Libro dei Proverbi: Capitolo 1.1-19

Commento

Per avere uno “stato” a pieno titolo ci vogliono, tra le altre cose: una diplomazia, un sistema giuridico, una burocrazia, della gente che scriva di cronaca e storia, degli archivi; in poche parole: una classe dirigente, degli intellettuali e dei “quadri”, ieri come oggi. In buona sostanza ci vuole una cultura, e quindi una scuola.

Una scuola in cui imparare a leggere e a scrivere in più lingue e secondo diverse culture, in cui studiare ed esercitarsi su testi che riflettano al meglio la cultura del proprio tempo o enciclopedia, in modo che chi governa rispecchi e rilanci la cultura del proprio popolo e del proprio tempo.

Ma per avere uno “stato” degno di questo nome è necessaria soprattutto un’etica comune, in altre parole una serie di regole che guidino il comportamento, in cui tutti si possano riconoscere e che esprimano una solidarietà collettiva, in cui può entrare la professione di una fede religiosa, ma che deve in ogni caso valere anche per chi tale fede non professi. In poche parole un’etica laica, ma assolutamente non atea.

Per l’uomo antico infatti l’ateismo era una stoltezza e nessuno negava l’esistenza di Dio, ma piuttosto la provvidenza e il fatto che Dio avesse a che fare con la storia umana. L’etica perciò doveva potere valere tanto per il pio israelita, convinto che Dio si rivela nella storia, quanto per il pagano che gli viveva accanto, ma non credeva più di tanto al coinvolgimento divino nella storia umana.

Di questo (ma non di questo soltanto) era ben consapevole Salomone cui la tradizione attribuisce tutto il testo, allorché giunse ad ereditare un regno faticosamente unificato dal padre, e a questo pensano parecchi studiosi quando si tratta di spiegare come nasca il Libro dei Proverbi; esso sarebbe dunque una sorta di abbecedario per gli scribi di corte, preso in prestito parzialmente dalla cultura egiziana (che Salomone conosceva), per formare i funzionari del regno sull’arte del leggere e dello scrivere e sulle norme dell’etica che regolano il buon vivere umano, con le norme del buon governo e della convivenza che coinvolge tutti i sudditi del regno medesimo, quale che sia la loro provenienza.

Talché il Libro dei Proverbi è essenzialmente un libro di cultura laica, con radici nella sapienza egiziana e del vicino Oriente in generale, ripensata e reinterpretata a tratti in chiave nazional-religiosa: israelitica, nel nostro caso.

Stando così le cose, non dovremmo meravigliarci del fatto che certe parti del Libro siano particolarmente antiche e portatrici di un tipo di saggezza spicciola che pare prescindere da forme specifiche di fede. Altre invece rispecchiano più da vicino il modo con cui Israele ha saputo accogliere, interpretare e reinventare (inculturare, si usa dire oggi) la saggezza degli altri in una chiave propria: sono quindi più mature e di epoca più recente.

Dietro al testo dei Proverbi, così come lo abbiamo oggi stampato nelle nostre Bibbie, ci sono alcuni secoli di lavoro. Indicherò, di volta in volta, a seconda del passo che si medita, a quale periodo risale, nei limiti del possibile.

E’ abbastanza facile capire infatti che i Proverbi poiché espressione di una saggezza popolare, nascano in tempi diversi, siano rielaborati e poi raccolti in un tempo ancora successivo, o in base al tema cui si riferiscono, o perché sono attribuiti a qualcuno, o perché hanno dei modi di dire comuni.

In ebraico il proverbio si chiama Mashàl (il libro, perciò si chiama Mishléy, al plurale), termine che indica, in origine un detto popolare breve, incisivo e magari un po’ piccante perché ironico o sarcastico. In un secondo momento, la stessa parola si applica a un detto più sentenzioso, solenne e formale. Perde cioè le caratteristiche popolari originarie, come se andasse a scuola di buone maniere.

E’ abbastanza difficile identificare con certezza una struttura del Libro: gli studiosi fanno alcune proposte, ma, di fatto, la lettura del testo pone sempre molti problemi.

Esso conserva però la sua importanza didattica e pedagogica: leggeremo come San Girolamo lo considerasse ancora il primo libro di lettura da mettere in mano a un bambino e vedremo come noi stessi, ancora oggi, usiamo proverbi nel nostro linguaggio quotidiano senza accorgercene.

Secondo uno studioso, infine, perfino il linguaggio moderno della pubblicità (gli spots) risente dello stile del proverbio. Certe formule pubblicitarie non sono che proverbi per far memorizzare un prodotto, anziché sapienza.

Abbiamo perciò a che fare con un Libro di grande interesse, perché, da un parte, ci riporta all’alfabeto dell’educazione alla sapienza, dall’altra può aiutarci a smascherare la manipolazione del linguaggio cui molti di noi sono sottoposti quotidianamente dalla pubblicità.

Il vero problema, infatti, per noi occidentali, è tornare ad essere padroni delle nostre parole attraverso l’unica Parola di Dio, per essere capaci di fede e testimonianza autentiche, rieducandoci a chiamare le cose con il loro nome.

Il testo di apertura si compone di due sezioni contigue che esaminiamo separatamente.

