Salmo 136

Cantico di Sion

Presentazione

Il salmo 136, una delle migliori pagine poetiche di tutte le letterature, attanaglia l’anima per la incandescente drammaticità e per la forza lirica con cui, con un realismo scevro da qualsiasi indulgenza retorica, le più disparate passioni vengono espresse con sincerità sconcertante.

Sembrerebbe impossibile che sentimenti così contrastanti potessero albergare contemporaneamente nello stesso cuore, e che nel volgere di pochi versetti le corde di una medesima cetra dovessero vibrare per una così tenera e accorata mestizia e per la fierezza indomita di un odio spietato.

Il salmista, probabilmente un levita da poco rientrato dalla deportazione babilonese e riammesso al servizio del tempio, rammenta e rivive nella mente le tristi giornate della recente umiliazione dei suoi connazionali. Quei loro sacri canti di Sion, gelosa e preziosa eredità della fede dei padri, che essi nemmeno osavano canticchiare a voce sommessa quando si radunavano a piangere sulle rive del fiume straniero (questi raduni hanno ispirato il “Va pensiero…” dell’opera lirica del Nabucco), vi fu chi osò chiederli cinicamente a titolo di spettacolo folkloristico, per divertire “coloro che li avevano deportati”. Lo scherno crudele li aveva sferzati nelle più intime fibre dell’anima…Il solo ricordo fa ribollire il sangue del salmista che, rivivendo la fierezza con cui allora, al solo pensiero di Gerusalemme, si rifiutarono sdegnosamente, rinnova solenne giuramento di fedeltà verso la città santa, posta “al di sopra di ogni mia gioia”.

E a questo punto, per un istante, si riaffaccia alla memoria la figura dell’oppressore: quanto basta perché, nel clima rovente e passionale della rievocazione, la dinamica del risentimento e della rivalsa si scateni virulenta negli ultimi versetti, saturi di vendetta e di odio.

Commento

Le immagini dei vv.1-2 esprimono la prostrazione morale degli esiliati. Seduti in riva al fiume, piangono. Le loro lacrime scorrono inesauribili come l’acqua che, ai loro piedi, instancabilmente passa e si perde. Sion è ormai per loro soltanto un ricordo assillante e lancinante. Gli strumenti musicali sono appesi inerti ai salici circostanti.

I vincitori e oppressori si permettono un invito all’allegrezza – non possiamo stabilire se per curiosità e per ironia (personalmente si tratta solo di puro sadismo) -: “Cantateci i canti di Sion!” (v.3). La risposta tradisce una fede offesa. I “canti di Sion” sono in realtà i “canti del Signore”. E’ impensabile che la parola di Dio ( v.4) divenga materia di spettacolo: il culto non ammette di essere degradato in teatro. Se i deportati cantassero, farebbero del Signore una curiosità esotica, un esiliato come loro!…

Al v.5, il poema passa alla prima persona singolare, per esprimere quanto le parole che seguono sono sentite nel più profo0ndo del cuore di ciascuno. Gli esiliati sono uniti in maniera indissolubile dall’amore di Sion. Talvolta, per cessare di piangere, basta estirpare un ricordo. Le memorie tenaci sono quelle che soffrono di più. La gioia, talvolta, si nutre dell’oblio. Ma il salmista, invece, preferisce serbare dentro di sé la sorgente inesauribile delle sue lacrime. Sion gli è più cara di ogni gioia. Piuttosto che cedere al richiamo di consolazioni che fanno pensare ad altro, si paralizzi la sua destra e gli si attacchi la lingua al palato, gli scivoli l’arpa o la cetra tra le mani e il canto si strozzi nella gola. Nessuna gioia da strapazzo lo farà rinunciare alla sua unica gioia, oggi immersa nel lutto, Gerusalemme (vv.5-6).

I versetti finali (7-8-9) contengono una maledizione tremenda contro gli artefici della rovina di Gerusalemme: Babilonia ed Edom. Al lodevole sentimento di amore verso la patria oppressa, e al dolore per la distruzione della Città Santa, segue un riprovevole sentimento di odio, che esplode violento contro due stirpi nemiche: quella degli Idumei, discendenti di Esaù, che si rallegravano dei mali abbattuti sui discendenti di Giacobbe, loro fratelli di sangue; quella dei Babilonesi, feroci sterminatori dei popoli del Medio Oriente.

Il salmista applica loro la legge del taglione e, in particolare, desidera la strage dei loro piccoli che, secondo l’uso crudele dei tempi, veniva praticata sfracellandoli sulle pietre. L’autore sacro, che auspicava un Messia giustiziere dei nemici dio Israele, era davvero lungi dall’immaginare un Gesù umile e misericordioso, che avrebbe lottato contro l’unico vero nemico, Satana, e che avrebbe insegnato ai suoi apostoli, ai discepoli e alle folle di perdonare gli offensori, di benedire coloro che li avrebbero maledetti.

Cristianizzazione

Come preghiera di oggi, il salmo interpreta la sofferta nostalgia della Chiesa pellegrina, stretta ogni giorno più dai tentacoli e dalle seduzioni delle moderne Babilonie dissacranti, e da ciò stesso stimolata a una ricerca più pura e più autentica dei valori assoluti della Gerusalemme celeste.

Le vere gioie fanno soffrire. Il divertimento non è forse ciò che il mondo propone per distogliercene? Quante feste e tripudi che hanno l’unico scopo di far dimenticare!

La fede ha qualcosa dell’idea fissa, è il ricordo indelebile e ostinato di destinazioni intraviste: “Nella fede morirono tutti i patriarchi”, pur non avendo conseguito i beni promessi, ma avendoli solo veduti e salutati da lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sopra la terra. Chi dice così, infatti, dimostra di essere alla ricerca di una patria. Se avessero pensato a quella da cui erano usciti, avrebbero avuto possibilità di ritornarvi; ora invece essi aspirano a una patria migliore, cioè a 1quella celeste. Per questo Dio non disdegna di chiamarsi loro Padre: “Perché noi non abbiamo quaggiù una città nella quale resteremo per sempre; noi cerchiamo la città che deve ancora venire. Per mezzo di Gesù, offriamo continuamente a Dio – come sacrificio – le nostre preghiere di lode, il frutto delle nostre labbra che cantano il suo nome”. (Eb.11,14-15).