Libro dei Proverbi: Capitolo 9,1-18

In questo capitolo facciamo diretta conoscenza della Signora Sapienza, con cui abbiamo avuto a che fare nelle precedenti meditazioni, ma non con lei sola. Incontreremo, infatti, anche la Signora Follia.

Dovremo perciò confrontare discorsi e proposte, vedere che cosa significhino, verificare in quale rapporto reciproco si trovino.

Fuori metafora: l’uomo non è solo.

Nessuno può illudersi di muoversi in un mondo asettico e vuoto in cui possa vivere senza decidere e senza scegliere, ma ognuno (e l’esperienza d’ogni giorno lo insegna) si muove in un universo popolato di voci contrastanti che lo chiamano e lo sollecitano, con maggiore o minore intensità, con inviti più o meno densi di contenuto, tanto che è necessario schierarsi: sperare di potere rimanere neutrali è un’illusione pura e semplice. Com’è un’illusione sperare di vivere saggiamente senza contrasti o follemente senza conseguenze.

Per questo motivo, confrontiamo subito i vv.1-6 e 13-18, quasi fossero le due tavole di un dittico, tenendo presente però che le due protagoniste, la Signora Sapienza e la Signora Follia, non vi sono raffigurate staticamente, ieratiche come le immagini delle icone, ma come due personaggi vivi e dotati, ciascuno, di una propria vitalità.

Che aspetto ha la Signora Sapienza?

E’ una donna che si dà da fare secondo un ordine mentale – noi diremmo: secondo una gerarchia di valori e avendo un chiaro obiettivo.

Il suo progettare e agire sono identificati da sette verbi: “edificare”, “scolpire”, “macellare”, “mescolare” (il vino poiché nell’antichità non si bevevo mai vino puro, ma sempre mescolato ad acqua, miele e aromi; e perciò doveva poi essere assaggiato, come vediamo nelle nozze di Cana, per sapere se era stato “trattato” al punto giusto), “imbandire”, “mandare”, “proclamare”.

Sette è un bel numero, confermato da quello delle colonne della casa della Signora Sapienza: significa che costei sa quel che vuole, appunto, e che sa come arrivarci, fino ai dettagli eleganti. Tanto che prende l’iniziativa di mandare messaggeri e sa offrire ai suoi invitati cibo e bevande di qualità.

La Signora Sapienza agisce apertamente, invita perché ha delle proposte autentiche da fare, in cui non c’è nulla da tenere nascosto. Incarna quindi un modo di essere che si propone non come pura apparenza, ma come progetto che sa attuarsi, durare e proporsi.

Diversa è la fisionomia della Signora Follia.

Di lei si dice dove e come si presenta, ma non è “in azione”; anzi, non sta facendo proprio nulla.

Il suo ritratto ha dapprima qualcosa di popolaresco: seduta alla porta di casa, e tuttavia in una buona posizione per controllare il passaggio della gente, chiacchiera e crede forse alle chiacchiere che sente, senza occuparsi di nulla di serio.

Né ha proposte da fare, tanto che non invita nessuno, ma piuttosto “cattura” offrendo pane e acqua – roba semplice, ma condita di clandestinità come qualcosa di proibito. Alcuni interpreti vedono in questo alimento immediato, e tuttavia proposto con aria di mistero (v.17), un’allusione sessuale: il tipico frutto proibito dell’adulterio.

La Signora Follia ha, infatti, le caratteristiche della donna straniera o della donna di malaffare di cui parla il cap.7 dei Proverbi.

Benché abbiano tratti comuni, le due donne rappresentano dunque due realtà molto diverse e, anzi, due direzioni opposte per chi transita sulla strada della vita. Esse usano un linguaggio a tratti simile, talché si richiede grande attenzione per discernere la verità dei loro discorsi: che cosa c’è, per esempio, di più semplice, immediato e genuino che pane e acqua?

Perché, al contrario, l’una è “rubata” e l’altro è “clandestino?

Simili a loro, del resto, sono le loro case.

La Signora Sapienza costruisce la sua casa da sé (v.1); la Signora Follia pare del tutto incapace di edificarsela, ma sappiamo chi abita la sua dimora e dove essa è collocata (v.18). Essa vive, di fatto, coi morti e negli abissi della morte.

Ascoltare e dare retta all’una o all’altra, accettare cioè di sedere alla loro tavola e di condividere il loro cibo, non è perciò cosa da prendere alla leggera: è questione di vita o di morte.

Naturalmente tanto la tradizione ebraica quanto quella cristiana hanno dato ampie interpretazioni allegoriche delle due dame che abbiamo appena conosciuto. I rabbini collegano la signora Sapienza al tempio e al culto che vi si svolgeva, per via delle sette colonne e del cibo, che ricorda un banchetto sacrificale; il mondo cristiano ne ha dato invece due letture, riferendo l’immagine della Sapienza sia a Cristo sia alla Chiesa.

Resta almeno un problema.