La prima sezione comprende i vv.1-7 e ci presenta titolo e autore del Libro, oltre allo scopo per cui è stato compilato. Potremmo paragonarla ai risguardi della sovraccoperta di un libro di oggi. Essa indica anche le formule (o generi letterari) usate nel Libro stesso per conseguire il proprio scopo: proverbi, detti, massime ed enigmi. In ogni caso siamo subito posti di fronte a una specie di scelta fondamentale da compiere tra due campi:

l’ambito della saggezza cui sono correlate: la disciplina, le massime istruttive, l’educazione, tre qualità etiche: onestà, diritto e rettitudine, rispetto del Signore; il tutto è riassunto dall’immagine del ragazzo che, da ingenuo, diventa sagace, saggio e riflessivo (v.4) e dalla persona capace di ascoltare e usare l’intelletto (v.5);

l’opposto ambito della stoltezza fino all’empietà, che nasce dal disprezzo per il senno e per la disciplina (v.7).

I due ambiti stilizzati di tipi umani emergono anche dal Salmo 1.

Il grande criterio discriminante tra i due è il timore del Signore, che certamente è preferibile tradurre “il rispetto del Signore”, perché timore è una parola che presenta per noi una vena di paura che l’ebraico non ha.

Questa introduzione ci dà un avvertimento molto importante: formazione e educazione sono essenziali, ma esigono l’arte di capire e di interpretare attraverso la docilità e la disciplina.

Ai vv.8-19 troviamo l’esordio della prima grande raccolta di detti. L’inizio è piuttosto solenne, col vocativo iniziale, figlio mio, ripreso ai vv.10 e 15. L’educazione si svolge dunque all’interno della famiglia: sono i genitori ad offrire una torah al figlio (v.8),anzi, a partire da questo testo acquista grande importanza nel mondo ebraico la persona della madre, perché è la prima ad educare i figli e come tale esercita 8un vero e proprio sacerdozio all’interno della famiglia. L’educazione paterna infatti subentra solo al nono anno di età di un figlio maschio in vista del raggiungimento della maggiore età a tredici anni.

Stando al nostro testo, si tratta di un’istruzione etica: non esplicitamente religiosa e neppure semplicemente scolastica; essa è considerata una parure di gioielli che i genitori regalano al figlio traendola dal tesoro stesso della loro esperienza.

Tale insegnamento pone però subito di fronte all’eventualità di una situazione insostenibile e il figlio deve subito essere messo in guardia dalle conseguenze di scelte sbagliate, a partire dalle compagnie che fanno dimenticare i comandamenti, qui riportati indirettamente:

v.12 non uccidere;

v.13 non rubare.

Il figlio è perciò invitato a non seguire la via degli empi, e questo primo insegnamento si chiude con due proverbi (al v.17 e al v.19) che hanno la funzione di sintetizzare l’intera esortazione e chiuderla in due formule che a nostra volta possiamo reinventare così:

Uomo avvisato, mezzo salvato;

Chi la fa, l’aspetti.

Leggiamo attentamente i due brani seguenti, uno della tradizione cristiana, uno dalla tradizione ebraica.

Dalla Lettera di San Girolamo a Leta (in questa lettera Girolamo dà istruzioni a Leta per l’educazione della figlioletta appena nata).

Si abitui a non sentire nulla, a non parlare di nulla che non la porti al timore di Dio…;la sua lingua, mentre è ancora tenera, deve impregnarsi della dolcezza dei Salmi…Insomma, non impari alla sua tenera età cose che dovrebbe poi disimparare…Ogni giorno ti reciti un determinato brano della Scrittura…Invece delle gemme e dei vestiti di seta ami li libri divini…La prima cosa che deve imparare è il Salterio; i Salmi le devono far dimenticare le canzonette. Nei Proverbi di Salomone attinga poi le norme per vivere. Con l’Ecclesiaste deve abituarsi a valutare un’acca le cose del mondo. Nel libro di Giobbe deve cercare di imitare gli esempi di fortezza e di pazienza. Passi poi ai Vangeli, che mai le sue mani dovranno posare. Con tutto il desiderio del suo cuore si disseti agli Atti degli Apostoli e alle Lettere. Dopo aver ben riempito il cuore con questi tesori, impari a memoria i Profeti, e i primi Sette Libri (da Genesi a Giudici compresi), i libri dei Re e le Cronache, Esdra e Ester, per poter in ultimo imparare senza rischi il Cantico dei Cantici, dato che se lo leggesse subito da principio, non riuscendo a scorgere sotto quelle espressioni carnali il canto delle nozze spirituali, ne resterebbe ferita.

Dal Trattato Detti dei Padri della Mishna (II° secolo e V°).

Hillel dice: Non separarti dalla comunità, non fidarti di te stesso fino al giorno della tua morte, e non giudicare il tuo prossimo finché non ti sei messo al posto suo. Non dire che una cosa non si può capire, perché infine sarà capita. E non dire: Studierò quando ne avrò tempo, perché forse non ne avrai mai di tempo.

Shammaj dice: Fai della tua Torah un’occupazione fissa. Parla poco e fa molto. E accogli ogni uomo con volto gioviale.

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