno sposo porta sacerdotalmente la tiara e come una sposa dei suoi gioielli si adorna”.

Risulta evidente una nuova dimensione anche del simbolismo sponsale che compare spesso nei profeti per evocare l’alleanza. Gerusalemme erompe, infatti, in un grido di giubilo e di ringraziamento (come non rammentare il Magnificat?) celebrando come evento nuziale la propria ricostruzione e il ritorno del Signore nel suo Tempio. In altre parole un’alleanza con un Signore fedele e di lignaggio certamente più alto di quello della sposa. La quale però ha un suo dono proprio: è una sposa feconda, come dimostra appunto il v.11.

Rileggiamo il cantico in silenzio, attenti ai suggerimenti dello Spirito Santo.

Contemplatio.

LO Spirito del signore riposa su uomini predestinati a testimoniare la vera salvezza, sul bambino Messia (Is.11,2) sul Servo (Is.42,1); Egli anima anche un profeta, testimone degli anni laboriosi del ritorno dall’esilio babilonese, che porta un messaggio di consolazione e d’incoraggiamento: Dio è vicino ai reietti sociali, a coloro che hanno come unica sicurezza non il potere politico o le risorse economiche, ma l’abbandono fidente del Signore. O mio Dio, questo per noi esseri umani, che ricerchiamo sempre il possesso di risorse, di potere, che ricerchiamo l’apparire, l’autoaffermazione, è assai sconcertante; la salvezza si compie diversamente da quanto l’immaginano i nostri calcoli; è una realtà più interiore, più spirituale, più esigente. I rimpatriati di allora non sono ricchi, non hanno più nulla, ma nella loro miseria materiale e nella loro povertà morale sono i portatori della salvezza, i veri sacerdoti del Signore. Dio li ama, sono i veri depositari della promessa divina fatta sul Sinai; Dio li rende “querce di giustizia”, capaci di ricostruire tutte le distruzioni che furono simbolo di un’invasione greve e devastante. Il profeta percepisce già in sé i ben3efici di quella salvezza e di quella giustizia, che Dio sta donando ai reduci da babilonia. Ma quello, o mio Dio, che più c’incanta è che Gesù, il nostro Maestro, nella sinagoga di Nazareth, commenta il testo profetico con le parole: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete udito con le vostre orecchie” (Lc.4,21). Tutto ciò che il profeta ha detto di sé e della sua missione viene accolto da Gesù come profezia sulla propria persona e sulla missione che il Padre gli ha affidato.

Conclusio.

Nella sinagoga di Nazareth Gesù apre il libro di Isaia e legge, certo non a caso, il passo che riguarda la sua missione: “LO Spirito del Signore è sopra di me: per questo mi ha consacrato con l’unzione, mi ha mandato ad annunciare ai poveri la buona novella” (Lc.4,18). Soltanto lui può leggere in prima persona, applicandole a sé, la profezia che finora è stata letta con l’animo proteso verso il misterioso personaggio annunciato. Non è l’Evangelista, che fa questo accostamento, ma Cristo stesso; Egli, oggetto della profezia, è presente in persona, ripieno di Spirito Santo, venuto ad annunciare ai poveri, ai piccoli, agli umili la salvezza ed il tempo di grazia continuato, che durerà fino a “quando consegnerà il Regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potenza e forza. E’ necessario, infatti, che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte” (1 Cor. 15,24-28).

Grazie, Padre, per questa ora di preghiera.

Sia glorificato ora e sempre il tuo Nome.

Amen.