Chi sono i destinatari cui le nostre dame si rivolgono?

Esse parlano agli “inetti” e ai “senza giudizio”. Ma ad altri destinatari si allude nei vv.7-12, dove compaiono un “beffardo” e un “empio”, poi un “saggio” e un “giusto” per la lunghezza di sei versetti, tanti quanto ne erano stati dedicati alla Signora Sapienza e alla Signora Follia rispettivamente. Non è improbabile che costoro rappresentino le categorie degli inetti…dopo l’ascolto delle due dame; secondo la decisione, l’inettitudine di partenza diventa arroganza o empietà o giustizia.

All’inizio di questa serie di versetti troviamo, infatti:

  • un avvertimento per i maestri (vv.7-9);
  • viene poi enunciato il criterio per accedere alla familiarità con la Signora Sapienza (v.10), ed è il primo ed unico rimando esplicito a Dio;
  • infine si dà l’esito dell’essere “saggio” o “beffardo”.

Dopo dunque gli inesperti, troviamo figure connotate in chiave positiva e negativa, come se gli inesperti medesimi non potessero, alla lunga rimanere tali, ma fossero costretti a schierarsi, prima o poi, che lo vogliano o no.

E’ certo che non esiste autentica saggezza senza onestà, e che l’essere arroganti è comunque sempre una colpa, come conclude il v.12 con il tono tipico della sentenza. Altrettanto certo è che la saggezza non può prescindere dalla relazione con Dio.

Di partenza siamo quindi tutti inesperti e variamente esposti a voci contrastanti. Poi ognuno decide, movendosi su tre piani: quello religioso, quello etico e quello sapienziale, che esiste in relazione soprattutto al primo. Persino chi deve istruire deve rendersi conto della complessità del problema e non perdere tempo e forze in fatiche inutili (vv.7-9).

Sballottati da forze e voci contrastanti (se tali erano per l’uomo antico, possiamo figurarci come siamo oggi!) coloro che desiderano vivere secondo saggezza hanno davanti dunque un compito non facile.

Negativocertamente: quasi tutto il Libro dei Proverbi, infatti, è giocato più su istruzioni del tipo “non fare”, “non dire” che su proposte positive. E poi di ricerca, perché l’indicazione negativa ha il compito di mettere sulla strada per cercare di volta in volta che cosa si debba fare o dire positivamente, responsabilizzando l’uomo ad ascoltare la voce della Signora Sapienza senza prestare orecchio alla Signora Follia.

Quella che potrebbe sembrare superficialmente una formazione basata solo su proibizioni, è un invito a cercare il “sì” del vivere attraverso i “no”, perché le decisioni in positivo sono “del momento” e sono atti creativi “del momento”, da riprendere e rinnovare ogni volta.

Esse dipendono dall’ascoltare e dal come si ascolta, dal come si troverà il cuore nella situazione concreta, per usare un’espressione cara alla tradizione rabbinica: e dallo stato del proprio cuore non si può essere certi una volta per sempre.

Noi tutti siamo sempre esposti alla voce delle due dame, a nostro rischio, naturalmente. Ascoltare ha una forte affinità col mangiare e il nutrirsi: l’uomo è certo ciò che mangia, ma è anche ciò che legge e ciò che ascolta: nell’A.T. questo è detto decine di volte.

Questo spiega l’importanza delle due diverse mense che abbiamo meditato. La diversità riguarda, più che il cibo in quanto tale, la padrona di casa. Per questo forse non sarà male ricordare qualche nostro proverbio popolare di senso prossimo alla tematica che abbiamo visto, anche se di gran lunga più banale, come per esempio:

Dimmi con chi vai
E ti dirò chi sei.

Dal commento sui Proverbi di Procopio di Gaza:

“La Sapienza si è costruita la casa” (Pr.9,1). La potenza di Dio e del Padre, per se stessa sussistente, si è preparata, come propria dimora, l’universo intero, nel quale abita con la sua forza creatrice. Questo universo che è stato creato a immagine e somiglianza di Dio, consta di natura visibile e invisibile.

“Ha intagliato le sue sette colonne” (Pr.9,1). L’uomo fu formato dopo la creazione a somiglianza di Cristo, perché crescesse in lui e osservasse i suoi comandamenti. A lui Dio ha dato i sette carismi dello Spirito Santo. Essi mediante la fortezza manifestano la scienza. Questi carismi perfezionano l’uomo spirituale, lo confermano nella fede e lo portano alla completa partecipazione delle realtà trascendenti. Lo splendore naturale dello Spirito viene esaltato dai vari doni.

Detti dei Padri della Mishna di Ibn Nachmìas:

Prima di ricevere la Torah (cioè nella preparazione alla festa di Pentecoste) è opportuno ascoltare degli insegnamenti morali, secondo quanto sta scritto: “Ascoltate l’istruzione e sarete sapienti” (Pr.8,33). Il nostro timore del peccato, infatti, precede necessariamente la nostra sapienza.

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